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L’ONESTÀ DI MUSSOLINI E LA PRASSI DEL LADROCIGNO POLITICO DI OGGI!

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FASCISMO E POVERTA’

 

 

Molti anni fa, l’ex tenente della Decima Mas, Walter Annichiarico, in arte Walter Chiari, si fece scappare una azzardata battuta che dovette poi pagare con anni di ostracismo anifascista. Disse, il povero Walter, che “quando appesero per i piedi la Buonanima, dalle tasche di Benito non cadde nemmeno una monetina e che se i nuovi reggitori d’Italia avessero subito la stessa sorte chissà cosa sarebbe uscito dai portafogli di lorsignori “.

 

1)  L’onestà del Duce nessuno ha mai osato contestarla. E’ uno storico di matrice socialista, Silvio Bertoldi, che lo ammette.

“Mussolini non tradì cupidigia d denaro…egli non mostrò mai interesse alla ricchezza: e non si può contestare che un uomo che ebbe come lui in mano per vent’anni una nazione, e che non subì alcun controllo in nessun campo, avrebbe avuto facoltà, pur che avesse voluto, di costruirsi una fortuna. Invece quando morì, alla vedova non lasciò praticamente nulla, la già citata villa Carpena e una casetta a Riccione, e basta; e la sua famiglia uscì netta da qualsiasi indagine della commissione per gli illeciti arricchimenti”.

 

2) Prima della morte, a Gargnano, viveva in povertà certosina. Giovanni Dolfin racconta che non volle accettare nemmeno lo stipendio di capo della RSI, dicendogli: “Ma di che cosa ho bisogno io, ormai? Mangiare, non mangio più nulla. Vestiti non me ne occorrono. Cento lire al giorno mi bastano”.

Quinto Navarra, il fedele e pettegolo cameriere, testimonia che nei due anni di permanenza sul Garda, si comprò solo due paia di stivali e, per gli abiti, mandò a stringere da un sarto quelli che aveva per non comprarne di altri.

 

3) Chiavolini, suo segretario particolare, narra che dovendo il Duce venire a Roma da Milano ed alloggiare in albergo, prese con sè venti biglietti da dieci lire ed era turbatissimo poichè pensava di avere addosso un patrimonio. Come si sa, per tutta la durata del Regime, non prese mai lo stipendio di Primo Ministro e viveva scrivendo articoli sulla stampa estera. Lo conferma anche Nicola De Cesare, che fu suo segretario dal ’41 al ’43, il quale aggiunge:

“Tutti i denari che gli pervenivano come lasciti, elargizioni e altro, li consegnava a me perchè li amministrassi. Andavano, fino all’ultima lira, in sussidi e beneficenza. Distribuivamo circa diciotto milioni di sussidi all’anno, milioni di allora”.

 

4)    Dice ancora Bertoldi esser assodato che Mussolini “non tenesse in molto conto il denaro, che addirittura ne conoscesse male il valore, che non cedesse alle lusinghe della ricchezza, che per sè si è sempre accontentato di poco”. E sapete come Mussolini utilizzava i cosiddetti “fondi di polizia”? “Adoperava quei denari per finanaziare lavori straordinari e impegnarvi mano d’opera disoccupata e in sussidi a povera gente che arrivava fin da lui per domandargli soccorso”.

 

5) Proprio come è successo dopo, con Scotti, Scafaro, Mancino e democristiani viminaleschi vari.

 

Ma era una caratteristica di Mussolini, tutta sua, personale, quella del piacere dell’onestà che fatalmente conduce al dovere della povertà? No, è l’essenza esistenziale del fascismo.

 

Questo “male del secolo” non sarebbe tale se non fosse incarnato in una diversità “antropologica” rispetto alla mentalità borghese e all’”ideologia” amerikana. E non c’è maggior verifica se non quella del sacrificio personale, della rinuncia volontaria, della testimonianza umana di saper vivere una vita di valori rifiutando il ricatto del Dio Denaro. E’ sempre, eternamente, ogni giorno, la guerra del sangue contro l’oro, dello spirito contro lo “sterco del diavolo”.

Una generazione di “fascisti” o “parafascisti” è morta disprezzando il denaro e la ricchezza. E’ stata l’ultima grande lezione di vita di una schiatta umana eroica, alternativa all’homo oeconomicus.

 

Gabriele D’Annunzio, il Vate, è noto per essere stato uno spendaccione incedibile, indebitato per tutta la vita, assolutamente incosciente del valore dei soldi. Tutta una vita vissuta tra miseria e nobiltà. Quando Mussolini gli finanziò i lavori del Vittoriale, fece scrivere sul suo ingresso “Io ho quel che ho donato” e regalò la villa all’Italia.

 

6)     Marinetti non era da meno. In un quarto di secolo era riuscito a dissolvere completamente il cospicuo patrimonio multimiliardario ereditato dal padre, rimanendo sul lastrico. I soldi li aveva spesi tutti in offerte incredibili a pittori e artisti vari vicini al suo movimento oltre che in viaggi. La signora Marinetti, si faceva più scrupolo del marito ad accettare quei soldi e scrisse a Morgagni che, in tempo di guerra, “tra il sentimento materno e la disciplina patriottica” essa esitava a prendere quei soldi. Il vecchio Marinetti aveva ormai 66 anni, ma gli parvero sufficienti per andare ad arruolarsi volontario sul fronte russo. Ritornò malatissimo, per aderire alla RSI. Morì poco dopo in una modesta abitazione, il cui affitto glielo pagava l’Ambasciatore giapponese Hidaka, dal momento che morì come visse: sempre con le tasche vuote.

 

Di Achille Starace, il “cretino ubbidiente” più potente d’Italia dopo il Duce, scrive Bruno Gatta che, durante la RSI, “conduceva a Milano una vita da sbandato. ..I familiari, di tanto in tanto, gli facevano trovare in portineria un piatto di minestra…Viveva in una piccola stanzetta e frequentava la mensa collettiva di guerra istituita dal Comune. Si metteva disciplinatamente in coda nella fila sempre molto lunga e aspettava il suo turno”.

Indossava sempre una tuta blù da ginnastica (che costituiva tutto il suo guardaroba) e lo uccisero così, nella sua nuda povertà, in piazza Loreto, con ai piedi delle scarpette di tela, davanti al cadavere del suo Duce.

 

Carlo Alberto Biggini, per anni Ministro dell’Educazione Nazionale, uomo sensibilissimo e colto, morì povero in clandestinità alla fine del ’45.

 

Antonio Segni, che negli Anni Trenta, era stato suo collega come docente all’Universtà di Sassari, dispose poi che alla vedova Maria Bianca, rimasta senza alcun sostentamento per vivere, fosse dato un piccolo assegno vitalizio, che Maria Bianca rifiutò optando per una misera pensione sociale.

 

Bombacci, si sa, visse sempre in gravi ristrettezze economiche, nonostante la sua intima amicizia con Mussolini, il quale dovette faticare per fargli arrivare, di tanto in tanto, qualche piccolo aiuto finanziario.

 

Angiolo Bencini, il direttore del Selvaggio, per campare faceva il vinaio.

 

Uno scrittore come Marcello Gallian, ammalatosi precocemente di nostalgismo squadrista, finì miseramente i suoi giorni, vendendo clandestinamente sigarette alla Stazione Termini di Roma.

 

Araldo Di Crollalanza, per tanti anni Ministro dei Lavori Pubblici, nel dopoguerra, per sbarcare il lunario, dovette mettersi a fare il rappresentante di libri e bussare di porta in porta.

 

La Commissione provinciale per le sanzioni contro il fascismo, il 19 maggio 1947, nel giudicare Giuseppe Caradonna, il ras di Capitanata, scriveva: “il suo disinteresse vien messo in evidenza dal fatto che egli ha preferito sempre sostenere le ragioni del povero contro il ricco, del debole contro il forte, dell’umile contro il prepotente”.

 

Ed a Piacenza, il ras degli squadristi, Bernardo Barbiellini Amidei, veniva chimato il “conte rosso” per le sue strenue battaglie in difesa dei poveri e degli emarginati. Un’altra razza, un’altra Italia.

 

Un male del secolo, il fascismo, un male universale. Alcuni anni fa, in una intervista televisiva,  Ileana Codreanu, la moglie del Capitano romeno, raccontò di Corneliu:

“Era molto caritatevole con  tutte le persone povere. Quando si procurava del denaro, prima lo divideva tra coloro cui intendeva donarlo, poi tornava a casa con quello che gli era rimasto. Se non gli rimaneva nulla, si rivoltava le fodere delle tasche e diceva: ‘Non ho niente. Non ho più niente. Tutto quello che avevo l’ho già distribuito’. Davanti a dichiarazioni di questo genere, che potevo dire? Non c’era niente da dire. Dovevi accettare, e basta”.

 

Simone Mittre narra che il dottor Louis-Ferdinand Destouches, in arte Celine, la presenza più “terribile” e inquietante della cultura “fascista” (comunque il più grande scrittore che io conosca) a Sigmaringen

“s’installò con la moglie in una stanza minuscola, senza comfort, con un vetro alla finestra rotto, e faceva un freddo glaciale. In quella stanzuccia e sul proprio letto egli riceveva, esaminava e curava gli ammalati. La miseria era grande; alcuni, costretti a dormire sotto le tende, o nell’atrio delle stazioni, avevano contratto la scabbia. Celine curava tutti senza far distinzioni. Indipendente per natura, faceva soltanto quel che gli suggeriva il cuore, incurante del proprio interesse e dei commenti della gente. Se lo chiamavano di notte, partiva con la neve alta, e spesso per posti lontani, senza una lampadina elettrica. E non domandava mai un centesimo a nessuno. Capace anche d’andare ad acquistare lui stesso dal farmacista le medicine per i malati”.

Finì i suoi giorni, quasi d’inedia, in una misera catapecchia alla periferia di Parigi, in compagnia del suo cane Bebert.

 

   E il  Dopoguerra? Non fu certo felice per i superstiti.

 

Augusto De Marsanich girava coi calzoni rivoltati e Giorgio Almirante, dice Giancarlo Perna, “era l’uomo più disinteressato della Terra. Non aveva mai una lira in tasca. Era magro come uno stecchino, aveva la barba di due giorni e vestiva come un barbone. Viaggiava con una Dauphine che doveva parcheggiare in discesa per poterla riavviare”. Erano ancora, tutti, dei refrattari alla modernità economicistica e tutti “condizionati dalle economie arcaiche, dove la prativa del dono era più importante e più frequente di quella del mercato” come lucidamente osserva Giano Accame.

 

   Poi…poi tutto è cambiato.

 

La tentazione parlamentare ha sostituito il cuore col portafoglio e la Grande Meretrice democratica se li è portati quasi tutti nell’inferno di Mammona.

 

Guardatelo bene, oggi, il “nuovo che avanza”. Ancora una volta, l’oro contro il sangue, con le trincee rovesciate. Perchè tanti rinnegati e riciclati in Alleanza Nazionale, se non per la brama del potere, del successo, dell’accumulo bancario?

 

E ci meravigliamo che la sciocchina-nipotina Alessandra è coinvolta in Affittopoli andando ad abitare in una appartamento di ben 120 metri quadrati, in via Nomentana, vicino a Villa Torlonia, di proprietà pubblica, e pagando 350.000 lire al mese? Che gliene frega all’ex modella di Playmen se il Nonno può anche rivoltarsi nella tomba?

 

E ci stupiamo se a Bari l’on. Giuseppe Tatarella vive in un appartamento dell’INA Casa, nella centralissima via Abate Gimma?

 

E se lo stesso fa a Roma, il Segretario Generale della Cisnal?

 

E ci scandalizziamo se anche il Buontempo, che una volta conviveva con le pecore di Carunchio, oggi manda i figli a studiare negli esclusivi colleges inglesi e di notte si tramuta nel re del Gilda on the beach, abbrancato alle nobili e prosperose forme di Giorgia Martini e Stafania Barberini?

 

O se il ricco Larussa mefistofelicamente se la spassa in tutti i nights con personaggi eccelsi come Heather Parisi e il trans Maurizia (o) Paradiso?

 

Non seguono anche loro l’esempio di Lady Daniela Di Sotto in Fini, scatenata e scosciatissima danzatrice rock, oltre che tatuatissima dark?

 

Pensate un po’: da Donna Rachele a lady Daniela, da Benito a lord Gianfranco, da “fascismo e povertà” ad antifascismo e mangiatoia.

 

Aveva proprio torto Chamfort ad asserire che:

la società si divide in due grandi categorie: quelli che hanno più pranzo che appetito e quelli che hanno più appetito che pranzi“?

 

Pino Tosca

 

 

 

LE “PROPRIETÀ” DEL DUCE

 

Mussolini di beni immobili possedeva poco o nulla.

La Rocca delle Camminate gli era stata donata dalla Provincia di Forlì, (in verità era stata donata dagli abitanti di Ravenna, che l’avevano acquistata pagandola una lira pro-capite-) mentre una  modesta villetta  a Riccione se l’era comprata con i risparmi dei suoi articoli e la Villa Carpena era stata acquistata dalla moglie Rachele in anni lontani con i propri risparmi.

 

Il Duce non riscosse mai lo stipendio da Primo ministro, al contrario dei suoi successori del dopoguerra, che non solo lo presero, ma quasi tutti lo cumularono con quello di dipendente dello Stato,(docente universitario, magistrato, ecc) essendosi messi tutti prudentemente in aspettativa.

Il suo ultimo segretario, Nicolò De Cesare, testimoniò: “Ritirava soltanto l’identià di deputato e la consegnava a me. Io avevo l’incarico di investirla in Buoni del Tesoro. L’importo di quelle economie, alla vigilia del 25 aprile 1945, dopo 23 anni di potere, consisteva in un milione e cinquecento mila lire, depositate presso la Banca d’Italia di Brescia. Per il periodo che gli sono stato a fianco, posso assicurare che viveva degli introiti del “Popolo d’Italia,” versati due volte all’anno dall’amministratore del giornale, Barella. Le altre sue entrate provenivano da articoli per la  stampa estera, specie quella americana, pagati profumatamente. Tutti i denari che gli pervenivano da lasciti, elargizioni e simili li consegnava a me, perchè li amministrassi. Andavano tutti fino all’ultima lira in beneficenza. Distribuivamo circa diciotto milioni di sussidi all’anno, diciotto milioni d’allora.”

 

Un’idea precisa dei beni liquidi di Mussolini la si può ricavare dalle carte della segreteria personale del Duce, conservate all’Archivio di Stato. In esse figura un prospetto della situazione preparato  in occasione della loro consegna, durante il governo Badoglio, al figlio Vittorio :

 

“Lire 431. 308,30 in contanti;

 

500.000, assegno bancario n°43/109259 del Banco di Roma;

 

100.000, quattro ricevute provvisorie della Banca d’Italia(n.274),del Banco di Sicilia(n.142),del Banco di Napoli(N.457) e dell’Istituto di Credito delle Casse di Risparmio Italiane(n.10) di lire 25.000 ciascuna relative alla sottoscrizione in buoni del tesoro quinquennali 5% 1948;

 

4.000.000, quaranta cartelle di lire centomila ciascuna di BTN 1949 con cedola scadente il 15 febbraio 1944;

 

1.000.000, dieci cartelle da centomila ciascuna di BTN 1950 (1.a emissione) con cedola scadenza 15 febbraio 1944;

 

900.000, nove cartelle da centomila ciascuna di BTN 1950 (2.a emissione) con cedola scadenza 15 marzo 1944;

 

700.000, sei cartelle da centomila ciascuna  e due cartelle da cinquantamila ciascuna di BTN 1951 5%  con cedola scadenza 15 aprile 1944;

 

500.000, cinque cartelle da centomila ciascuna di BTN 4%1951 con cedola scadenza 15 marzo 1944;

 

500.000 con una ricevuta provvisoria della Banca d’Italia (n. 49) per altrettante nominali sottoscritte in buoni del tesoro quinquennali 5% 1948;

 

25.000 cinque obbligazioni del PNF per la costruenda casa Littoria , di lire 5000 ciascuna , 5% con cedola scadenza 1 ottobre 1943;

 

10.000 ricevuta provvisoria della Soc. An. Cooperativa Edificatrice di abitazione per gli operai di Como (n. 4277) per altrettante nominali sottoscritte”

 

 

Fonte: visto su L’ALTRA VERITA’

Link: http://www.laltraverita.it/Fascismoepoverta.htm

 

 

 


GIUSEPPE GARIBALDI, IL PRIMO FASCISTA

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di GILBERTO ONETO

 

Garibaldi resta la più intoccabile delle icone sacre dell’italianità: resiste a ogni ricerca storiografica, a ogni rivisitazione o analisi – come si dice oggi – revisionista.

La sua posizione resta solida per la resistenza della vulgata “ufficiale” (favorita dalla scarsa diffusione di cultura storica che per la stragrande maggioranza dei cittadini si limita a quella acriticamente assorbita sui banchi di scuola), per il relativo splendore del personaggio rispetto alle meschine angustie di tutti gli altri padri, zii e cugini della Patria, ma soprattutto per la sua versatilità ideologica.

L’immagine di Garibaldi è andata bene per massoni e anticlericali (ed è facile capirne le ragioni) ma anche per socialisti e comunisti (che nel 1948 ne hanno usato l’effige come simbolo elettorale), fascisti e nazionalisti, e qualche volta (e questo risulta davvero difficile da capire) addirittura per certi cattolici di stomaco buono.

 

In realtà chi ne può davvero vantare la coerente eredità ideologica (anche se non c’era nulla di coerente e neppure di troppo ideologico nel confuso pensiero dell’Eroe dei Due Mondi) è la destra nazionalista. Sono negli ultimi tempi stati editi alcuni studi che tracciano con chiarezza il solido legame di idee e comportamenti che c’è fra Garibaldi e il fascismo (appena mediato dal “crispismo”, che era cresciuto per contatto personale  fra Crispi e il Generale) ma è un bel libro di Marcello Caroti che più di altri scandaglia le profondità culturali (si fa per dire) in cui si è sviluppato il legame fra camice rosse e camice nere, fra l’autoritarismo dittatoriale teorizzato da Garibaldi e il sistema politico realizzato da Mussolini.

 

Con buona pace di una volonterosa parte della sinistra che ha cercato di “recuperare” Garibaldi fra le sue fila (le varie “Brigate Garibaldi” di Spagna e della Guerra Civile, i fazzoletti rossi e il “Fronte Popolare” di cui si è detto), sono i fascisti e i nazionalisti più duri che ne hanno proseguito insegnamenti e seguito gli esempi.

Garibaldi ha sempre proclamato la necessità della “guerra giusta”, della “violenza patriottica”, Garibaldi ha cercato di costruire un esercito popolare parallelo e il solo che ci sia riuscito è il fascismo con la MVSN, le Camice Nere insomma.

Garibaldi teorizzava la “Nazione in armi”, che solo  Mussolini ha cercato di costruire sia pur con le buffonate delle “otto milioni di baionette” e degli esercizi miliari obbligatori dei “sabati fascisti”.

I “legionari di Fiume” e i “marciatori su Roma” sono figli di Garibaldi.

L’idea di sostituire la rappresentanza parlamentare eletta con un dittatore probo e patriottico, il Duce l’ha imparata direttamente dagli scritti del Generale.

Il disprezzo per le istituzioni parlamentari (“ludi cartacei” e “aula sorda e grigia”) i fascisti l’hanno succhiato dal latte tricolore delle mammelle garibaldine.

E anche certo genere un po’ naif di antipolitica odierna deriva dalle elucubrazioni dell’ultimo Garibaldi.

 

Insomma che il fascismo si stato il vero artefice della missione risorgimentale è un fatto che trova molti solidi riscontri, puntualmente raccolti in questo lavoro.

 

Il volume Garibaldi il primo fascista è piacevole da leggere, pieno di spunti e riflessioni interessanti, è ben documentato: è insomma un raro gioiello da non lasciarsi scappare. È naturalmente difficile da trovare (per fortuna c’è Internet) e non sarà certo recensito da alcun quotidianone: è  il sicuro certificato di garanzia della sua qualità. Un altro bel segno è costituito dall’autore che non fa lo storico di mestiere ma per profonda passione, che non prende stipendi per insegnare panzane “politicamente corrette” ma che ci mette del suo per rovistare fra la spazzatura della storia risorgimentale e tirare fuori utili verità.  Sono queste persone che danno la voglia di continuare e che lasciano sperare che – nonostante tutto – le cortine fumogene tricolori non prevarranno.

 

AUTORE: Marcello Caroti; TITOLO: Garibaldi il primo fascista-Le radici del Fascismo nel Risorgimento italiano; EDITORE:  youcanprint.it, 2012; PAGINE: 186; PREZZO: 11,90 Euro

 

 

Fonte: srs di Gilberto Oneto, visto su L’Indipendenza del 1 maggio 2013

Link: http://www.lindipendenzanuova.com/garibaldi-fascista-oneto/

 

DITTATORI IN EUROPA: L’ASCESA DI ALDOLF HITLER


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dal libro: “DITTATURE: la storia occulta” D.ssa Antonella Randazzo

 

La democrazia occidentale nelle sue attuali caratteristiche, è una forma diluita di nazismo o fascismo. Al più è un paravento per mascherare le tendenze naziste e fasciste dell’imperialismo. Perché oggi vi è la guerra, se non per la brama della spartizione delle spoglie del mondo? 
Mohandas Gandhi

 

I governi europei, mossi dall’avidità e dal desiderio di potere, hanno commesso parecchi crimini e genocidi.

Hanno massacrato senza pietà milioni di nativi americani, di africani, di asiatici e di australiani. Ad esempio, gli Herero della Namibia vennero avvelenati o impiccati dalle autorità della Germania imperiale, che li considerava “bestie”.

Gli inglesi fecero lo stesso con molte popolazioni africane ed asiatiche, non esitando a torturare, a violentare e ad umiliare gli indigeni.

I campi di concentramento, con tutte le loro mostruosità, nacquero alla fine del XIX secolo, e si moltiplicarono segretamente durante tutte le guerre.

 

I crimini commessi da Hitler avevano tratto ispirazione da progetti criminali già realizzati da inglesi e americani. Per molti anni ci hanno fatto credere che il nazismo fosse dovuto a ragioni storiche non prevedibili, e che le responsabilità dei crimini nazisti e della guerra fossero esclusivamente sulle spalle di Hitler e dei gerarchi nazisti.

Oggi è possibile provare che l’ascesa al potere di Hitler e la successiva preparazione alla guerra furono organizzate e finanziate dall’élite economico-finanziaria britannica e americana. 
Nel giro di pochi anni, meno di venti anni, la Germania, uscita da una terribile sconfitta e con un debito di guerra colossale, diventò uno dei più ricchi e forti paesi europei. Dall’ascesa di Hitler, in soli sette anni, la Germania diventò in grado di sfidare militarmente una grande potenza mondiale come la Gran Bretagna. Senza aiuti da parte della grande finanza e delle grandi Corporation questo non sarebbe certamente stato possibile. L’aiuto della grande finanza americana giunse anche per evitare che in Germania si affermasse un governo social-comunista.

 

I partiti social-comunisti tedeschi erano fra i più forti in Europa, e la classe operaia tedesca era assai determinata. I sindacati avevano centinaia di migliaia di iscritti. Gli operai tedeschi avevano una chiara coscienza dei loro diritti, e sapevano come poterli difendere. Ad esempio, nel 1922, gli operai delle officine Krupp, rifiutarono l’offerta di acquistare delle azioni, e motivarono la loro scelta dicendo:

L’introduzione di queste azioni non può che nuocere agli operai… lo spirito di solidarietà, che solo può assicurare l’avvenire delle classi lavoratrici, sarebbe considerevolmente indebolito dal fatto che alcuni operai si trovino ad avere gli stessi interessi dei padroni.”[1]

 

Negli anni Trenta, il partito comunista e la socialdemocrazia erano la forza più potente della Germania. Alle elezioni del 1930, il partito di Hitler ebbe sei milioni e mezzo di voti, mentre il partito comunista ottenne 4 milioni e mezzo di voti e la socialdemocrazia 8 milioni e mezzo. I due partiti (socialdemocrazia e partito comunista) se messi insieme avrebbero potuto facilmente sconfiggere il nazismo. Ciò nonostante, nel 1933, Hitler giunse al potere, e si vantò di averlo fatto “senza rompere un vetro”. Ciò accadde perché gli stalinisti tedeschi preferirono allearsi segretamente con i nazisti, per far cadere il governo socialdemocratico. Uno dei comunisti tedeschi, Jan Valtin, raccontò:

 

Fu un’alleanza bizzarra, mai proclamata ufficialmente, né riconosciuta dalla burocrazia rossa né da quella marrone, ma comunque un fatto orribile. Molti dei militanti di base del partito resistettero ostinatamente; troppo disciplinati per denunciare apertamente il comitato centrale, essi intrapresero una silenziosa campagna di resistenza passiva, se non di sabotaggio. Tuttavia gli elementi comunisti più attivi e fedeli, io fra loro, andarono oltre con energia per trasformare quest’ultimo Parteibefehl [ordine del partito] in azione. Si concordarono tregue temporanee e unione delle forze da parte dei seguaci di Stalin e di Hitler allorquando scorgevano l’occasione di fare irruzione e interrompere assemblee e manifestazioni del fronte democratico. Durante il solo 1931, partecipai a decine di queste imprese terroristiche d’intesa con i più feroci elementi nazisti. Io e i miei compagni seguivamo semplicemente gli ordini del partito. Descrivo di seguito alcune di queste imprese per qualificare questa alleanza Dimitrov-Hitler e per illustrare ciò che stava accadendo per tutta la Germania in quel periodo.

 

Nella primavera del 1931, il sindacato socialista dei trasporti aveva indetto un’assemblea dei delegati navali e portuali di tutti i principali porti della Germania occidentale. Il congresso si svolse nella Camera del Lavoro di Brema. Era aperto al pubblico e i lavoratori furono invitati ad ascoltarne lo svolgimento. Il partito comunista mandò un messaggero alla sede del partito nazista, con la proposta di sabotare insieme la conferenza sindacale. Gli uomini di Hitler acconsentirono, come facevano sempre in quei casi. Quando si aprì il congresso, le gallerie erano piene di due o trecento comunisti e nazisti. Io ero responsabile dell’operazione per il partito comunista e un turbolento capo squadrista, di nome Walter Tidow, per i nazisti. In meno di due minuti, ci eravamo accordati per il piano di azione. Appena la conferenza dei socialdemocratici fu ben avviata, mi alzai e lanciai uno sproloquio dalla galleria. Dall’altra parte della sala Tidow fece la stessa cosa. I delegati sindacali rimasero all’inizio senza parole. Poi il relatore diede ordine di cacciare i due facinorosi, io e Tidow, dal palazzo. Ci sedemmo tranquilli, guardando con derisione le squadre di grossi sindacalisti avanzare verso di noi con l’intenzione di cacciarci fuori. Ci rifiutammo di spostarci. Appena il primo delegato sindacale ci toccò, i nostri seguaci si alzarono e scoppiò un pandemonio. I mobili vennero distrutti, i partecipanti picchiati, la sala trasformata in un mattatoio. Raggiungemmo la strada e ci sparpagliammo prima che arrivassero le ambulanze e i Rollkommandos della polizia. Il giorno dopo, sia la stampa nazista che quella del nostro partito raccontarono in prima pagina di come i lavoratori ‘socialisti’, esasperati dalle ‘macchinazioni’ dei propri leader corrotti, avevano dato loro una bella “strigliata proletaria.[2]

 

Grazie a queste strategie, gli operai tedeschi si trovarono soggetti al potere nazista. Salito al potere, Hitler distrusse tutte le organizzazioni operaie. Coloro che avevano difeso gli ideali comunisti e socialdemocratici finirono nei campi di concentramento. Gli stalinisti avevano visto nella socialdemocrazia un pericolo maggiore del nazismo, e avevano rinunciato a difendere gli interessi degli operai in nome di un presunto pericolo che si instaurasse la “democrazia borghese”. Fu così che nel gennaio del 1933 Hitler poté impadronirsi del potere in un paese che aveva il partito comunista più forte in Europa dopo quello russo. Stalin e i suoi compari avevano tradito anche gli operai tedeschi.

 

Chi era davvero Hitler e perché proprio lui è stato messo al potere?

La “missione” di Hitler inizia nel 1919, quando venne incaricato dall’esercito di controllare e spiare l’operato dei socialisti e dei comunisti. L’incarico gli venne dato grazie alla raccomandazione di un suo vecchio amico, Ernst Ròhm, un soldato di ventura che godeva della simpatia degli ufficiali grazie alla sua abilità di arruolare giovani tedeschi nelle S.A. Egli venne assunto nel reparto detto “di chiarimento”, che aveva l’incarico di controllare l’attività dei gruppi politici radicali, in particolare comunisti e socialisti. In questa sua “attività” incontrò Anton Drexler che lo inviterà ad unirsi al Partito dei lavoratori tedeschi, che, nonostante la denominazione, era un gruppo che si opponeva e cercava di contrastare il potere delle classi inferiori. La sua ambizione lo spingerà ad aderire. Successivamente scriverà:

 

Io non avevo l’intenzione di iscrivermi a un partito già costituito, desiderando fondarne uno per conto mio… Io ero povero, senza mezzi. E se ciò era forse la cosa più lieve da sopportare, più grave però era il fatto che appartenevo al gregge degli anonimi, a quei milioni di individui che il destino lascia vivere e poi richiama dalla vita, senza che la loro esistenza sia comunque presa in considerazione da qualcuno. S’aggiunga a ciò la difficoltà che nasceva dalla mia mancanza di istruzione scolastica. Dopo due giorni di tormentosi pensieri, giunsi finalmente alla convinzione che quel passo era necessario. Fu questa la decisione più importante della mia vita. Da quel momento, io non potevo più tornare indietro”.[3]

 

Hitler mostrerà eccellenti capacità organizzative e di propaganda. Il suo primo discorso in pubblico lo esaltò:

Parlai per trenta minuti. E ciò che prima era una semplice convinzione mai controllata, divenne ora una realtà: sapevo parlare in pubblico!”[4]

Da allora le sue energie saranno utilizzate per accrescere questa abilità.
Secondo Dietrich Eckart,[5] Adolf Hitler era l’uomo giusto per imporre alla Germania il potere dell’élite ricca, che avrebbe dominato occultamente:

 

Abbiamo bisogno di un camerata che ci sia Capo… un camerata che sappia sopportare il crepitio della mitragliatrice. La plebaglia ha bisogno di sentire la paura, tanto da farsela sotto. Non possiamo servirci di un ufficiale, perché il popolo non rispetta più gli ufficiali. La migliore soluzione sarebbe un operaio che sappia parlare… A costui non occorrerebbe molto cervello… E dovrebbe essere scapolo, così potremmo avere dalla nostra le donne”.[6]

 

Secondo lo storico Emil Ludwig Fackenheim, Hitler era semplicemente un attore:

 

Non credo che conoscesse la differenza fra recitare e credere… prima dei comizi, Hitler si atteggiava di fronte allo specchio. Era un uomo che veniva considerato un signor nessuno quando nella vita privata si trovava in compagnia di persone qualsiasi, soprattutto donne. Diventava un dio davanti alle masse. L’Hitler pubblico, era una creazione a cui collaboravano insieme l’attore e l’uditorio… Ovviamente è sconvolgente pensare che sei milioni di ebrei siano stati assassinati a causa di un attore”.[7]

 

Si trattava semplicemente di recitare la parte del personaggio capace di incantare le masse per soggiogarle. Hitler era caratterizzato da un’enorme ambizione, che si era alimentata nel tempo a causa delle frustrazioni che aveva subito nelle attività in cui si era cimentato. 
Anche l’antisemitismo era per Hitler un modo per attrarre consensi. In seguito alla pubblicazione del libro di Henry Ford The international Jew (L’ebreo internazionale, 1921), l’antisemitismo aveva fatto presa su molti tedeschi. Il libro venne stampato in mezzo milione di copie e tradotto in sedici lingue. Nella pubblicazione, Ford sosteneva che:

il potere del parassita ebreo è costantemente aumentato. Il pericolo ebraico, che oggi si chiama sionismo, minaccia non solo una nazione, ma tutta l’umanità“.

 

Il libro fu la bibbia di tutti gli antisemiti, compreso Hitler. L’antisemitismo era molto radicato nella cultura europea e americana. Ad esempio, il presidente George Washington aveva messo in guardia più volte sul “pericolo ebraico”:

Essi [gli ebrei] lavorano più efficacemente contro di noi delle armate nemiche. Essi sono cento volte più pericolosi per le nostre libertà e per la grande causa in cui siamo impegnati … Ciò di cui dobbiamo biasimarci più di tutto è che ogni stato, già da tempo, non li ha messi alle strette in quanto flagelli della società e più grandi nemici che abbiamo per la felicità dell’America“.[8]

 

Sempre più intellettuali, giornalisti e persone comuni europee e americane, in seguito a massicce campagne denigratorie, furono propensi a vedere negli ebrei un “pericolo” per il mondo. Gli ebrei venivano descritti dalla propaganda antisemita come avidi, crudeli, e capaci di ordire complotti segreti. Iniziarono a circolare vignette che li rappresentavano come mostri orrendi e ributtanti.

Hitler non aveva creato l’antisemitismo, ma lo aveva ripreso dai personaggi che egli ammirava, per riproporlo in modo vigoroso. Egli considerava Ford come una grande persona, e teneva una sua foto nel suo studio. 
Secondo alcuni studiosi, Hitler fu mentalmente fuorviato anche nelle rischiose operazioni belliche che intraprese. Come raccontò Joachin Von Ribbentrop a Norimberga, Hitler e i gerarchi nazisti (lui compreso) erano convinti che l’accordo con l’Urss (Molotov-Ribbentrop) avrebbe permesso alla Germania di espandersi senza rischiare alcuna guerra con la Francia e l’Inghilterra. Quando invece la guerra scoppiò, Hitler esclamò: “e adesso?”.

 

L’élite ricca inglese e americana aveva aiutato Hitler a salire al potere e ad armarsi.

I piani economici e finanziari della Germania nazista non erano sotto la supervisione di Hitler, ma quest’ultimo riceveva ordini dai proprietari delle banche e delle grandi imprese presenti in Germania.

Peter Calvocoressi, Procuratore a Norimberga, affermò:

Gli industriali erano il motore dello Stato tedesco. Il vero asse portante della Germania non erano le forze armate, o almeno non solo loro, bensì la potenza industriale e finanziaria. Senza di essa non ci sarebbe stato nessun esercito“.

Il compito di Hitler era, per così dire, “tecnico” e di apparenza. Cioè doveva convincere il popolo che il nazismo sarebbe stato provvidenziale per la Germania, e che soltanto un regime così “forte” avrebbe potuto far uscire il Paese dalla miseria, che si era aggravata in seguito al crollo finanziario del 1929. Il gerarca Joachin Von Ribbentrop dirà a Norimberga:

 

La nostra intenzione era quella di salvaguardare le più elementari condizioni per la nostra sussistenza. Esattamente come l’Inghilterra aveva difeso i suoi interessi e assoggettato un quinto della superficie mondiale. Per non parlare degli Usa, che avevano sottomesso un intero continente, e della Russia, che aveva posto sotto la propria egemonia la più grande massa continentale esistente sulla terra. La povertà e la disoccupazione furono i cavalli di battaglia della propaganda nazista, e permisero a Hitler di proporre un progetto di ampia statalizzazione, analogo a quello realizzato in Italia e nell’Urss”.[9]

 

L’abilità oratoria permetterà a Hitler di convincere la maggior parte della popolazione, che si affidò a lui per la disperazione. Egli venne scelto soprattutto per le sue capacità di catturare e convincere le masse. Così lo descriveva il luogotenente nazista Martin Bormann:

 

Hitler è capace di tenere alla sua mercé coloro che comprendono il tedesco. Questa voce, talvolta dolce, profonda, calda, diventa a suo piacimento rauca, veemente fino all’urlo, all’isteria selvaggia, e imprecatoria. Non ha bisogno di lezioni neanche per conoscere il potere della sua voce e della sua parola… questa predicazione che infiamma le folle come una torcia … è la voce degli uomini eccezionali di cui Dio ha fatto, nei suoi segreti disegni, dei medium, dei guru, incaricati di cambiare la storia degli uomini”.[10]

 

Anche il crollo di Wall Street del 1929, doveva contribuire all’ascesa di Hitler. La grande finanza americana aveva il potere di condizionare la borsa e di creare una crisi che mettesse in pericolo gli equilibri europei. Dopo la Prima guerra mondiale, i banchieri di Wall Street alimentarono una grande fiducia nel mercato e indussero molti alla speculazione. Improvvisamente ritirarono i crediti, generando insicurezza e panico. Gli investitori furono trascinati nell’impeto delle svendite disperate, e le azioni crollarono oltre il valore reale delle imprese.

Emile Moreau, governatore della banca di Francia, scriveva nel suo diario l’8 febbraio del 1928: “Le banche avevano ritirato improvvisamente dal mercato diciottomila milioni di dollari, cancellando le aperture di credito e chiedendone la restituzione“.[11] Nel giugno del 1929, a causa di queste politiche bancarie, l’economia si bloccò, e ciò non poteva non riguardare anche il mercato borsistico. Prima o poi sarebbe scoppiata una grave crisi, proprio come accadde il 29 ottobre del 1929.

 

Con il sopraggiungere della povertà e della disoccupazione, i consumi calarono, così come le produzioni. Molte industrie e piccole banche fallirono, ma i milioni di dollari “bruciati” non erano certo spariti: stavano nelle casse delle grandi banche che avevano indotto la crisi. E proprio queste banche avrebbero rilevato le imprese e le banche fallite.  
I grandi finanzieri di Wall Street avevano così ottenuto molteplici risultati. Si erano appropriati di parecchi beni: case, fabbriche, piccole banche ecc.., mentre ovunque aumentò la disoccupazione. In Germania la crisi fu talmente grave da accrescere oltremodo le adesioni al nazismo.

 

Nella campagna elettorale del 1932, Hitler puntò alla lotta contro la disoccupazione e alla partecipazione statale nell’economia. Con questi temi riuscì ad ingannare le masse di lavoratori disperati. Il partito nazista diventò il primo partito della Germania, e nel gennaio del 1933 Hitler diventò cancelliere. Hindenburg aveva subito forti pressioni, che lo avevano indotto ad affidare il governo a Hitler. Era l’élite tedesca (i Krupp, i Siemens, i Thyssen ecc.), sostenuta da quella anglo-americana, a desiderare che il nazismo prendesse il potere.

 

Le banche e le imprese americane si sarebbero dichiarate “neutrali”, e avrebbero ricavato parecchi vantaggi dalla sanguinosa guerra, che avrebbe indebolito gli imperi europei e rafforzato l’impero americano.

Molte imprese americane, durante la guerra, schiavizzarono i prigionieri, costringendoli a “morire di lavoro”. I sopravvissuti raccontarono cose agghiaccianti.

Ad esempio, Alexander Samila, un ucraino imprigionato alla fine del ’43, raccontò: “Si scavava, si martellava, si brillavano mine ininterrottamente. Le luci non erano mai spente nei tunnel. Per ogni anche piccola mancanza i detenuti erano bastonati brutalmente. Tentavamo di dormire all’interno delle gallerie, ma non ci riuscivamo perché c’era sempre qualcuno che urlava. Ogni punizione consisteva in 25 colpi inferti con un manganello di gomma. A me, per fortuna, è toccato in tutto solo sette volte”.

Ewald Hanstein, sopravvissuto a tre campi di concentramento, fra i quali Auschwitz, disse:

“Ma per me Dora è stato il peggiore dei lager. Uccidevano la gente col lavoro. Chi non ce la faceva più a lavorare, finiva nel crematorio. Ci tormentavano finché crollavamo. Per esempio: c’era pochissima acqua. Qualche volta ci davano aringhe salate da mangiare e noi avevamo una sete terribile. C’era una sola fontanella per tutti i detenuti, e per lo più non ci si riusciva neppure ad avvicinare. Chi ce la faceva, beveva troppo e gli veniva la dissenteria“.[12]

 

La Ford, anche dopo l’entrata in guerra degli Usa, continuò a produrre materiale bellico, che sarebbe stato utilizzato contro gli americani. Gli americani, durante la guerra, non bombardarono mai le fabbriche americane in Germania. Le industrie Ford si valsero ampiamente di manodopera coatta dei prigionieri nei lager. Uno dei tanti lavoratori forzati, Johannes Van Weeszenberg, raccontò:

Noi dicevamo ‘è tutta una barzelletta’, qui si producono gli autocarri con cui vengono colpiti gli americani, proprio così, eppure non ci bombardano mai. Del resto, si capisce, gli americani non sono mica tanto scemi da distruggere le loro stesse fabbriche”.[13]

 

L’Ibm offrì a Hitler assistenza tecnica per i lavori forzati e per i programmi di sterminio. Grazie alle tabulatrici di Hollerith, che erano le antenate dei calcolatori, venne immagazzinata una quantità enorme di dati.

Un lavoratore anonimo scrisse in una lettera: “L’Ibm è un mostro internazionale…come i nazisti“.[14] Il giornalista investigativo Edwin Black, nel libro L’Ibm e l’olocausto, documenta la stretta collaborazione fra la grande Corporation americana e la Germania di Hitler. Black riesce a provare che l’allora presidente dell’International Business Machines, Thomas Watson, collaborò col governo nazista fin dall’inizio. Egli aiutò i nazisti nell’opera di classificazione degli ebrei per finalità razziste. La filiale tedesca dell’Ibm prese il nome tedesco di Dehomag (Deutsche Hollerith Maschinen Gesellschaft), per poter operare anche durante la guerra. Watson, nel 1933, fornirà la tecnologia necessaria per il primo censimento del nazismo, a cui ne seguiranno altri più perfezionati, anche negli anni di guerra.

 

L’intera popolazione sarà schedata, in modo da poter identificare gli ebrei e differenziare anche altre categorie, ad esempio, i soggetti che avevano sposato ebrei, gli ebrei che avevano combattuto durante la Prima guerra mondiale, la percentuale di sangue ebraico, ecc. La tecnologia dell’Ibm permetterà una maggiore efficienza dell’industria bellica, e una migliore organizzazione dei trasporti. Black sostiene che l’aiuto della Ibm fu fondamentale per realizzare l’olocausto degli ebrei e per ottenere i migliori risultati nello sterminio dei soggetti ritenuti indegni di vivere (zingari, disabili, mendicanti, ecc.).

Watson era talmente vicino ai nazisti che, nel 1936, ricevette la “Croce al merito dell’aquila tedesca”, la più alta onorificenza nazista che si poteva offrire ad uno straniero.

 

Dopo lo scoppio della guerra, la Dehomag aprì nuove filiali nei territori conquistati (Austria, Polonia, Cecoslovacchia ecc.), per attuare nuovi censimenti. Addirittura, l’Ibm, con rapidità ed efficienza, istituì nuove filiali nei territori che verranno occupati in seguito, anticipando le mosse della Wehrmacht. In tal modo i governi nazisti locali potevano da subito smascherare gli ebrei e deportarli. Questa realtà agghiacciante è stata inoppugnabilmente provata da Black.  
Alla fine della guerra, l’Ibm potrà festeggiare una doppia vittoria: oltre agli enormi profitti maturati prima e durante la guerra, sarà considerata dagli Alleati una vittima dell’esproprio nazista, e potrà recuperare tutte le proprie macchine. Secondo Black il movente principale della Ibm era il profitto:

 

La sede di New York era pienamente a conoscenza di quanto stava accadendo nel Terzo Reich… che i macchinari erano abitualmente utilizzati nei campi di concentramento, e sapevano anche dello sterminio degli ebrei… non ebbe mai nulla a che vedere con il nazismo… ma solo e sempre con il profitto”.[15]

 

Altre ricerche provano che americani e inglesi parteciparono attivamente all’uccisione di ebrei e di altri prigionieri nei lager.

Richard Breitman,[16] docente di storia all’American University di Washington, ha analizzato i documenti di guerra resi pubblici nel 1996 dalla National Security Agency statunitense, che li aveva ottenuti da Londra nel 1984. Sulla base di questi documenti, Breitman sostiene che il governo della Gran Bretagna e quello degli Stati Uniti erano perfettamente al corrente di ciò che stava accadendo in Polonia e in altri luoghi. Dal 1941, erano state intercettate e decriptate parecchie notizie sui massacri di decine di migliaia di ebrei in Polonia, Lituania, Ucraina. Churchill venne a conoscenza di queste informazioni, che rimasero all’interno del SIS. Fino al 1942, sia gli inglesi che gli americani non denunceranno alcuna atrocità contro minoranze e contro il popolo ebraico, ma parleranno in modo generico di atrocità e violenze sulle popolazioni dei territori occupati. All’inizio del 1943, la Bbc iniziò a parlare di “soluzione finale” progettata dai nazisti contro gli ebrei. Cominciarono a circolare descrizioni dei ghetti e dei campi di sterminio, e storie di fucilazioni di massa.

 

Se si uniscono le ricerche di Breitman a quelle di Black, si comprende come gli anglo-americani non si siano limitati a non contrastare direttamente i crimini nazisti contro le minoranze e gli ebrei, ma abbiano collaborato attivamente con le autorità naziste ad attuare crimini.

Tutte le grandi Corporation che operarono in Germania si macchiarono di orrendi crimini. Ad esempio, la famiglia Bush accrebbe notevolmente la propria ricchezza grazie a Hitler e ai suoi lager.

Prescott Bush, nonno di George Bush junior, installò una fabbrica a Oswiecim (vicino ai campi di Auschwitz), dove lavorarono, ridotti in schiavitù, i prigionieri di Auschwitz. Prescott fece grandi affari col regime nazista. Anche dopo l’entrata in guerra degli Usa, nonostante fosse illegale, continuò a produrre per la Germania, creando imprese internazionali e società per il riciclaggio del denaro sporco, come la Consolidated Silesian Steel Company e l’Overby Development Company. Nel 2001, dagli archivi olandesi, sono emersi documenti che hanno portato alla luce i traffici di Prescott Bush.[17]

C’era una rete di riciclaggio del denaro sporco, che aveva l’appoggio del finanziere Fritz Thyssen, proprietario di banche in Olanda, in Germania e negli Usa. Il denaro veniva trasferito dalla Germania (all’August Thyssen Bank di Berlino), per l’Olanda (tramite Bank voor Handel che si trovava nei Paesi Bassi) e giungeva negli Usa, presso l’Union Banking Corporation di New York.

 

Nel 1922, il magnate delle ferrovie Averell W. Harriman incontrò a Berlino la famiglia dei banchieri tedeschi Thyssen, per proporre la fondazione di una banca germano-statunitense. L’idea si concretizzò nel 1924, con la nascita della Union Banking Corporation (Ubc). La presidenza venne assunta da George Herbert Walker, suocero di Prescott Bush.

La Ubc riceveva dai Paesi Bassi i soldi ricavati dalle attività a sostegno del potere nazista e dalla guerra, e li rinviava alla Brown Brothers Harriman. Il capitale nazista arrivava quindi negli Usa tramite l’Olanda. Prescott Bush, nel 1926, fu presidente e azionista della Ubc, ed era socio della Brown Brothers Harriman, che ebbero entrambe un ruolo importante nel finanziare l’ascesa di Hitler. Thyssen, nel 1931, era diventato uno degli uomini più potenti del nazismo.

Nel 1926 il finanziere americano Clarence Dillon, uno degli uomini più importanti di Wall Street, si associò con Fritz Thyssen, dando vita a un consorzio nel settore dell’industria dell’acciaio, la German Steel Trust. Il consorzio si sviluppò a tal punto da diventare una fonte di ricchezza necessaria allo sviluppo della Germania nazista. Il gruppo Thyssen (Thyssen-Bornemisza Group, Tbg) è a tutt’oggi il maggiore conglomerato industriale della Germania, è talmente ricco che ha assorbito molte altre società, ad esempio quella della famiglia Krupp. Oggi sappiamo come i Thyssen abbiano potuto diventare così ricchi.

 

Prescott fu molto vicino al banchiere Fritz Thyssen e al magnate dell’acciaio Clarence Dillon. Spiega l’economista americano Victor Thorn:

 

La Ubc divenne la via segreta per la protezione del capitale nazista che usciva dalla Germania verso gli USA, passando per i Paesi Bassi. Quando i nazisti avevano bisogno di rinnovare le loro provviste, la Brown Brothers Harriman rimandava i loro fondi direttamente in Germania… Una parte importante dei fondamenti finanziari della famiglia Bush fu costituita tramite il loro aiuto ad Adolf Hitler. L’attuale presidente degli Stati Uniti, così come suo padre (ex-direttore della Cia…), raggiunse il vertice della gerarchia politica statunitense poiché suo nonno, suo padre e la sua famiglia politica aiutarono e incoraggiarono i nazisti”.[18]

 

Webster Tarpley e Anton Chaitkin, autori di George Bush: Biografia non autorizzata, sostengono che “sono stati i banchieri di Wall Street (fra gli altri) i finanziatori occulti di quella folgorante ascesa al potere. La famiglia del nostro attuale presidente faceva parte di coloro che finanziarono la macchina bellica nazista, ricavandone enormi guadagni… Una parte importante delle origini finanziarie della famiglia Bush si è costituita grazie al suo appoggio ed il suo aiuto ad Adolf Hitler.”[19]
Tarpley e Chaitkin scrivono che “la grande crisi finanziaria del 1929 -1931 scosse l’America, la Germania e la Gran Bretagna rendendo deboli i loro rispettivi governi. Inoltre rese più diligente Prescott Bush, più desideroso di fare quanto necessario per preservare il suo privilegiato posto nel mondo. Durante quella crisi alcuni anglo – nordamericani danarosi sostennero l’instaurazione del regime di Hitler nella Germania“.[20]

 

Nel 1979, il barone Hans Heinrich Thyssen-Bornemisza (nipote di Fritz Thyssen) scrisse un opuscolo dal titolo “La storia della famiglia Thyssen e loro attività“, in cui ammise il ruolo importante svolto dalla sua famiglia nel rafforzare il potere nazista:

 

Così, all’inizio della II G.M. la Banca voor Handel en Scheepvaart – una ditta olandese il cui unico azionista era un cittadino ungherese – era diventata la holding delle società di mio padre. Prima del 1929 egli deteneva le quote della Banca August Thyssen, ed anche sussidiarie americane e la Union Banking Corporation di New York. Le azioni di tutte le affiliate [nel 1945] erano nella Banca August Thyssen nel settore orientale di Berlino, da dove riuscii a farle trasferire in occidente all’ultimo momento…Dopo la guerra il governo olandese ordinò un’indagine sulla situazione legale della società holding e, in attesa del risultato, nominai un olandese ex direttore generale di mio padre che si era rivoltato contro la nostra famiglia. In quello stesso anno, il 1947, ritornai in Germania per la prima volta dopo la guerra, travestito da autista olandese in uniforme militare, per stabilire i contatti con i nostri dirigenti tedeschi… La situazione del gruppo cominciò gradualmente ad essere risolta ma non fu prima del 1955 che le società tedesche vennero liberate dal controllo alleato ed in seguito rilasciate. Fortunatamente le società del gruppo soffrirono poco dallo smembramento. Infine, fummo nella posizione di concentrarci su problemi puramente economici – la ricostruzione ed ampliamento delle società e l’espansione dell’organizzazione…

 

Il dipartimento creditizio della Banca voor Handel en Scheepvaart, che funzionava anche come società holding del gruppo, si fuse nel 1970 con la Nederlandse Credietbank N.V. che aumentò il suo capitale. Il gruppo ricevette il 25%. La Chase Manhattan Bank detiene il 31%. Per la nuova società holding venne scelto il nome di Thyssen-Bornemisza Group.[21]

 

Molte altre società e banche americane finanziarono Hitler, come la Chase Bank dei Rockefeller. Alla Deutsche Bank (controllata dai Rockefeller), dal 1940 al 1945, fu direttore Hermann Joseph Abs, un fervente sostenitore del nazismo. Abs fece parte dell’amministrazione di industrie che basavano i loro profitti sulla guerra e sul lavoro forzato dei prigionieri nel campo di sterminio di Auschwitz.[22] Fino agli anni Cinquanta, fu responsabile della filiale svizzera della Deutsche Bank, Alfred Kurzmeyer, detto anche “Banchiere dell’Olocausto”. Grazie a lui la Deutsche Bank prevalse. I suoi pochi scrupoli avevano permesso alla DB di incassare denaro e oro di dubbia provenienza, che dopo molti anni si scoprirà essere appartenuti alle vittime del nazismo morte nei campi di sterminio. Si trattava di almeno 300 chili di oro, che comprendevano anche i denti d’oro estratti ai prigionieri. La stessa banca aveva finanziato la costruzione del campo di Auschwitz e lo stabilimento BUNA, dove si produceva gomma per pneumatici, e dove, successivamente, si iniziò ad arricchire l’uranio per la bomba atomica.[23] Anche il progetto nazista di sterminio ebbe sostegno da parte dell’élite finanziaria americana.

 

Durante il periodo nazista, le grandi famiglie di banchieri, i Rockefeller[24], i Warburg e gli Harriman, sostennero finanziariamente le ricerche eugenetiche.

Gli istituti, diretti dallo psichiatra fascista Ernst Rudin, sostennero l’idea che alcune persone erano geneticamente “nocive” perché inferiori oppure portatrici di “tare ereditarie”, e per questo andavano sterilizzate oppure uccise. Rudin diventò capo della Società di Igiene Razziale e poté creare uno staff per stilare leggi a protezione della razza. Nel 1933 creò una legge sulla sterilizzazione dei soggetti “inferiori”. La legge venne considerata importante e pubblicata con la firma di Hitler sulla rivista americana “Eugenical News“, del settembre 1933. Il centro degli studi eugenetici era a New York.

Nel 1932, si tenne a New York il Congresso Internazionale di eugenetica, in cui si affrontò il problema su come “eliminare le stirpi peggiori”, cioè i neri, i gialli e gli ebrei.

 

La legge elaborata da Rudin nella Germania nazista traeva ispirazione dalle precedenti leggi americane, e si reggeva sull’idea centrale che alcuni gruppi genetici fossero da sterminare. Si trattava di attuare genocidi, con l’idea di dover “purificare la razza”.

 

Anche James Forrestal, un miliardario che apparteneva al mondo degli affari di Wall Street, ebbe stretti rapporti con la Germania di Hitler. Egli fu, dal 1938, presidente della banca di investimenti Dillon and Read, che aveva finanziato generosamente l’ascesa di Hitler al potere.

Nel periodo 1925-1930, la Dillon and Read aveva finanziato con decine di milioni di dollari le acciaierie August Thyssen, la Rhein-Elbe Union, la Vereinigte Stahlwerke, la Ruhr-Gas, la Siemens, la Gelsenkirchener Bergwerks e la Ruhrchemie. Insieme ad altri istituti di credito, la Dillon and Read aveva rimesso in piedi le finanze tedesche. Prima della guerra, la finanza americana aveva investito miliardi in Germania.

Allo scoppio della seconda guerra mondiale, James Forrestal diventò presidente della filiale americana del colosso chimico tedesco I. G. Farben (Interessengemeinscheft Farbenindustrie), la General Aniline and Film Corporation. La General Aniline riforniva la Germania di prodotti chimici essenziali per proseguire la guerra, facendoli partire dall’America del Sud. Quando gli Stati Uniti entrarono in guerra, Forrestal ebbe il ministero della Marina. Egli, in accordo col presidente Roosevelt e insieme al Council on Foreign Relations, aveva preparato il piano per l’egemonia mondiale degli Usa. Molti storici ritengono che Forrestal ebbe un ruolo di primo piano nell’istituire rapporti economici con l’industria tedesca, come parte di un piano molto più vasto, da realizzare con una grande guerra.

 

Nel 1947, Forrestal assunse il Ministero della Difesa, e chiamò nel Ministero Howard Peterson, che era stato l’avvocato della I.G. Farben negli Stati Uniti fino all’inizio del conflitto, e William Draper, vice presidente della banca Dillon and Read. Draper pianificò la politica economica degli Stati Uniti nella Germania occupata, curandosi di ripristinare le vecchie strutture.

Peterson ebbe l’incarico di designare i magistrati americani nel processo di Norimberga, destinati a giudicare gli industriali tedeschi che avevano appoggiato Hitler.[25]
Prima della guerra, il nazismo era considerato dagli anglo-americani come un sistema politico “moderato”, che garantiva la repressione dei lavoratori. Nel 1937, il Dipartimento di Stato americano scriveva: “(il fascismo europeo) Deve vincere, altrimenti le masse, alle quali questa volta si aggiungeranno le classi medie deluse, si rivolgeranno di nuovo alla sinistra“.[26]

 

Nel 1938, Roosevelt approvò gli accordi di Monaco che dividevano la Cecoslovacchia.

Il suo confidente Sumner Welles disse che “(gli accordi) offrono alle nazioni l’opportunità di instaurare un nuovo ordine mondiale basato sulla giustizia e sulla legalità“.[27]

La Gran Bretagna ebbe con la Germania nazista rapporti commerciali, industriali e finanziari molto stretti, fino al 1939. 
La finanza inglese, come quella americana, metteva al di sopra di tutto, anche della sicurezza nazionale ed europea, le speculazioni. A partire dal 1920, i grandi e potenti gruppi economici, come la Banca J. P. Morgan & Co., sovvenzionarono l’economia e la politica tedesca. Montagu Norman, governatore della Banca d’Inghilterra, e George L. Harrison, capo della Federal Reserve, iniziarono un serrato controllo dell’economia di molti paesi europei, col pretesto di dover “stabilizzare le politiche nazionali”.[28]

 

L’élite finanziaria sosteneva e rafforzava i governi compiacenti, poco importava che fossero tirannici e sanguinari. L’obiettivo più ambito era il controllo della Germania, che si trovava in una situazione di estrema debolezza a causa delle condizioni imposte a Versailles. Era stato imposto il pagamento di 12 miliardi di dollari per le riparazioni di guerra, e severe restrizioni economiche, che impedivano la ricostruzione della Repubblica di Weimar.

 

Dopo la Prima guerra mondiale, la Germania, sconfitta e sull’orlo del collasso, si rivolse alle banche americane. Wall Street si attivò preparando due piani per rimetterla in piedi. I due piani vennero chiamati “piano Dawes” (1924) e “piano Young” (1928), e furono messi a punto da comitati di esperti americani, come Charles Dawes e Owen Young della General Eletric, Thomas W.

Lamont rappresentante della J. P. Morgan e T. N. Perkins banchiere legato ai Morgan. Secondo lo studioso Antony Sutton si trattò di un aiuto fortemente interessato da parte degli Usa: “Nient’altro che la creazione di un sistema mondiale di controllo finanziario in mani private capace di dominare il sistema politico di ogni paese e l’economia globale del mondo“.[29] Vennero attivati gli stessi istituti di credito che avevano finanziato la rivoluzione russa.

L’American International Corporation (cioè la Fed ) e il Fondo di garanzia Morgan si occuparono della ricostruzione economica della Germania e, occultamente, anche del suo futuro politico. Nel 1919, la Commissione Overman del Senato statunitense rivelò che la Germania stava ricevendo prestiti dai Rothschild e dalla Chase National Bank di Morgan. Il denaro giungeva in Germania attraverso il Sudamerica.

 

Il piano Young prendeva il nome da Owen D. Young, un funzionario dei Morgan, che aveva lavorato presso la General Electric. Lo scopo del piano era quello di impedire un’autonoma ricostruzione dell’economia tedesca e di creare problemi sociali e politici. Infatti, il piano imponeva il pagamento in contanti dei prestiti, pur sapendo che questo avrebbe ostacolato gravemente la ripresa e avrebbe costretto la Germania a chiedere forti prestiti alle banche. Anni dopo, uno dei sostenitori finanziari di Hitler, Fritz Thyssen, confessò:

 

L’accettazione del Piano Young e dei suoi principi finanziari aumentò sempre più la disoccupazione finché i disoccupati furono circa un milione. La gente era disperata. Hitler disse che avrebbe risolto il problema della disoccupazione. Il governo allora in carica era molto scadente e la situazione della gente andava peggiorando. Questa fu la vera ragione dell’enorme successo che Hitler ebbe in quelle elezioni, in cui prese circa il 40%”.[30]

 

La finanza anglo-americana impose, nel 1923, Hjalmar Schacht  alla presidenza della Reichbank. L’economia tedesca venne resa dipendente dalle banche di Londra e New York.

La politica europea venne direttamente determinata dalla politica bancaria anglo-americana, che optò per sovvenzionare regimi che garantissero il potere di un’élite contro l’instaurarsi di una vera democrazia.
Si trattava di creare in Germania un sistema economico-finanziario controllato da un gruppo di privati, soprattutto americani, e di indurre la gente a votare per Hitler. Hjalmar Schacht, un finanziere tedesco legato agli interessi dei Morgan, creò la Bank of international settlement (BIS), con sede in Svizzera, per supportare i finanziamenti al sistema nazista. Indebitare la Germania ridotta al collasso era il modo migliore per controllarla e per insediare il governo più favorevole agli interessi dell’élite. Nel 1924 Lloyd George dichiarò:

 

I banchieri internazionali dettarono la risoluzione Dawes sulle riparazioni. Il protocollo che venne firmato tra gli Alleati e i poteri associati e la Germania è il trionfo della finanza internazionale. L’accordo non sarebbe mai stato raggiunto senza il brusco e brutale intervento dei banchieri internazionali. Essi relegarono in un angolo uomini di Stato, politici e giornalisti e formularono i loro ordini con l’autorità di monarchi assoluti, che sapevano che non c’era appello per le loro spietate sentenze… Il rapporto Dawes fu modellato dai re del denaro. Gli ordini dei finanzieri tedeschi ai loro rappresentanti politici furono tanto perentori quanto quelli degli alleati banchieri ai loro rappresentanti politici”.[31]

 

In Germania venne attuata una ricostruzione mirata ad assoggettare il paese al capitale Usa. I cartelli industriali, che si imponevano nell’economia tedesca (Vereinigte Stahlwerke, I.G. Farben, General Electric, Standard Oil, International Telephone and Telegraph ecc.), avevano nel loro consiglio di amministrazione finanzieri americani. La stessa famiglia Roosevelt aveva grandi interessi legati alla General Electric (faceva parte degli azionisti di maggioranza), che fu una delle più grandi società sostenitrici di Hitler.

 

Alla vigilia della Seconda guerra mondiale, il 95% della produzione di esplosivi proveniva dalla I.G. Farben e dalla Vereinigte Stahlwerke. Tale produzione era stata possibile grazie ai prestiti e all’assistenza tecnologica americana. La I.G. Farben avrebbe permesso a Hitler la preparazione alla guerra, e avrebbe anche sfruttato la manodopera dei prigionieri nei campi di concentramento, fino alla morte.

Il 14 giugno 1940, la Standard Oil e la I.G. Farben istituirono il campo di concentramento di Auschwitz, col preciso intento di avere manodopera schiavile. La società I.G. Farben era controllata dai Rothschild, che utilizzavano uomini di facciata per nascondersi, come fanno a tutt’oggi. La I.G. Farben avrebbe permesso di rendere la guerra così lunga, come afferma un rapporto del Ministero della Guerra americano:

 

Senza le immense possibilità produttive della I. G., le sue notevoli ricerche, i suoi estesi legami internazionali, la prosecuzione della guerra da parte della Germania sarebbe stata impensabile e impossibile. La Farben non solo indirizzò le sue energie verso il riarmo della Germania, ma si adoperò per indebolire le sue vittime designate, e questo duplice tentativo di espandere il potenziale industriale tedesco e di ridurre quello del resto del mondo non fu concepito ed eseguito “nel normale corso degli affari”. Ci sono prove schiaccianti che i funzionari della I. G. Farben conoscessero perfettamente il progetto tedesco di conquista del mondo e ogni specifico atto d’aggressione successivamente intrapreso”.[32]

 

La I.G. Farben elaborò nuove tecniche per ricavare benzina dalle riserve di carbone, permettendo così a Hitler di pianificare una lunga guerra di conquista. Gli accordi con i Rockefeller (che controllavano numerose società e banche) permisero alla Germania di avere tutto ciò che necessitava alla guerra: acciaio, gomma, benzina, petrolio e esplosivi. Senza il sostegno dei Rothschild, dei Morgan, dei Warburg e dei Rockefeller non ci sarebbe stato nessun Hitler e nessuna guerra.

Sutton trova negli archivi del tribunale di Norimberga le prove inoppugnabili che Hitler era stato finanziato direttamente da Wall Street.[33] Egli trova gli ordini di finanziamento della campagna elettorale di Hitler del 1933. Si tratta di almeno tre milioni di marchi, che le Corporation e le banche americane (I.G. Farben, Ford, Federal Reserve Bank, Standard Oil Company ecc.) versarono, attraverso la banca Delbruck Schickler, a coloro che si stavano occupando della campagna elettorale, Rudolf Hess e Hjalmar Schacht (governatore della Reichsbank dal 1924 al 1929).

 

Ai prestiti dei Rothschild e dei Morgan si aggiungevano le tecnologie necessarie allo sviluppo economico e alla preparazione della guerra. La Ford Motor Company e la General Motors si occuparono della produzione dei carri armati. La società americana Bendix Aviation, controllata dalla G.M., si occupò di fornire la tecnologia necessaria al pilotaggio automatico degli aerei. 
Le autorità americane erano al corrente di ciò che stava avvenendo. L’ambasciatore americano in Germania William Dodd, nel 1936, scrisse a Roosevelt:

 

Attualmente più di cento società americane hanno qui delle consociate con cui collaborano. I Dupond hanno tre alleati in Germania che facilitano gli affari nell’ambito degli armamenti. L’alleato principale è la I. G. Farben, un’espressione del governo, che elargisce 200.000 marchi all’anno a una organizzazione propagandistica che opera sull’opinione pubblica americana. La Standard Oil Company (filiale di New York) ha inviato qui 2.000.000 di dollari nel dicembre 1933 e sborsa 500.000 dollari all’anno per aiutare i tedeschi a produrre surrogati del gas a scopo bellico… Il presidente della International Harvester Company mi ha detto che i loro affari qui sono aumentati del 33% annui (produzione armiera, credo), ma che non potevano esportare niente. Anche i nostri produttori di aerei hanno stretto accordi segreti con i Krupps. La compagnia General Motors (Morgan) e Ford fanno floridi affari qui attraverso le loro consociate e esportano i profitti. Cito questi fatti perché complicano le cose e vanno ad accrescere i pericoli di guerra”.[34]

 

Il presidente Roosevelt non fece nulla per contrastare le società che stavano rendendo possibile una prossima guerra. I motivi della noncuranza del presidente americano erano principalmente due: egli stesso aveva interessi economici e finanziari collegati a quelle società che stavano aiutando Hitler; inoltre, le sue decisioni erano manovrate da quella stessa élite che stava organizzando la guerra.

A rimettere in sesto il sistema finanziario della Germania non fu Hitler ma il banchiere Hjalmar Schacht, che legò le maggiori banche tedesche alla Darmstàdter Bank. Ne affidò la guida a Jakob Goldschmidt, che nel marzo del 1933 diventerà presidente della Reichsbank. Alcuni banchieri ebrei non furono affatto perseguitati da Hitler, ma furono dichiarati “ariani d’onore”.[35] Molti altri vennero espropriati e imprigionati, in seguito al processo di “arianizzazione” delle banche.

 

Esistono molte prove documentali a sostegno della subordinazione di  Hitler al potere delle Corporation presenti sul territorio tedesco. Hitler riceveva richieste e ordini dalle imprese presenti in Germania, molte delle quali avevano azionisti americani e inglesi. 
Ad esempio, in una lettera dell’11 gennaio 1942[36], il dittatore rispose positivamente alla richiesta da parte della Volkswagen di ricevere altri lavoratori schiavi nei campi di concentramento. Negli ultimi anni di guerra, i nazisti cercarono di deportare quante più persone possibile, per soddisfare le richieste di manodopera coatta da parte delle Corporation.

 

Anche gli inglesi parteciparono generosamente al “progetto Hitler”.

Nel 1934 il governatore della banca d’Inghilterra Montagu Norman andò a  Berlino in visita speciale. Lo scopo era quello di stabilire accordi precisi riguardo alla politica finanziaria del Reich. Si offrirono al regime nazista prestiti assai generosi, anche dopo l’invasione della Cecoslovacchia. Norman dette a Hitler 6 milioni di oro cecoslovacco che prima si trovava a Londra. Anche il Primo Ministro inglese Neville Chamberlain era al corrente e approvava. La Shell Oil , che è controllata dalla Corona inglese, finanziò l’ascesa di Hitler con accordi fra il suo amministratore delegato Henri Deterding e Montagu Norman.

Nel 1938, Chamberlain, firmò l’accordo di Monaco, e si vantò di aver sigillato una pace duratura con la Germania, mentre in realtà sapeva benissimo che Hitler si stava preparando alla guerra.

 

Gli inglesi, che nella retorica sostenevano di limitare la corsa agli armamenti dei tedeschi, nei fatti avevano conclusero, già nel 1935, un Patto Navale, che permetteva alla Germania di accrescere la propria potenza marittima. Appena due mesi prima, l’Inghilterra aveva partecipato alla Conferenza di Stresa, in cui si era mostrata d’accordo nel limitare alla Germania la possibilità di avere una forza navale.

Gli inglesi speravano di distruggere la potenza sovietica attraverso una guerra scatenata dalla Germania, mentre gli Usa volevano una grande guerra per destabilizzare l’Europa e acquisire un maggior controllo attraverso le ricostruzioni successive.

L’intento principale degli Usa era quello di indebolire l’impero inglese, e trarre ingenti profitti da un’eventuale guerra europea. Seminare divisioni, armare la Germania e provocare la guerra, avrebbe significato per l’élite Usa un passo avanti nel loro progetto di dominio mondiale.

 

Nel 1934, la Germania nazista importava ben l’85% dei raffinati petroliferi.

Hitler, per sfidare le altre potenze, doveva acquisire capacità di approvvigionarsi di carburatori. La soluzione gli venne offerta dalla Standard Oil di New Jersey, di proprietà della famiglia Rockefeller.

La Standard Oil possedeva tecnologie e possibilità di finanziamento del progetto “benzina sintetica”, che avrebbe permesso di estrarre benzina dal carbone. La benzina sintetica verrà prodotta, dal 1925, dalla I. G. Farben, che aveva come direttore Carl Bosch, che nel 1931 riceverà il premio Nobel per la chimica. La I. G. Farben era sotto il controllo dell’americana Standard Oil, con cui aveva stipulato l’accordo di condividere tutte le ricerche e tutti brevetti relativi alla produzione di benzina sintetica e di gomma sintetica. Nel 1933, anno dell’ascesa al potere di Hitler, l’ambasciata americana in Germania prevedeva che nel giro di soli due anni Hitler avrebbe avuto i mezzi per poter condurre una lunga guerra. Il ministero dell’economia del terzo Reich e le industrie I. G. Farben firmarono un accordo per la produzione di 400.000 tonnellate di benzina sintetica all’anno, fino al 1944. La produzione di benzina sintetica, dopo il 1935, salì ad alcune centinaia di migliaia di tonnellate all’anno. Nel 1944, con i processi Bergius e Fischer-Tropsch, toccò i tre milioni di tonnellate all’anno.

 

Dal 1936, Hitler era in grado di poter iniziare la guerra, essendosi reso indipendente dalle importazioni estere di petrolio. 
L’élite anglo-americana, a tempo debito, avrebbe additato il “mostro”, per apparire come i “liberatori dei popoli”. La propaganda antitedesca iniziò qualche anno prima dello scoppio della guerra. I media inglesi, dal 1938, iniziarono ad esagerare il pericolo dell’invasione tedesca e attuarono “esercitazioni” con maschere antigas, per spaventare la popolazione e convincerla che sarebbe stata necessaria una grande guerra per “fermare il mostro”.[37]

 

Gli Usa sapevano che se avessero mantenuto il ritmo di produzione della benzina sintetica, Hitler avrebbe avuto possibilità di vittoria. L’élite americana poteva vincere la guerra perché sapeva dove si trovavano i centri di produzione della benzina sintetica. Quindi, le truppe americane dopo lo sbarco in Europa, per prima cosa occuparono gli stabilimenti del settore chimico, meccanico e industriale, sequestrarono molti archivi, materiali di laboratorio, e si impadronirono di un’ampia documentazione.

Il 16 luglio del 1945, alla Conferenza di Potsdam, gli Alleati vietarono ai tedeschi la produzione di benzina sintetica. Nell’aprile del 1949 gli alleati smantellarono tutti gli impianti, che furono trasformati in raffinerie di petrolio.

 

 

NOTE:

 

[1] Avanti!, 29 gennaio 1922.

 

[2] Valtin Jan, Out of the night (1941), Kessinger Publishing, 2005, pp. 252-3.

 

[3] Shirer William Lawrence, Storia del Terzo Reich, Einaudi, Torino 1990, p. 43.

 

[4] Shirer William Lawrence, op. cit. p. 46.

 

[5] Dietrich Eckart fu scrittore e giornalista. Si occupò dell’ascesa politica di Hitler, giudicandolo adatto al ruolo di uomo forte che avrebbe fatto rinascere la Germania. Nel 1923, in punto di morte, disse: “dovete seguire Hitler. Sarà egli a ballare, ma sono io che ho scritto la musica… Non vi lamentate, egli avrà influenzato la storia più di qualunque altro tedesco”.

 

[6] Shirer William Lawrence, op. cit. p. 260.

 

[7] Cit. Rosenbaum Ron, Il mistero Hitler, Mondadori, Milano 1999, p. 397.

 

[8] http://holywar.org/italia/txt/giudei.htm

 

[9] Il programma che le banche e le grandi Corporation avevano preparato per la Germania prevedeva la statalizzazione delle imprese monopolistiche (che sarebbero così cadute nelle loro mani), l’espropriazione senza risarcimento delle terre incolte, la soppressione dei giornali indipendenti e delle correnti artistiche e letterarie, e la creazione di un forte potere centrale. Si tratta di riforme necessarie in tutte le dittature e in tutti i sistemi capitalistici.

 

[10] Marabini Jean, La vita quotidiana a Berlino sotto Hitler, Rizzoli, Milano 1987, p.47.

 

[11] Moreau Emile, Memorie di un governatore della Banca di Francia, Cariplo-Laterza, Roma-Bari 1986. www.centrostudimonetari.org

 

[12] Knopp Guido, Tutti gli uomini di Hitler, Corbaccio, Milano 2003, p. 311.

 

[13] Minoli Giovanni, ” La Storia siamo noi“, Rai tre 1/2/2006.

 

[14] Minoli Giovanni, “ La Storia siamo noi”, Rai3, 1 febbraio 2006.

 

[15] Black Edwin, L’IBM e l’olocausto. I rapporti fra il Terzo Reich e una grande azienda americana, Rizzoli, Milano 2001.

 

[16] Breitman Richard, Il silenzio degli alleati. La responsabilità morale di inglesi e americani nell’olocausto ebraico, Mondadori, Milano 1999.

 

[17] Gli archivi furono consultati da John Loftus, presidente del Florida Holocaust Museum. Vedi Toby Rodgers, “Heir to the Holocaust, How the Bush Family Wealth is Linked to the Jewish Holocaust“, in Clamor Magazine, maggio-giugno 2002.

 

[18] Thorn Victor, “La famiglia Bush e il prezzo del sangue versato dai nazisti“, Babel Magazine, 6 ottobre 2002. www.rebelion.org

 

[19]  Tarpley Webster G., Anton Chaitkin Anton, George Bush : The Unauthorized Biography, Tree of life publications, 2004.

 

[20] Tarpley Webster G., Anton Chaitkin Anton, George Bush : The Unauthorized Biography, Tree of life publications, 2004.

 

[21] Loftus John, “The Belarus Secret and The Secret War Against the Jews”, New York , Knopf, 1982.

 

[22] “Lo strano caso della Deutsche Bank“, http://saba.fateback.com/bankenstein/deutschebank.html

 

[23

] ” Lo strano caso della Deutsche Bank“, http://saba.fateback.com/bankenstein/deutschebank.html

 

[24] La Fondazione Rockefeller fece approvare diverse leggi sulla sterilizzazione, che furono applicate in alcuni Stati americani. L’eugenetica era nata nel 1883 e si era diffusa sia in Europa che negli Stati Uniti. In molti Stati furono avviati programmi di eugenetica negativa, in particolare si trattò di sterilizzazione di soggetti ritenuti inferiori. Negli Usa tali tecniche ebbero particolare successo, e già nel 1894 vennero praticate le prime castrazioni eugenetiche alla Elwyn State School of Pennsylvania. Si trattò di centinaia di soggetti presi dalle carceri o da istituti psichiatrici. Charles Davenport, uno dei maggiori esponenti dell’eugenetica americana, nel 1906 fondò l’Eugenic Record Office. Davenport era un convinto razzista e antisemita e sostenne una rigida gerarchia tra le razze e la necessità di impedire che soggetti di razza superiore bianca potessero far degenerare la razza accoppiandosi con soggetti di razze inferiori. Egli auspicava un progetto di Stato per eliminare tutti i soggetti che secondo lui avrebbero potuto portare la “razza superiore verso il declino”.

 

[25] Norden Albert, Le secret des guerres: genèse et techniques de l’agression, Parigi, 1972, pp. 72-76.

 

[26] Chomsky Noam, Egemonia o sopravvivenza. I rischi del dominio globale americano, Marco Tropea Editore, Milano 2005, p. 74.

 

[27] Chomsky Noam, op. cit., p. 75.

 

[28] Li Vigni Benito, Le guerre del petrolio. Strategie, potere, nuovo ordine mondiale, Editori Riuniti, Roma 2004, p. 208.

 

[29] Sutton Antony C., America’s Secret Establishment, Liberty House Press. Bilings 1986.

 

[30] Consiglio di controllo del gruppo statunitense (Germania), Ufficio del direttore dei servizi segreti, rapporto dei servizi segreti n° EF/ME/1, interrogatorio di Fritz Thyssen, 4 settembre 1945.

 

[31] Journal American, New York , 24 giugno 1924.

 

[32] Icke David, La verità vi renderà liberi, Macro Edizioni, Cesena 2005, p. 118.

 

[33] Sutton Antony C., Wall Street and the Rise of Hitler, Press, Seal Beach ( California ) 1976.

 

[34] Dixon Edgar B. (a cura di), Franklin D. Roosevelt And Foreign Affairs, Belknap Press, Cambridge 1969, vol III, p. 456.

 

[35] Faillant de Villemarest Pierre, Les sources financières du nazisme,  Ed. CEI, Cierrey  1984, p. 71.

 

[36] Palast Gregg, Democrazia in vendita, Marco Tropea Editore, Milano 2003, p. 254.

 

[37] Vedi Times, 7 settembre 1938. La propaganda venne chiamata dal governo inglese “paura della guerra”, e si svolse attraverso articoli allarmanti e antitedeschi, oltre che attraverso esercitazioni e costruzione di trincee.

 

 

Fonte: visto su DISINFORMAZIONE.IT

Link: http://www.disinformazione.it/adolf_hitler.htm

 

GUAI AI VINTI – L’OLOCAUSTO DEGLI ALLEATI

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Dwight D. Eisenhower

Dwight D. Eisenhower

 

 

Heinz T., testimonianza raccolta da James Bacque.

 

Traduzione a cura di Gian Franco Spotti

 

Mai così tanta gente era stata messa in prigione. I

l numero dei prigionieri fatti dagli alleati era senza precedenti nella storia. I Sovietici fecero prigionieri circa 3,5 milioni di europei, gli Americani circa 6,1 milioni, i Britannici circa 2,4 milioni, i Canadesi circa 300.000, i Francesi circa 200.000. Milioni di giapponesi furono catturati dagli Americani nel 1945, più altri 640.000 circa dai Sovietici”.

 

Non appena la Germania capitolò l’8 Maggio 1945, il governatore americano, il Generale Eisenhower, divulgò una “corrispondenza urgente” in tutta la vasta zona sotto il suo comando, facendo diventare per i civili tedeschi un crimine passibile di pena capitale il fatto di dare da mangiare ai prigionieri. L’ordine, tradotto in tedesco, fu inviato ai governi delle province, con istruzioni di trasmetterlo immediatamente alle autorità locali. Copie di questi ordini sono state recentemente rinvenute in vari paesi vicino al Reno.

 

Il messaggio (ripreso da Bacque nel suo libro) diceva fra l’altro:

in nessuna circostanza approvvigionamenti di viveri dovranno essere raccolti fra gli abitanti del luogo con l’intento di darli ai prigionieri di guerra. Coloro che violeranno questa disposizione e coloro che tenteranno di aggirarla consentendo che qualcosa arrivi ai prigionieri, mettono se stessi a rischio di fucilazione”.

L’ordine di Eisenhower fu esposto anche in inglese, tedesco e polacco nella bacheca del quartier generale del governo militare in Baviera, firmato dal Capo di stato maggiore del governatore militare di Baviera. In seguito fu affisso in polacco a Straubing e a Regensburg, dove si trovavano numerose compagnie di soldati polacchi nei campi vicini.

Un ufficiale dell’Esercito americano che lesse quest’ordine nel Maggio 1945, scrisse che

era l’intenzione del comando d’armata, per quanto riguarda i campi dei prigionieri di guerra tedeschi nella zona americana, dal Maggio 1945 fino alla fine del 1947, di sterminare il più alto numero possibile di prigionieri di guerra fintanto che la cosa rimaneva al di fuori del controllo internazionale”.

 

La politica dell’esercito americano era di affamare i prigionieri, secondo il parere di numerosi soldati americani che si trovavano sul posto. Martin Brech, professore di filosofia in pensione del Mercy College di New York, che fu guardiano ad Andernach nel 1945, ha raccontato che un ufficiale gli disse che “era la nostra politica di non dare da mangiare a questi uomini”.

 

I 50 – 60.000 uomini ad Andernach morivano di fame, vivendo senza ripari in buche scavate nella terra, tentando di nutrirsi con dell’erba. Quando Brech passò loro di nascosto del pane attraverso il filo spianto, un ufficiale gli ordinò di smettere. In seguito Brech vece avere loro dei viveri, si fece catturare e lo stesso ufficiale gli disse: “se lo rifai verrai fucilato”.

Brech vide dei cadaveri venire portati via dal campo “dal camion di servizio”, ma non gli dissero mai quanti erano, dove venivano sepolti e come.

Il prigioniero Paul Schmitt fu ucciso nel campo americano di Bretzenheim dopo essersi avvicinato al filo spianto per vedere sua moglie ed il figlioletto che gli portavano un cesto di viveri.

 

I Francesi non furono da meno: Agnès Spira fu uccisa da sentinelle francesi a Dietersheim nel Luglio 1945 per aver portato del cibo ai prigionieri. Il suo memoriale vicino a Budesheim, scritto da uno dei figli, dice: “il 31 Luglio 1945, mia madre mi fu strappata improvvisamente e inaspettatamente a causa delle sue buone azioni nei confronti dei soldati prigionieri”. La nota nel registro della chiesa cattolica dice semplicemente: “una morte tragica, uccisa a Dietersheim il 31.07.1945. Sepolta il 3.08.1945”.

Martin Brech vide con sorpresa un ufficiale appostato su di una collina ad Andernach che sparava su donne tedesche che fuggivano correndo nella vallata sottostante.

Il prigioniero Hans Scharf vide una donna tedesca con i suoi due bambini venire verso una sentinella americana nel campo di Bad Kreuznach, portando una bottiglia di vino. Lei chiese alla sentinella di dare la bottiglia a suo marito che si trovava appena oltre il filo spinato. La sentinella si portò alla bocca la bottiglia e quando fu vuota la gettò a terra ed uccise il prigioniero con cinque colpi d’arma da fuoco.

Numerosi prigionieri e civili tedeschi videro le sentinelle americane bruciare il cibo portato dalle donne.

Di recente, un ex prigioniero descrisse quanto segue: “Le donne della città più vicina portarono del cibo nel campo. I soldati americani lo confiscarono facendone un solo mucchio, versandovi sopra della benzina bruciandolo”.

Eisenhower stesso ordinò che il cibo venisse distrutto, secondo lo scrittore Karl Vogel che era il comandante del campo tedesco, nominato dagli americani nel campo N° 8 a Garmisch-Partenkirchen. Nonostante i prigionieri ricevessero soltanto 800 calorie al giorno, gli americani distruggevano il cibo davanti al cancello del campo.

 

James Bacque, Crimes and Mercies: the Fate of German Civilians Under Allied Occupation, 1944-1950. (Crimini e pietà: il destino dei civili tedeschi sotto l’occupazione alleata, 1944-1950), pag. 41-45, 94-95
“

 

Il 20 Aprile era un giorno di forte maltempo. La pioggia e la neve si mescolavano al gelido vento del nord che spazzava la vallata del Reno fino al campo, situato in pianura. Dietro ai fili spinati ci attendeva uno spettacolo orribile: stretti fortemente gli uni agli altri per riscaldarsi, circa 100.000 detenuti stravolti, apatici, sporchi, emaciati, dallo sguardo vuoto, vestiti in uniformi grigie, se ne stavano in piedi, impantanati nel fango fino alle caviglie. Qui e la si intravedeva un bianco sporco che, in un secondo momento, si rivelò essere uomini con la testa o le braccia fasciate da bende, o semplicemente da una manica di camicia. Il comandante tedesco di divisione ci informò che i prigionieri non mangiavano da più di due giorni e che l’approvvigionamento di acqua rappresentava un importante problema proprio mentre a meno di 200 metri il Reno scorreva a letto pieno”.

Resoconto di una visita ad un campo di prigionia di prigionieri di guerra tedeschi nelle mani dell’esercito americano”, del Colonnello James B. Mason e il Colonnello Charles H. Beasley, del Servizio Sanitario Militare degli Stati Uniti, pubblicato nel 1950.

 

Nell’Aprile 1945, centinaia di migliaia di soldati tedeschi, malati catturati negli ospedali, invalidi, donne ausiliarie e civili furono fatti prigionieri. A Rheinberg c’era un detenuto di 80 anni e un altro di 9 anni. Avendo come sola compagnia una sete atroce ed una fame lancinante, i prigionieri morivano di dissenteria. Senza sosta, un cielo ben poco clemente, rovesciava su di essi, per settimane, torrenti di pioggia. Gli invalidi scivolavano nel fango come degli anfibi, bagnati e congelati fino alle ossa. Senza il minimo riparo, giorno dopo giorno, notte dopo notte, giacevano sulla sabbia di Rheinberg, abbandonati alla disperazione, oppure si addormentavano sfiniti dentro alle loro buche le cui pareti cedevano, prima di sprofondare nell’eternità”.

Heinz Janssen, Prigionieri di guerra a Rheinberg, 1988

 

Non potevamo nemmeno stenderci completamente. Restavamo seduti tutta la notte, pigiati gli uni contro gli altri. Ma niente era peggio della mancanza di acqua. Per ben tre giorni e mezzo non ci è stata data acqua. Bevevamo la nostra urina. Il gusto era orribile, ma che cosa potevamo fare altrimenti? Alcuni di noi abbassavano la testa al suolo e lo leccavano per tentare di ricavarne un po’ di umidità. Mentre ero già molto debole e riuscivo soltanto a mettermi sulle ginocchia, ci hanno finalmente distribuito dell’acqua. Penso che sarei morto senza quell’acqua. E il Reno si trovava appena oltre i fili spinati. Attraverso il reticolato, le sentinelle ci vendevano acqua e sigarette. Una sigaretta costava 900 Marchi. Ho visto morire migliaia di miei compagni. Portavano via i loro corpi su dei camion”.

George Weiss, testimonianza raccolta da James Bacque, 1988

 

Ci tenevano in recinti con filo spinato, all’aria aperta e praticamente senza cibo. Le latrine erano costituite da assi gettate sopra a delle fosse, vicino ai fili spinati. Per dormire non avevamo altra scelta che scavare un buco per terra con le nostre mani e poi di stringerci gli uni contro gli altri nel fondo. Non avevamo praticamente spazio vitale. A causa della malattia, gli uomini dovevano defecare per terra. Ben presto, molti di noi si sono sentiti troppo deboli per alzarsi i pantaloni prima che fosse troppo tardi. I nostri vestiti erano infettati e così anche il fango nel quale bisognava camminare, sedersi e coricarsi. All’inizio non c’era acqua, a parte la pioggia; nel giro di due settimane fu possibile averne un po’ tramite un rubinetto. La maggior parte di noi non aveva un recipiente per raccoglierla e potevamo ingurgitarne solo un po’ dopo ore di coda e talvolta anche dopo una notte di attesa. Dovevamo camminare in mezzo alle buche, sui mucchi di terra molle dovuti agli scavi dei prigionieri per ripararsi. Era facile cadere dentro alle buche, ma non altrettanto facile uscirne. In quella primavera piovve quasi di continuo in questa parte della valle del Reno. Per oltre la metà del tempo abbiamo avuto pioggia. Per più della metà del tempo non abbiamo avuto niente da mangiare. Per il resto ci veniva data una piccola razione K. Dalla lista stampata sulla confezione mi rendevo conto che ci veniva dato solo un decimo del contenuto di queste razioni prodotte in America. In definitiva noi ricevevamo forse il 5% di una normale razione dell’esercito americano. Mi sono lamentato col comandante del campo, un americano, dicendogli che stava violando la Convenzione di Ginevra, ma questi mi ha risposto semplicemente: “dimentica la convenzione, tu non hai alcun diritto”. Nel giro di qualche giorno, uomini in buona salute al loro arrivo al campo, erano già morti. Ho visto i nostri compagni trascinare numerosi cadaveri fino ai cancelli del campo, dove veniva ammassati uno sull’altro, stessa cosa succedeva su un camion che li portava via”.

Charles von Luttichau, testimonianza raccolta da James Bacque, 1988

 

Siccome eravamo circa una trentina, credevamo che il viaggio sarebbe durato un giorno, invece abbiamo viaggiato per tre giorni interi, senza uscire, completamente chiusi. Guardavamo attraverso delle piccole fessure per sapere dove ci trovavamo. Dopo tre giorni arrivammo a Rennes. Nel campo c’erano più di 100.000 prigionieri, all’incirca lo stesso numero degli abitanti della città. Nelle baracche c’erano dei letti, i primi che vedevamo dopo settimane. Erano in legno, sovrapposto su tre piani, senza niente, ne paglia ne nient’altro. Si dormiva sulle assi. Era la prima volta che avevamo un tetto sulla testa da quando eravamo stati catturati. Avevamo trascorso tre settimane a Kreuznach, sul terreno, senza il permesso di accendere un fuoco o di scavare buche, e il nostro solo lavoro durante il giorno era quello di fare la coda per un po’ d’acqua. Questa veniva portata da dei contadini dentro a dei barili ma talvolta si esauriva prima ancora di essere messa nei barili perché la gente faceva dei buchi nei tubi e si affrettavano a bere. Il cibo mancava totalmente. Quando arrivavano i piselli, venivano divisi fra di noi e, una volta fatte le parti, ne restavano alcuni a testa. Tutti contavano e se ce n’erano sei a testa, beh allora si aspettava di arrivare a sei e mezzo.


Siamo rimasti a Rennes per otto mesi. Quando gli americani hanno lasciato il campo, ebbero un comportamento schifoso nei confronti dei francesi, i quali si sono vendicati su di noi. Avevo trovato un pezzo di tessuto in una delle baracche e potevo scriverci sopra. Mi sono accorto di capire tutto quello che scrivevo ma, una volta che lo cancellavo, questo si cancellava anche dalla mia memoria. Non ricordarsi le cose era il primo segno di sfinimento. Era terribile, cancellavo e non ero più in grado di ricordare ciò che avevo appena scritto e compreso. Non ero depresso, era soltanto la malnutrizione. Poi, quando la debolezza la faceva veramente da padrona e che il minimo movimento ci faceva svenire, si calcolava quanto tempo si restava svenuti. La malnutrizione era diventata così grave che il benché minimo gesto, fatto troppo velocemente, ci faceva svenire. Il cibo era talmente raro che le persone in generale erano ammalate e quando ci ammalavamo ci portavano all’ospedale. Quando le persone venivano portato in ospedale non le vedevamo mai ritornare. Dei 100.000 prigionieri detenuti a Rennes, ce ne fu sicuramente una parte che morì e anche una buona parte, ma io non ho mai trovato il benché minimo cimitero.
Non abbiamo mai visto la Croce Rossa. Nessuno è mai venuto ad ispezionare il campo per due anni. La loro prima visita avvenne nel 1947 per portarci delle coperte. Si mangiava l’erba che cresceva fra le baracche. I francesi non erano i soli responsabili di ciò che succedeva nei campi in Francia poiché avevano ricevuto molti tedeschi con la salute già considerevolmente compromessa in seguito a maltrattamenti ricevuti in Germania (nei campi americani)”.


Heinz T., testimonianza raccolta da James Bacque.

 

 

Che peccato non averne potuto ammazzare di più “.

Lettera di D. Eisenhower al Generale Marshall, Maggio 1943, dopo la resa delle forze dell’Afrika Korps (questa frase fu in seguito soppressa dalle edizioni ufficiali della sua Corrispondenza)

 

E’ esattamente come nelle fotografie di Buchenwald e Dachau “.

Rapporto del Cap. Julien, 3° Reggimento tiratori scelti algerini, Luglio 1945

 

Ero molto stupito di vedere che i nostri prigionieri erano deboli ed emaciati come quelli che avevo visto nei campi di concentramento nazisti. Il giovane comandante ci disse con tono calmo che lui privava deliberatamente i prigionieri del cibo e dichiarò: “Questi nazisti vengono finalmente ripagati nella stessa moneta!”. Era talmente convinto di comportarsi in modo corretto che non sollevammo alcuna polemica in sua presenza”.

Robert Murphy (consigliere politico civile del Gen. Eisenhower), dopo la visita ad un campo di prigionia durante l’estate del 1945.

 

La situazione dei prigionieri di guerra tedeschi in Europa è diventata disperata e rischia di diventare uno scandalo dichiarato. Nel corso delle ultime settimane, molti francesi, ex prigionieri dei tedeschi, mi hanno inviato note di protesta relative al trattamento che il governo francese impone ai prigionieri di guerra tedeschi. Ho incontrato Pradervand (principale Delegato del Comitato della Croce Rossa in Francia, il quale mi ha detto che la situazione dei prigionieri tedeschi in Francia è, in numerosi casi, peggiore di quella dei campi di concentramento tedeschi. Mi ha mostrato delle foto di scheletri viventi e lettere provenienti da comandanti di campi francesi che hanno richiesto di essere sollevati da questa responsabilità in quanto non riescono ad avere nessun aiuto dal governo francese e non sopportano di vedere i prigionieri morire d’inedia. Pradervand ha bussato a tutte le porte nell’ambito del governo francese senza ottenere però il benché minimo risultato”.

Lettera di Henry W. Dunning (responsabile della Croce Rossa americana) indirizzata al Dipartimento di Stato, il 5 Settembre 1945

 

Apprendiamo che in alcuni campi (francesi), buona parte del cibo, in linea di massima sufficiente e destinata ai prigionieri di guerra, viene dirottato dalla sua destinazione; che si vedono camminare scheletri viventi simili a quelli dei deportati nei campi tedeschi e che i morti per inedia sono numerosi; che apprendiamo che capita a questi prigionieri di essere picchiati selvaggiamente e sistematicamente; apprendiamo che vengono impiegati alcuni di questi sfortunati per dei lavori di sminamento senza fornire loro l’apparecchiatura necessaria e ciò li rende dei condannati a morte più o meno a breve termine. Bisogna che queste pratiche cessino”.


Editoriale del Figaro, 19 Settembre 1945

 

Questi prigionieri (nelle mani dei francesi) sono 600.000. 200.000 sono inabili al lavoro, di questi: a) 50.000 sono da rimpatriare in base alle convenzioni (invalidi, ciechi, pazzi, tubercolosi, anziani ecc.); b) 150.000 perché soffrono di grave denutrizione. La situazione dei 200.000 prigionieri di guerra sopra menzionati è così precaria, sia dal punto di vista alimentare che da quello sanitario e del vestiario, da poter dire, senza essere pessimisti, che non riusciranno a sopportare i rigori dell’inverno. Per rimediare a questa situazione è necessario che venga intrapresa un’azione energica urgente”.

Lettera di J.P. Pradervand (Capo delle delegazioni della Croce Rossa Internazionale) al Gen. De Gaulle, 26 Settembre 1945

 

Mentre oggi si parla di Dachau, fra dieci anni in tutto il mondo si parlerà di campi come……… Il nostro corrispondente cita quello di Saint-Paul d’Egiaux. Ma sembra che questo giudizio sia valido per molti campi francesi di prigionieri dell’Asse”.

Jacques Fauvet, nel Le Monde, 30 Settembre/1° Ottobre 1945

 

Le condizioni di prigionia dei prigionieri tedeschi nell’ambito del teatro europeo, espongono (il governo degli Stati Uniti) a delle gravi accuse di violazione della Convenzione di Ginevra”.

Lettera di B. Gufler, del Dipartimento di Stato, 11 Gennaio 1946

 

“La definizione di eliminazione non è eccessiva se si considera che il numero di queste morti supera ampiamente tutte quelle subite dall’esercito tedesco sul fronte occidentale tra il Giugno 1941 e l’Aprile 1945”

Dr. Ernest F. Fisher Jr., colonnello in pensione ed ex responsabile storico dell’esercito degli Stati Uniti, 1988

 

La storia considera solo i fenomeni di massa. Senza il grande numero di morti nei campi, la storia non avrebbe citato niente. Per impedire che il loro crimine fosse divulgato e trasformato in evento storico, bastava agli americani e ai francesi nascondere l’enormità di un disastro che solo loro potevano valutare. Ci riuscirono”.

James Bacque, Gli Altri Lager, 1989

 

L’atteggiamento del Generale De Gaulle:


“In qualità di capo del governo e capo delle forze armate, capitava senza dubbio a De Gaulle di parlare di questo problema col suo capo di Stato Maggiore della Difesa Nazionale, il Maresciallo Alphonse Juin, lui stesso al corrente della delicata situazione che riguardava i campi. Consigliato dal Maresciallo Juin, De Gaulle si rifiutò di ricevere Pradervand (Delegato della Croce Rossa Internazionale) ed offrì alla stampa mondiale, agli inizi del mese di Ottobre, una importante conferenza stampa nel corso della quale affrontò molto prudentemente il contenzioso franco-americano relativo al trasferimento dei prigionieri. Un atteggiamento tutto sommato poco sorprendente quando sappiamo che il Gen. De Gaulle aspettava la consegna quotidiana di migliaia di tonnellate di materiale bellico e di viveri (da parte degli americani). Charles De Gaulle era molto preoccupato dai problemi di politica interna, dal bisogno di instaurare la propria autorità in una Francia divisa e ansiosa di riconquistare il suo impero coloniale. Il destino di un milione di prigionieri tedeschi non aveva un gran peso sulla bilancia.


I viveri non mancavano, ma invece che essere distribuiti agli uomini che avevano fame, venivano venduti dagli ufficiali al mercato nero, con la sorpresa e la costernazione di uomini onesti come il sindaco di Bascons, Raoul Laporterie, che osò rischiare la propria carriera criticando il Gen. De Gaulle, il che gli portò effettivamente delle conseguenze.


Il Generale De Gaulle avrebbe potuto facilmente evitare numerose morti smettendo di aggiungere ulteriori prigionieri a quelli che già perivano d’inedia. Il Maresciallo Juin avrebbe potuto convincerlo ad agire di conseguenza. Il Generale Buisson (direttore del servizio dei prigionieri di guerra) fu in un qualche modo vittima, come i prigionieri, di una politica futile e viziosa inflitta dai detentori del potere che altri non erano che il Gen. De Gaulle e il Maresciallo Juin. A chi spetta la gloria, tocca la vergogna”.

James Bacque, Gli Altri Lager, 1989

 

Carne da macello per la guerra d’Indocina


“I francesi affamarono deliberatamente dei prigionieri in modo da provocare il loro “impegno volontario” nella Legione Straniera. In effetti, un certo numero di legionari che combatterono in Indocina erano prigionieri di guerra tedeschi trasferiti nei campi francesi nel 1945 e nel 1946”.

James Bacque, Gli Altri lager, 1989

 

Siamo rimasti a Rennes otto mesi. Per tutto questo tempo avevamo capito perché ci avevano fatto venire qui. La Francia aveva bisogno di soldati. Avevano un grosso problema in Indocina e volevano ricorrere alla loro Legione Straniera. Agenti tedeschi al servizio dei francesi si erano infiltrati tra di noi per reclutare dei soldati. I soldati che si erano impegnati ad entrare nella Legione furono messi in un altro campo vicino e li si poteva vedere. Nel giro di due settimane, essendo stato meglio nutriti, avevano un aspetto più robusto, mentre noi diventavamo sempre più deboli. Si poteva vederli giocare a calcio e cantare e il tutto a due passi da noi”.

Heinz T., testimonianza raccolta da James Bacque.

 

 

Fonte del testo francese:

http://www.angelfire.com/folk/library/1bacque_fr.htm

http://www.egaliteetreconciliation.fr/Malheur-aux-vaincus-21675.html

Fonte Italiana: Ereticamente

 

Fonte: visto su CONTROINFORMAZIONE.COM del 31 gennaio 2014

Link: http://www.controinformazione.info/guai-ai-vinti-lolocausto-degli-alleati/

 

 

 

LE CURE PER ELIMINARE «QUESTI SLAVI» DAI CONFINI DEL REGNO D’ITALIA

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Le motivazioni della sentenza di morte, contenuta nel Giornale di Udine del 22 novembre 1866, ad un mese esatto dal plebiscito, e che prevedeva l’eliminazione forzata di «questi slavi» erano improntate ad una viscerale insofferenza nei confronti dello «straniero» e ad un palese senso di superiorità nei confronti di altre culture. Il tutto mascherato da un viscido paternalismo che mascherava il profondo razzismo radicato in certe correnti del Risorgimento che avevano prevalso sulle idee federaliste, la solidarietà e la fratellanza tra i popoli oppressi.

 

Verso gli slavi del Friuli, scriveva benignamente il Giornale di Udine, diretto dal giornalista e uomo politico friulano Pacifico Valussi, che pure, assieme a Nicolò Tommaseo, guardava con interesse al mondo slavo e comprendeva la necessità di mettersi in relazione con esso, «non faremo però nessuna violenza; ma adopereremo la lingua e la coltura di una civiltà prevalente quale è l’italiana per italianizzare gli Slavi in Italia, useremo speciali premure per migliorare le loro sorti economiche e sociali, per educarli, per attirarli a questa civiltà italiana, che deve brillare ai confini, tra quelli stessi che sono piuttosto ospiti nostri. Bisogna insomma che coll’agricoltura, coll’istruzione delle scuole e de’ libri, con ogni mezzo più adatto trasformiamo quelle poche popolazioni».

 

Si trattava di un programma vasto, piuttosto vago, ma preciso nelle sue finalità: italianizzare queste popolazioni con interventi in campo scolastico, economico e sociale.

 

Vediamo in quale modo esso è stato realizzato ed a quali risultati ha portato.

 

In campo culturale ci furono interventi più di facciata che di sostanza. Nel 1867 gli amministratori di San Pietro con delibera n. 479, su proposta del sindaco, decidevano di cambiare il nome del capoluogo in San Pietro al Natisone, cancellando, così, l’antico «degli Slavi» del quale i loro antenati andavano fieri.

 

Dieci anni dopo l’annessione, nel 1876, il Consiglio scolastico provinciale di Udine deliberava di trasferire da Cividale a San Pietro al Natisone la Scuola magistrale di grado inferiore «allo scopo di preparare le giovanette slovene, desiderose di avviarsi alla carriera dell’insegnamento elementare… San Pietro era il centro distrettuale degli otto comuni componenti la Slavia friulana e il Governo si propose di costituirvi una sede di cultura e di diffusione di italianità. Questo proposito diventa una realtà viva e palpitante nel 1877 con la istituzione di una Scuola magistrale e rurale biennale.

Contemporaneamente, pure per iniziativa del Governo, veniva annesso alla Scuola un convitto, amministrato e diretto dalla stessa direttrice della Scuola magistrale e veniva aggiunta una scuola Unica modello per le esercitazioni di tirocinio… Nell’anno 1883 la Scuola Magistrale rurale prese la denominazione di Scuola normale di grado inferiore (biennale) e fu soppressa la scuola preparatoria provinciale. Le conseguenze gravi che… derivarono alle giovanette slave (le quali, per mancanza di una scuola elementare di grado superiore, si vedevano chiuse le porte di ingresso nella Scuola magistrale istituita per loro) spinsero il Governo a istituire nel 1887 la scuola elementare di grado superiore (4.a e 5.a elementare)» (cfr. Petricig, Note biografiche e di commento a “Slavia Italiana” di Carlo Podrecca, Trieste 1978, p. 54).

 

La Scuola magistrale di San Pietro fu la seconda in provincia di Udine, che allora comprendeva anche quella di Pordenone. Una scuola, dunque, per preparare le maestre da inviare come zelanti missionarie a convertire i fanciulli dalle tenebre dell’inciviltà slava alla luce della civiltà latina!

 

Ma quali risultati ebbe questa scolarizzazione? Molto scarsi e, per assurdo, perfino contrari alle finalità per le quali era stata promossa.

 

La rete scolastica era da costruire quasi dalle fondamenta. Nel 1860, quindi sotto il Lombardo-Veneto, nel distretto di San Pietro degli Slavi c’erano appena quattro scuole «elementari minori» ed esclusivamente maschili. Un’inezia per il tanto decantato buon governo austriaco, che fin dal 1775, con una legge promulgata da Maria Teresa, aveva istituito una rete capillare di scuole anche nelle zone rurali.

Quella legge prevedeva tre tipi di scuola: la Normalschule, istituita in ogni Land; la Hauptschule, almeno una in ogni distretto; la Trivialschule, una in ogni paesino e in ogni parrocchia rurale. Tutti i bambini dei due sessi dovevano frequentarla tra i 6 e i 12 anni. In campagna, i bambini fino agli 8 anni dovevano frequentare la scuola estiva, da Pasqua alla fine di settembre, mentre quelli tra gli 8 e i 12 frequentavano la scuola invernale, dal 1° dicembre al 31 marzo, in modo da poter dare una mano nei lavori agricoli estivi. C’erano speciali corsi di ripasso: due ore ogni domenica dopo la messa, per i giovani fra i 13 e i 20 anni (cfr. Edward Crankshaw, Maria Teresa d’Austria, vita di un’imperatrice, Milano 1982).

 

L’Austria estese nel regno Lombardo – Veneto il proprio sistema scolastico. La legge di Maria Teresa venne riformata da un regolamento andato in vigore il 7 dicembre 1818 che prevedeva tre tipi di scuole: – le scuole elementari minori (due anni, a carico delle casse comunali); – le scuole elementari maggiori (tre anni per le femmine, quattro per i maschi, a carico dell’erario); – le scuole elementari tecniche (attivate non prima di dieci anni, destinate ai maschi e a carico dell’erario). L’istruzione elementare era obbligatoria dai sei ai dodici anni, anche se non di rado le amministrazioni comunali, per le quali pesante era l’onere di provvedere alle necessità economiche, cercavano di non ottemperare a quanto previsto dalla legge.

 

L’Italia si affacciò nella Slavia, dunque, quando la popolazione era in grande maggioranza analfabeta. Ma dopo dieci anni di sforzi per radicare la scolarizzazione i risultati non cambiarono granché. È vero che nell’anno scolastico 1875/1876 le aule scolastiche erano in totale 16 (8 per i maschi, 2 per le femmine e 6 miste), ma la frequenza degli alunni era semplicemente disastrosa.

Nelle Valli del Natisone c’era la più alta evasione scolastica di tutta la provincia di Udine: dei 424 maschi in età scolastica ben 228 (il 53,75 per cento) non frequentavano le lezioni e in maggior numero erano le femmine a disertarle: su 377 rimanevano a casa addirittura 290, il 76,89 per cento! (cfr. Corbanese, cit, p. 191). Un disastro per le autorità che avevano puntato sull’eliminazione di questi slavi attraverso la cultura!

 

Solo il distretto di Pordenone si avvicinava ai dati della Slavia: a non frequentare le scuole era il 48,57 per cento dei maschi e il 73 per cento delle femmine. Ma se facciamo il paragone con il distretto di Ampezzo (zona montuosa e disagiata forse più della Slavia) notiamo un’abissale differenza: i maschi evasori erano appena il 9,19 per cento, le femmine il 32,66 per cento.
Con questi dati è facilmente intuibile che l’analfabetismo era diffusissimo.

In base al censimento del 1881, quindici anni dopo l’annessione all’Italia, il distretto di San Pietro registrava il 79,35 per cento di analfabeti, occupando il 197° posto tra i 284 circondari del Regno (la media nazionale era di 67,26 per cento, quella della provincia di Udine del 62,45 per cento); gli analfabeti oltre i sei anni erano il 75,59 per cento (198° posto in Italia) (cfr. Musoni 1895: 8). In quell’anno negli otto comuni delle Valli del Natisone c’erano 27 scuole (San Pietro 7, Tarcetta 3, Savogna 4, Rodda 3, S. Leonardo 3, Grimacco 3, Drenchia 2, Stregna 2).

 

Ma quali le possibili cause di tanto disinteresse per l’istruzione? Probabilmente la difficoltà maggiore era rappresentata dal rapporto conflittuale che aveva la scuola con la lingua slovena locale, che era usata in famiglia, nei rapporti quotidiani e in chiesa, dove da secoli era la lingua “ufficiale” accanto al latino. L’impatto con la scuola doveva essere traumatico per l’alunno che non trovava nessun collegamento tra di essa e la vita quotidiana, il mondo degli affetti e delle relazioni, gli insegnamenti e le pratiche religiose che in quell’ambiente esclusivamente rurale rivestiva una grande importanza in quanto scandiva i ritmi della vita.

 

Lo stesso Musoni fu costretto ad ammettere: «L’istruzione, però, come viene impartita, non raggiunge lo scopo che si propone: lo scopo cioè di far apprendere la lingua italiana» (Musoni 1895: 9).

 

 

Fonte: visto su SLOV.IT del 31 maggio 2011

Link: http://www.dom.it/le-cure-per-eliminare-questi-slavi-dai-confini-del-regno-ditalia/

 

IL SIONISMO E IL TERZO REICH

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di Mark Weber

 

Agli inizi del 1935, una nave passeggeri diretta ad Haifa, in Palestina, lasciò il porto tedesco di Bremerhaven (1). La poppa recava le lettere dell’alfabeto ebraico col suo nome, Tel Aviv (2), mentre una bandiera con la svastica sventolava dall’albero (3). E, sebbene la nave fosse di proprietà sionista, il suo capitano era un membro del Partito Nazionalsocialista. Molti anni più tardi un viaggiatore della nave ricordava questa simbolica combinazione come una “assurdità metafisica”. (4) Assurdo o no, questa non è nient’altro che una immagine di un capitolo di storia poco noto: la collaborazione ad ampio raggio fra il Sionismo ed il Terzo Reich di Hitler.

 

SCOPI COMUNI

 

Negli anni, i popoli di molti paesi diversi si sono scontrati con la “questione ebraica”: cioè, qual’è il ruolo tipico (5) degli ebrei nella società non-ebraica? Durante gli anni ’30 i sionisti ebrei e i Nazionalsocialisti tedeschi condivisero punti di vista simili sul modo di trattare con questo imbarazzante problema. Erano d’accordo sul fatto che ebrei e tedeschi erano nazionalità nettamente diverse, e che gli ebrei non facevano parte della Germania. Perciò gli ebrei che vivevano nel Reich non dovevano essere considerati come “Tedeschi di fede ebraica”, ma piuttosto come membri di una comunità nazionale distinta (6). Il sionismo (il nazionalismo ebraico) comportava anche l’obbligo, per gli ebrei sionisti, di insediarsi in Palestina, la “patria ebraica”. Difficilmente avrebbero potuto considerarsi sinceri sionisti e contemporaneamente pretendere eguali diritti in Germania o in qualsiasi altro paese “straniero”.

 

 

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Theodor Herzl

 

 

Theodor Herzl (1860-1904) 7, il fondatore del moderno sionismo, sosteneva che l’antisemitismo non è un’aberrazione ma una risposta naturale e del tutto comprensibile dei non ebrei agli atteggiamenti e ai comportamenti estranei degli ebrei. L’unica soluzione, concludeva (8), era che gli ebrei riconoscessero la realtà e vivessero in un loro stato separato.

La questione ebraica esiste ovunque gli ebrei vivano in numero rilevante”, scriveva nella sua opera più importante, Lo Stato ebraico (9). “Dove essa non esiste, viene introdotta dall’arrivo degli ebrei…Io credo di comprendere l’antisemitismo, che è un fenomeno molto complesso. Considero questo sviluppo della situazione come ebreo, senza odio o paura”. Il problema ebraico, rifletteva, non è né sociale né religioso. “E’ una questione nazionale. Per risolverla dobbiamo, soprattutto, farne una questione politica internazionale…”. (10) Nonostante la loro cittadinanza, insisteva Herzl, gli ebrei non costituiscono semplicemente una comunità religiosa, ma una nazionalità, un popolo, un Volk. (11) Il Sionismo, scriveva Herzl, offriva al mondo una gradita “soluzione finale del problema ebraico”. (12)

 

Sei mesi dopo l’andata al potere di Hitler, la Federazione Sionista Tedesca (13) (il gruppo sionista di gran lunga più numeroso nel paese) sottopose al nuovo Governo un dettagliato memorandum che esaminava le relazioni ebraico-tedesche ed offriva formalmente il sostegno sionista per “risolvere” la tormentosa “questione ebraica”. Si suggeriva che il primo passo dovesse essere un franco riconoscimento delle fondamentali diversità nazionali: (14)

Il Sionismo non si fa illusioni sulla difficoltà della condizione ebraica, che consiste soprattutto in un modello professionale anormale e nel difetto di un atteggiamento intellettuale e morale non radicato in alcuna tradizione propria. Il Sionismo riconobbe decenni fa che, come risultato della tendenza assimilazionista, dovevano apparire sintomi di deterioramento…

Il Sionismo crede che la rinascita della vita nazionale di un popolo, come sta ora accadendo in Germania attraverso l’enfasi dei suoi caratteri cristiani e nazionali, deve avvenire anche nel gruppo nazionale ebraico. Anche per il popolo ebraico l’origine nazionale, la religione, il comune destino e il senso della propria unicità debbono essere d’importanza decisiva nel modellare la propria esistenza. Ciò significa che l’individualismo egoistico dell’era liberale deve essere vinto e sostituito con un senso della comunità e della responsabilità collettivi.. Noi crediamo che sia proprio la nuova Germania Nazionalsocialista che possa, con audace risolutezza, gestire il problema ebraico, facendo un passo decisivo in direzione del superamento di un problema che, in verità, dovrebbe essere affrontato dalla maggior parte dei popoli europei…

Il nostro riconoscimento della nazionalità ebraica contempla un rapporto chiaro e sincero col popolo tedesco e le sue realtà nazionali e razziali. Proprio perché non vogliamo falsificare questi fondamenti, in quanto anche noi siamo contrari ai matrimoni misti e favorevoli al mantenimento della purezza del gruppo ebraico e rigettiamo ogni trasgressione (15) nel dominio culturale, noi –essendo stati allevati nella lingua e nella cultura tedesche- possiamo dimostrare interesse nelle opere e nei valori della cultura tedesca con ammirazione e simpatia interiore…

Per i suoi scopi pratici, il Sionismo spera d’essere in grado di ottenere la collaborazione perfino di un governo fondamentalmente ostile agli ebrei, perché nel trattare la questione ebraica non vi sono implicazioni sentimentali ma un problema reale la cui soluzione interessa tutti i popoli e, nel momento attuale, in particolar modo quello tedesco…

La propaganda per il boicottaggio –nel modo in cui, al presente, continua in molti modi contro la Germania- è in sostanza non-Sionista, poiché il Sionismo non vuole fare battaglie ma convincere e costruire…
Noi non ignoriamo il fatto che esiste una questione ebraica e che essa continuerà ad esistere. Dalla situazione anormale in cui si trovano gli ebrei derivano per loro gravi disagi, ma ne conseguono anche delle condizioni a stento tollerabili per gli altri popoli.

 

Il giornale della Federazione (16), Jüdische Rundschau (17), diffondeva lo stesso messaggio: “Il Sionismo riconosce l’esistenza di un problema ebraico e desidera una soluzione costruttiva e di vasta portata. A tal fine il Sionismo desidera ottenere l’assistenza di tutti i popoli, sia favorevoli che contrari agli ebrei, perché, dal suo punto di vista, noi qui siamo affrontando un problema concreto e non di sentimenti, alla soluzione del quale tutti i popoli sono interessati”. (18)

 

Joachim Prinz (19), un giovane rabbino berlinese, insediatosi in seguito egli Stati Uniti e divenuto capo dell’American Jewish Congress 20, nel 1934 scrisse nel proprio libro Wir Juden   (21) che la rivoluzione Nazionalsocialista in Germania significava “gli Ebrei per gli Ebrei”. E spiegava: “Ora nessun sotterfugio ci può salvare. Al posto dell’assimilazione noi vogliamo un nuovo concetto: riconoscimento della nazione ebraica e della razza ebraica”. (22)

 

COLLABORAZIONE ATTIVA

 

Sulla base delle loro ideologie simili relativamente ad appartenenza etnica e nazionalità, i Nazionalsocialisti e i Sionisti lavorarono insieme per quello che ciascun gruppo riteneva fosse nel proprio interesse nazionale. Come risultato, il Governo di Hitler sostenne con vigore il Sionismo e l’emigrazione ebraica in Palestina dal 1933 (23) fino al 1940-41, quando la II Guerra mondiale impedì un’estesa collaborazione.

 

Perfino quando il Terzo Reich si fece più saldo, molti ebrei tedeschi, probabilmente la maggioranza, continuarono a considerarsi, spesso con considerevole orgoglio, prima di tutto tedeschi. Pochi furono entusiasti di strappare le proprie radici per iniziare una nuova vita nella lontana Palestina. Tuttavia sempre più ebrei tedeschi in questo periodo diventarono sionisti. Fino al 1938 inoltrato il movimento sionista prosperò nella Germania di Hitler. La circolazione del quindicinale della Federazione, la Jüdische Rundschau, crebbe enormemente. Furono pubblicati numerosi libri sionisti. L’Encyclopaedia Judaica registra come in Germania, in quegli anni, “L’opera Sionista era in pieno sviluppo”. Un raduno sionista tenuto a Berlino nel 1936 rispecchiava “nella propria composizione l’energica vita di partito dei sionisti tedeschi”. (24) La SS si mostrava particolarmente entusiasta nell’appoggiare il sionismo. Una disposizione interna della SS del giugno 1934 esortava ad un sostegno attivo e ad ampio raggio verso il sionismo da parte del Governo e del Partito come il miglior modo per incoraggiare l’emigrazione degli ebrei tedeschi in Palestina. Ciò avrebbe richiesto una accresciuta autocoscienza ebraica. Il documento raccomandava che fossero promosse scuole ebraiche, gruppi sportivi ebraici, organizzazioni culturali ebraiche – in breve, tutto ciò che poteva incoraggiare questa nuova consapevolezza ed autocoscienza. (25)

 

L’ufficiale della SS Leopold von Mildenstein (26) e il rappresentante della Federazione Sionista Kurt Tuchler (27) viaggiarono sei mesi per la Palestina per valutare la possibilità di un insediamento sionista. (28) Von Mildenstein, basandosi sulle proprie osservazioni di prima mano, scrisse una serie di dodici articoli illustrati per l’importante quotidiano berlinese Der Angriff (29) che apparvero nel 1934 inoltrato col titolo “Un Nazionalsocialista viaggia in Palestina”. (30)

 

Gli articoli esprimevano grande ammirazione per lo spirito pionieristico e per le realizzazioni dei coloni ebrei. Von Mildenstein scriveva che lo sviluppo del concetto sionista aveva prodotto un novo tipo di ebreo. Elogiava il sionismo come un grande vantaggio sia per il popolo ebraico che per il mondo intero. Nel suo articolo conclusivo scriveva che una patria ebraica in Palestina “indica la strada per curare una ferita vecchia di secoli nel corpo del mondo: la questione ebraica”. Der Angriff emise una speciale medaglia, con una Svastica su una faccia e la Stella di David sull’altra, per commemorare la visita congiunta in Palestina. (31) Pochi mesi dopo l’uscita degli articoli von Mildenstein venne promosso a capo del Dipartimento Affari ebraici del servizio di sicurezza della SS allo scopo di sostenere più efficacemente la migrazione e lo sviluppo sionista. (32)

 

 

Das Schwarze Korps

Un numero de Das Schwarze Korps del 1939

 

 

Il giornale ufficiale della SS, Das Schwarze Korps, (33) dichiarò il proprio sostegno al Sionismo in un editoriale di prima pagina del maggio del 1935: “Può non essere troppo lontano il momento in cui la Palestina sarà di nuovo in grado di ricevere i propri figli che ha perduto per più di mille anni. A loro vanno i nostri migliori auguri, insieme alla benevolenza ufficiale”. (34) Quattro mesi dopo, sul giornale della SS, apparve un articolo simile: (35)

Il riconoscimento degli ebrei come una comunità razziale basata sul sangue e non sulla religione conduce il governo tedesco a garantire senza riserve la separazione razziale di questa comunità. Il Governo si trova in totale accordo col grande movimento spirituale ebraico, il cosiddetto Sionismo, col suo riconoscimento della solidarietà degli ebrei nel mondo e col suo rifiuto di tutte le idee assimilazioniste. Su queste basi, la Germania intraprende provvedimenti che in futuro giocheranno senza dubbio un ruolo significativo nel trattare il problema ebraico in tutto il mondo.

 

Una importante linea di navigazione tedesca iniziò un servizio diretto passeggeri con transatlantici da Amburgo a Haifa, in Palestina, nell’ottobre del 1933, fornendo “sulle proprie navi cibo rigorosamente kasher, sotto la supervisione dei rabbini amburghesi”. 36
Col sostegno ufficiale, i sionisti lavorarono accanitamente per “rieducare” gli ebrei tedeschi. Come puntualizza lo storico statunitense Francis Nicosia nella propria ricerca del 1985, The Third Reich and the Palestine Question : “I sionisti furono incoraggiati a portare il proprio messaggio alla comunità ebraica, a raccogliere danaro, a mostrare film sulla Palestina e in genere ad istruire gli ebrei tedeschi sulla Palestina. Vi fu una pressione considerevole per insegnare agli ebrei in Germania a smettere di considerarsi (37) tedeschi e a risvegliare in loro una nuova identità nazionale ebraica”. (38)

 

In una intervista del dopoguerra, l’ex-capo della Federazione Sionista tedesca, dottor Hans Friedenthal, riassunse così la situazione: “La Gestapo fece di tutto in quei giorni per dare impulso all’emigrazione, in particolare verso la Palestina. Ricevemmo spesso il loro aiuto qualsiasi cosa ci fosse richiesta da altri enti a proposito dei preparativi per l’emigrazione”.(39) Col Congresso del Partito Nazionalsocialista del settembre del 1935, il Reichstag adottò le cosiddette Leggi di Norimberga (40), che proibivano i matrimoni e le relazioni sessuali fra ebrei e tedeschi e, in realtà, proclamavano gli ebrei una minoranza nazionale straniera. Pochi giorni dopo un editoriale della sionista Jüdische Rundschau accoglieva le nuove misure: (41)

 

La Germania…viene incontro alle richieste del Congresso Mondiale Sionista quando dichiara gli ebrei che oggi vivono in Germania una minoranza nazionale. Una volta che gli ebrei sono stati identificati come minoranza nazionale è di nuovo possibile stabilire normali relazioni fra la nazione tedesca e gli ebrei. Le nuove leggi danno alla minoranza ebraica in Germania la propria vita culturale, la propria vita nazionale. In breve, essa può creare il proprio futuro sotto tutti gli aspetti della vita nazionale…

 

La Germania ha dato alla minoranza ebraica l’opportunità di vivere per se stessa, e sta offrendo la protezione statale per questa esistenza separata della minoranza ebraica: il processo di crescita degli ebrei in una nazione verrà perciò incoraggiato e sarà dato un contributo all’instaurarsi di relazioni più tollerabili fra le due nazioni.

 

Georg Kareski, (42) il capo sia dell’Organizzazione “revisionista” dello Stato sionista che della Lega Culturale ebraica, ed ex-capo della comunità ebraica berlinese, dichiarò, in una intervista al quotidiano Der Angriff alla fine del 1935: (43)

 

Per molti anni ho considerato la completa separazione delle questioni culturali dei due popoli (44) come una pre-condizione per vivere insieme senza conflitti…Ho lungamente sostenuto tale separazione, purché fosse fondata sul rispetto per la nazionalità straniera. Le Leggi di Norimberga…mi sembrano, a parte le loro disposizioni legali, conformarsi interamente a questo desiderio di vita separata basata sul mutuo rispetto…Questa interruzione del processo di dissoluzione in atto in molte comunità ebraiche, cui era stato dato impulso attraverso i matrimoni misti, è perciò, da un punto di vista ebraico, del tutto gradito.

 

I leader sionisti in altri paesi ripresero (45) queste opinioni. Stephen S. Wise (46), presidente dell’ American Jewish Congress e del World Jewish Congress (47), nel giugno del 1938 dichiarò, ad un raduno tenuto a New York: “Io non sono un cittadino americano di religione ebraica, io sono un ebreo…Hitler ha ragione su un punto. Egli definisce il popolo ebraico una razza e noi siamo una razza”. (48)

 

L’esperto di questioni ebraiche del Reichsministerium des Innern (49), dottor Bernhard Lösener (50), espresse il proprio appoggio al sionismo in un articolo che apparve nel numero di novembre del 1935 della (51) Reichsverwaltungsblatt: (52)

 

Se gli ebrei avessero già il loro stato in cui fosse insediata la maggior parte di loro, allora la questione ebraica potrebbe essere, oggi, considerata come del tutto risolta, anche per gli stessi ebrei. La minore opposizione alle idee che sono alla base delle Leggi di Norimberga è stata mostrata dai sionisti poiché essi si sono resi subito conto che quelle leggi rappresentano l’unica soluzione giusta anche per il popolo ebraico. Perché ogni nazione deve avere il proprio stato come manifestazione esterna della propria particolare nazionalità.

 

In collaborazione con le autorità tedesche, i gruppi sionisti organizzarono una rete di circa quaranta campi (53) e centri agricoli in tutta la Germania nei quali i futuri coloni vennero addestrati per le loro nuove esistenze in Palestina. Sebbene le Leggi di Norimberga proibissero agli ebrei di esporre la bandiera tedesca, fu loro specificamente garantito il diritto di esibire la bandiera nazionale ebraica blu e bianca. La bandiera che un giorno sarà adottata da Israele fu fatta sventolare nei campi e nei centri sionisti della Germania hitleriana. (54)

 

Il Sichereitsdienst di Himmler cooperò con l’Haganah (55), l’organizzazione militare clandestina sionista in Palestina. Il Servizio (56) della SS pagava l’ufficiale dell’Haganah Feivel Polkes (57) per le informazioni sulla situazione in Palestina e per il suo aiuto nell’indirizzare l’emigrazione ebraica verso quel paese.

 

Nel frattempo l’Haganah veniva tenuta al corrente dei piani tedeschi da una spia che riuscì a infiltrare (58) nel Quartier generale berlinese della SS. (59) La collaborazione fra Haganah ed SS comprese perfino consegne segrete di armi tedesche ai coloni ebrei da usare negli scontri con gli arabi palestinesi. (60) Nel periodo immediatamente seguente allo scoppio di violenza e distruzioni nella Kristallnacht del novembre 1938, la SS aiutò rapidamente l’organizzazione sionista a rimettersi in piedi e a continuare il proprio lavoro in Germania, sebbene adesso sottoposta ad una sorveglianza più restrittiva. (61)

 

RISERVE UFFICIALI

 

Il sostegno tedesco al sionismo non fu illimitato. I funzionari del Governo e del Partito furono molto attenti alla ininterrotta campagna condotta dalle potenti comunità ebraiche negli Stati Uniti, in Gran Bretagna e in altri paesi per mobilitare i “propri” governi ed i cittadini contro la Germania. Finché l’ebraismo mondiale rimase implacabilmente ostile alla Germania Nazionalsocialista, e finché la grande maggioranza degli ebrei in tutto il mondo mostrò scarso desiderio di reinsediarsi nella “terra promessa” del sionismo, uno stato ebraico sovrano in Palestina in realtà non avrebbe “risolto” il problema ebraico a livello internazionale. Al contrario, i funzionari tedeschi si persuasero che esso avrebbe rafforzato immensamente la pericolosa campagna anti-tedesca. Il sostegno tedesco al sionismo fu allora circoscritto ad appoggiare una patria ebraica in Palestina sotto controllo britannico, e non uno stato ebraico sovrano. (62) Nel giugno del 1937 il Ministro degli Esteri informò i diplomatici che uno stato ebraico in Palestina non sarebbe stato negli interessi tedeschi, poiché non sarebbe stato in grado di assorbire tutti gli ebrei del mondo, bensì sarebbe servito soltanto come base di potere supplementare per l’ebraismo internazionale, in ciò molto simile alla funzione di Mosca che serviva da base per il comunismo internazionale. (63) Riflettendo qualcosa del cambiamento della politica ufficiale, la stampa tedesca nel 1937 espresse una simpatia molto più grande per la resistenza arabo-palestinese alle ambizioni sioniste, nel momento in cui la tensione e i conflitti fra ebrei e arabi in Palestina crebbero bruscamente. (64 )

 

Una circolare del Foreign Office (65) del 22 giugno 1937 avvertiva che, malgrado il sostegno per l’insediamento ebraico in Palestina, “nondimeno sarebbe un errore presumere che la Germania appoggi la formazione di una struttura statale sotto qualche forma di controllo ebraico. In considerazione dell’agitazione anti-tedesca dell’ebraismo internazionale, la Germania non può convenire che la formazione di uno stato ebraico in Palestina aiuterebbe lo sviluppo pacifico delle nazioni nel mondo”. (66) “La proclamazione di uno stato ebraico o di una Palestina amministrata dagli ebrei”, metteva in guardia un memorandum interno della Sezione Questioni ebraiche della SS “creerebbe un nuovo nemico per la Germania, che avrebbe una profonda influenza sugli sviluppi nel Vicino Oriente”.

Un altro dipartimento della SS profetizzava che la nascita di uno stato ebraico “avrebbe operato per introdurre delle protezioni per le minoranze ebraiche in ogni paese, fornendo in tal modo una salvaguardia legale all’attività di sfruttamento dell’ebraismo mondiale”. (67) Nel gennaio del 1939 il nuovo Ministro degli Esteri di Hitler, Joachim von Ribbentrop (68), in un’altra circolare ammonì parimenti che “la Germania deve considerare la formazione di uno stato ebraico come un pericolo” poiché esso “condurrebbe ad un aumento internazionale del potere dell’ebraismo mondiale”. (69)

 

Hitler stesso riesaminò personalmente l’intera questione agli inizi del 1938 e, malgrado il proprio scetticismo di vecchia data a proposito delle ambizioni sioniste e i timori che le sue azioni politiche potessero contribuire alla formazione di uno stato ebraico, decise di sostenere l’emigrazione ebraica in Palestina addirittura con maggior vigore. La prospettiva di liberare la Germania dagli ebrei, concluse, superava in valore i possibili pericoli. (70) Intanto il governo britannico impose delle restrizioni addirittura più drastiche per l’immigrazione ebraica in Palestina nel 1937, nel 1938 e nel 1939. In risposta a ciò, il servizio di sicurezza della SS concluse una alleanza segreta con il gruppo sionista clandestino Mossad le-Aliya Bet (71) per portare illegalmente gli ebrei in Palestina. Come risultato di questa intensa collaborazione, vari convogli marittimi riuscirono a raggiungere la Palestina superando le cannoniere britanniche. L’emigrazione ebraica, sia legale che illegale, dalla Germania (compresa l’Austria) in Palestina crebbe drammaticamente nel 1938 e nel 1939. Nell’ottobre del 1939 era programmata la partenza di altri 10.000 ebrei ma lo scoppio della guerra a settembre fece fallire il tentativo (72). Le autorità tedesche continuarono lo stesso a promuovere indirettamente l’emigrazione ebraica in Palestina nel 1940 e nel 1941. (73 ) Perfino nel 1942, a marzo inoltrato, continuò a funzionare nella Germania di Hitler almeno un campo d’addestramento sionista alla vita nei kibbutz per i potenziali emigranti, autorizzato ufficialmente. (74)

 

L’ACCORDO PER IL TRASFERIMENTO (75)

 

Il momento centrale della cooperazione tedesco-sionista durante l’epoca hitleriana fu L’Accordo di Trasferimento, un patto che consentì a decine di migliaia di ebrei tedeschi di emigrare in Palestina coi propri averi. L’Accordo, noto anche come Haavara, fu stipulato nell’agosto del 1933 in seguito ai colloqui fra funzionari tedeschi e Chaim Arlosoroff (76), segretario politico dell’Agenzia ebraica, il centro palestinese dell’Organizzazione (77) Mondiale Sionista. (78)
Attraverso questa insolita intesa, ogni ebreo destinato alla Palestina depositava del denaro in un conto speciale in Germania. Questi soldi venivano utilizzati per acquistare attrezzi agricoli, materiali da costruzione, pompe, fertilizzanti e così via, prodotti in Germania, esportati in Palestina e venduti dalla compagnia ebraica Haavara (79) di Tel Aviv. Il ricavato delle vendite veniva dato all’emigrante ebreo al suo arrivo in Palestina per l’ammontare corrispondente al deposito effettuato in Germania.

 

Le merci tedesche entravano in Palestina per mezzo dell’Haavara, che, poco tempo dopo raggiunse un accordo di scambio col quale le arance prodotte in Palestina venivano barattate con legname da costruzione, automobili, macchinario agricolo ed altri prodotti tedeschi. L’accordo in tal modo serviva lo scopo sionista di portare coloni ebrei e capitale per lo sviluppo della Palestina, e contemporaneamente l’obiettivo tedesco di liberare il paese da una minoranza straniera indesiderata.

 

I delegati al Congresso Sionista di Praga del 1933 discussero profondamente i pregi dell’accordo. Alcuni temevano che il patto avrebbe indebolito il boicottaggio economico promosso dall’ebraismo internazionale contro la Germania. Ma i funzionari sionisti tranquillizzarono il Congresso. Sam Cohen (80), un personaggio chiave dietro l’accordo Haavara, sottolineò che l’accordo non era economicamente vantaggioso per la Germania. Arthur Ruppin (81), uno specialista in emigrazione dell’Organizzazione Sionista che aveva collaborato a negoziare l’accordo, fece notare che “l’accordo di trasferimento non interferisce in alcun modo col movimento per il boicottaggio, poiché in Germania non giungerà alcuna nuova valuta come risultato dell’accordo…”. (82) Il Congresso sionista del 1935, che si tenne in Svizzera, approvò il patto con una schiacciante maggioranza. Nel 1936 l’Agenzia Ebraica (il “governo ombra” sionista in Palestina) prese il controllo diretto della Haavara, controllo che in realtà rimase finché la Seconda Guerra mondiale non impose il suo abbandono.
Alcuni funzionari tedeschi si opposero all’intesa. Il console generale di Germania a Gerusalemme, Hans Döhle, per esempio, criticò aspramente l’accordo in varie occasioni, nel 1937. Egli fece notare come esso costasse alla Germania quella valuta straniera che i prodotti esportati in Palestina per mezzo del patto avrebbero procurato se venduti altrove. Il monopolio, detenuto dalla Haavara, un ente ebraico, per le vendite dei prodotti tedeschi in Palestina, provocò la collera degli uomini d’affari tedeschi ed arabi in loco. Il sostegno tedesco ufficiale al sionismo poteva condurre ad una perdita di vendite tedesche nel mondo arabo. Anche il governo britannico si irritò per l’intesa. (83) Una circolare interna del giugno del 1937 del Ministero degli Esteri tedesco faceva riferimento ai “sacrifici di valuta straniera” che derivavano dall’Haavara. (84) Un memorandum interno del Ministero degli Interni del dicembre del 1937 analizzava l’impatto dell’accordo di trasferimento: “Non c’è dubbio che l’accordo Haavara ha contribuito in modo significativo ad uno sviluppo molto rapido della Palestina, dal 1933. L’accordo non soltanto fornisce la più grande fonte di valuta (85), ma anche i gruppi più colti di immigranti ed infine porta nel paese le macchine ed i prodotti industriali essenziali per lo sviluppo”. Il promemoria riferiva che il vantaggio principale del patto era l’emigrazione di grandi quantità di ebrei in Palestina, l’obiettivo più desiderabile per quanto riguardava la Germania. Ma il documento registrava anche gli importanti svantaggi puntualizzati dal console Döhle e da altri. Il Ministro degli Interni, proseguiva il memorandum, aveva concluso che gli svantaggi dell’accordo superavano in importanza i vantaggi e che, di conseguenza, esso doveva essere interrotto. (86) Un uomo soltanto poteva dirimere la controversia. Hitler in persona esaminò questa politica a giugno ed a settembre del 1937 e di nuovo nel gennaio del 1938 e ogni volta decise di mantenere in essere l’accordo Haavara. L’obiettivo di trasferire gli ebrei fuori dalla Germania, concluse, giustificava gli svantaggi. (87)

 

Il Ministero dell’Economia del Reich (88) collaborò ad organizzare un’altra compagnia di trasferimento, l’International Trade and Investment Agency, o Intria, per mezzo della quale gli ebrei di altri paesi potevano aiutare quelli tedeschi ad emigrare in Palestina. Alla fine furono circa 900.000 dollari la somma trasferita attraverso l’Intria agli ebrei tedeschi in Palestina. (89) Altri paesi europei, impazienti d’incoraggiare l’emigrazione ebraica, conclusero accordi coi sionisti sul modello dell’Haavara. Nel 1937 la Polonia autorizzò la compagnia di trasferimento Halifin. 90 Con la tarda estate del 1939, la Cecoslovacchia, la Romania, l’Ungheria e l’Italia avevano siglato accordi analoghi. Lo scoppio della guerra nel settembre del 1939, tuttavia, ostacolò l’attuazione di queste intese su vasta scala. (91)

 

RISULTATI (92) DELL’HAAVARA

 

Fra il 1933 ed il 1941, emigrarono in Palestina circa 60.000 ebrei tedeschi per mezzo dell’Haavara e d’altri accordi tedesco-sionisti, circa il 10 per cento della popolazione ebraica della Germania del 1933. (Questi ebrei tedeschi costituirono circa il 15 per cento della popolazione ebraica della Palestina del 1939). Alcuni emigranti dell’Haavara trasferirono dalla Germania alla Palestina considerevoli fortune personali. Come ha notato lo storico ebreo Edwin Black: “Molta di questa gente, specialmente verso la fine degli anni ’30, fu autorizzata a trasferire delle copie reali delle loro case e delle loro fabbriche – davvero delle riproduzioni approssimative delle loro esistenze”. (93)

 

L’importo complessivo di danaro trasferito dalla Germania alla Palestina per mezzo dell’Haavara fra l’agosto del 1933 e la fine del 1939, fu di 8 milioni e centomila sterline ovvero 139 milioni e 57.000 marchi tedeschi (equivalenti a oltre 40 milioni di dollari). Questo importo comprende i 33 milioni e 900.000 marchi tedeschi (tredici milioni e 800.000 dollari) che la Reichsbank fornì in relazione all’accordo. (94 )

 

Lo storico Black ha stimato ulteriori 70 milioni di dollari finiti in Palestina attraverso accordi commerciali tedeschi collaterali e speciali transazioni bancarie internazionali. Egli sottolinea che i fondi tedeschi ebbero un significativo impatto in un paese sottosviluppato com’era la Palestina degli anni ’30. Coi capitali tedeschi furono costruite varie importanti imprese industriali, compresi l’acquedotto Mekoroth e l’industria tessile Lodzia. Black conclude che l’affluenza di merci e capitale dall’Haavara “produsse un’esplosione economica nella Palestina ebraica” e fu “un fattore indispensabile nella creazione dello stato d’Israele”. 95

 

L’Haavara-Abkommen contribuì enormemente allo sviluppo ebraico in Palestina e poi, indirettamente, alla fondazione dello stato d’Israele. Una circolare del gennaio 1939 del Ministero degli Esteri tedesco riferiva, con un po’ d’apprensione, che “il trasferimento della proprietà ebraica fuori dalla Germania (96) contribuisce in misura non lieve alla costruzione dello stato ebraico in Palestina”. (97)

 

Ex-funzionari della compagnia Haavara in Palestina hanno confermato questa opinione in uno studio dettagliato sull’accordo di trasferimento pubblicato nel 1972: “L’attività economica resa possibile dall’afflusso di capitale tedesco e dai trasferimenti dell’Haavara ai settori pubblico e privato furono di grande importanza per lo sviluppo del paese. Nella Palestina ebraica furono realizzate molte nuove industrie e imprese commerciali, e numerose aziende che sono enormemente importanti ancora oggi per l’economia dello stato d’Israele debbono la propria esistenza all’Haavara”. (98) Un funzionario della compagnia Haavara a Tel Aviv negli anni ’30, il dottor Ludwig Pinner (99), ha osservato più tardi che gli immigranti dell’Haavara, eccezionalmente competenti, “contribuirono in maniera decisiva” allo sviluppo economico, sociale, culturale e pedagogico della comunità ebraica palestinese. (100 )

 

L’Accordo di Trasferimento fu l’esempio di maggior portata della cooperazione fra la Germania hitleriana ed il sionismo internazionale. Attraverso questo patto, il Terzo Reich di Hitler fece più di ogni altro governo negli anni ’30 per sostenere lo sviluppo ebraico in Palestina.

 

I SIONISTI OFFRONO UN’ALLEANZA MILITARE AD HITLER

 

Agli inizi di gennaio del 1941 una piccola ma importante organizzazione sionista sottopose una proposta formale ai diplomatici tedeschi a Beirut per una alleanza politico-militare con la Germania in guerra. L’offerta venne fatta dal gruppo clandestino radicale “Combattenti per la Libertà d’Israele”, meglio conosciuto come Lehi o Banda Stern (101). Il suo capo, Avraham Stern (102), aveva da poco rotto i rapporti col gruppo nazionalista radicale Irgun Zvai Leumi (103) (Organizzazione Militare Nazionale) a causa dell’atteggiamento di quest’ultimo verso la Gran Bretagna (104), che aveva efficacemente proibito ulteriori insediamenti ebraici in Palestina. Stern considerava la Gran Bretagna come il nemico principale del sionismo. Questa straordinaria proposta sionista “per la soluzione del problema ebraico in Europa e la partecipazione attiva dell’NMO (105) alla guerra dalla parte della Germania” è degna d’essere citata per esteso: (106)

 

Nei loro discorsi e dichiarazioni, importanti uomini di stato della Germania Nazionalsocialista hanno spesso messo in evidenza che un Ordine Nuovo in Europa necessita come requisito primo una soluzione radicale del problema ebraico con l’evacuazione. (“Un’Europa libera dagli ebrei”). L’evacuazione delle masse ebraiche dall’Europa è una condizione primaria per risolvere la questione ebraica. Tuttavia, l’unico modo in cui ciò può essere realizzato del tutto è attraverso l’insediamento di queste masse nella patria del popolo ebraico, la Palestina, e con la costituzione di uno stato ebraico nei propri confini storici.

Lo scopo dell’attività politica e gli anni di lotta del Movimento per la Libertà d’Israele, l’Organizzazione Militare Nazionale in Palestina (Irgun Zvai Leumi), è quello di risolvere il problema ebraico in questo modo e così liberare completamente il popolo ebraico per sempre.

 

L’NMO (107), che conosce molto bene la benevolenza del governo del Reich tedesco e dei suoi funzionari verso le attività sioniste in Germania e nei confronti del programma sionista per l’emigrazione, osserva che (108):

 

  1. Possono esistere comuni interessi fra un Nuovo Ordine Europeo basato sulla concezione tedesca e le vere aspirazioni nazionali del popolo ebraico incarnate dall’NMO.
  2. E’ possibile una cooperazione fra la Nuova Germania e un ebraismo nazional-popolare rinnovato. (109)
  3. La costituzione dello storico stato ebraico su basi nazionali e totalitarie, unito da un trattato al Reich tedesco, sarebbe nell’interesse del mantenimento e del rafforzamento della futura posizione di potere tedesca nel Vicino Oriente.

 

Sulla base di tali considerazioni e a condizione che il governo del Reich tedesco riconosca le summenzionate aspirazioni nazionali del Movimento per la Libertà d’Israele, l’NMO in Palestina si offre di prendere parte attiva alla guerra dalla parte della Germania.
Quest’offerta dell’NMO potrà comprendere attività militare, politica e d’informazioni sia in Palestina che, dopo opportune misure organizzative, anche altrove. Insieme a ciò gli ebrei d’Europa sarebbero addestrati ed organizzati militarmente in unità sotto la guida e il comando dell’NMO. Essi prenderebbero parte ad operazioni belliche allo scopo di conquistare la Palestina, se dovesse formarsi questo fronte.

La partecipazione indiretta del Movimento per la Libertà d’Israele al Nuovo Ordine in Europa, già nella fase preparatoria, unita ad una soluzione positiva e radicale del problema ebraico europeo sulle basi delle aspirazioni nazionali del popolo ebraico sopra menzionate, rafforzerebbe enormemente le fondamenta morali del Nuovo Ordine agli occhi di tutta l’umanità.

La cooperazione del Movimento per la Libertà d’Israele sarebbe anche coerente con un recente discorso del Cancelliere del Reich tedesco, in cui Hitler ha sottolineato che utilizzerebbe qualsiasi combinazione e coalizione allo scopo di isolare e sconfiggere l’Inghilterra.

 

Non esiste traccia (110) di una risposta tedesca. Un’accoglienza favorevole era comunque assai improbabile poiché a quel tempo la politica tedesca era decisamente pro-araba. (111) E’

comunque notevole che il gruppo Stern cercasse di concludere un patto col Terzo Reich al

tempo in cui i racconti su Hitler determinato a sterminare gli ebrei circolavano già

ampiamente. Apparentemente o Stern non credeva a queste voci oppure era disponibile a

collaborare col nemico mortale del proprio popolo per ottenere aiuto per uno stato ebraico. (112)

 

Un membro importante del Lehi all’epoca in cui il gruppo fece questa offerta era Yitzhak Shamir, che in seguito sarà Ministro degli Esteri d’Israele e poi, durante gran parte degli anni ’80 e fino al 1992, Primo Ministro. Come capo delle operazioni del Lehi, dopo la morte di Stern nel 1942, Shamir organizzò numerose azioni terroristiche, compreso l’assassinio del Ministro per il Medio Oriente britannico Lord Moyne e nel settembre del 1948 l’uccisione del mediatore svedese delle Nazioni Unite conte Bernadotte. Anni dopo, quando a Shamir fu chiesto dell’offerta del 1941, egli confermò d’essere stato al corrente dell’alleanza proposta dalla propria organizzazione alla Germania in tempo di guerra. (113)

 

CONCLUSIONI

 

Malgrado la fondamentale ostilità fra il regime hitleriano e l’ebraismo internazionale, per vari anni gli interessi del sionismo ebraico e del Nazionalsocialismo tedesco coincisero. Il Terzo Reich, in collaborazione coi sionisti, per una soluzione umana e reciprocamente desiderabile di un problema complesso, fu disponibile a sacrifici di valuta straniera, a danneggiare le proprie relazioni con la Gran Bretagna e ad irritare gli arabi. In effetti nessuna nazione negli anni ’30 fece di più per favorire in concreto gli scopi ebraico-sionisti della Germania di Hitler.

 

 

Pubblicato su The Journal for Historical Review (http://www.ihr.org/index.html) – Luglio/Agosto 1993 – Volume 13, numero 4 – Pagina 29 – ISSN: 0195-6752

 

Tratto dal sito dell’Institute for Historical Review,

(http://www.ihr.org/jhr/v13/v13n4p29_Weber.html).
Le note del traduttore riportano la sigla NdT; tutte le altre sono dell’Autore.

Le foto sono a cura del traduttore.

Un ringraziamento al camerata M.R. per la segnalazione dell’articolo ed ai camerati L.L.R. e Harm Wulf per l’aiuto nella traduzione.

Today (1986), pp. 175-177; L. Brenner, “Yitzhak Shamir: On Hitler’s Side”, Arab Perspectives (Lega degli Stati Arabi), marzo 1984, pp. 11-13.

 

 

NOTE

 

 

1 - NdT. A nord di Brema, sul Mare del Nord.
2 - NdT. La Tel Aviv fu costruita nel 1907 in Gran Bretagna per una compagnia austriaca e varata col nome di Martha Washington. Stazzava 8.145 tonnellate e poteva portare 2.190 passeggeri. Nel 1922 fu acquistata dall’italiana Linea Cosulich. Nel 1933 passò al Lloyd Triestino che la ribattezzò Tel Aviv. Nel 1935 si incendiò e fu successivamente disarmata a Trieste.
3 – NdT. ֹופָי-ביִבָא לֵּת. Tel Aviv significa “Collina della Primavera”.
4 – W. Martini, “Hebräisch unterm Hakenkreuz”, Die Welt (Amburgo), 10 gennaio 1975. Citato in: Klaus Polken, “The Secret Contacts: Zionism and Nazi Germany, 1933-1941″, Journal of Palestine Studies, Primavera-Estate 1976, pagina 65.
5 - NdT. Anche “adatto, appropriato, vero”.
6 – NdT. Anche “separata, diversa”.
7 - NdT. Theodor Herzl (2 maggio 1860 – 3 luglio 1904) nacque a Budapest come Binyamin Ze’ev Herzl, ma si trasferì a Vienna quand’era ancora bambino. Laureato in legge, si dedicò per tutta la vita al giornalismo ed alla letteratura. Da giovane fece parte dell’associazione Burschenschaft che si batteva per l’unità tedesca. Nei suoi lavori giovanili non v’è traccia né ella “questione ebraica” né della vita ebraica in genere. Fu corrispondente della Neue Freie Presse a Parigi, e quindi a Londra e Istanbul. Divenne quindi redattore letterario del giornale e scrisse commedie e drammi per il teatro viennese. La sua vita mutò all’improvviso nell’aprile del 1896 quando uscì la traduzione inglese del suo Der Judenstaat (Lo Stato ebraico) ed egli divenne il portavoce più importante del sionismo. Uno dei motivi che probabilmente lo condussero alle sue scelte fu l’elezione a borgomastro di Vienna di Karl Lueger (1844-1910) il politico anti-semita che governò la città dal 1897 al 1910. L’idea di fondo dell’azione politica di Herzl era la separazione della comunità ebraica dalle altre ed il suo trasferimento altrove, con la creazione di uno stato ebraico. Herzl viaggiò molto per diffondere il proprio progetto e lui ed i suoi sostenitori ottennero presto vasti successi, finché a Londra gli fu conferito il mandato di leader dei Sionisti. Nel 1897 fondò il quotidiano Die Welt a Vienna, quindi organizzò il primo congresso sionista mondiale a Basilea nel quale venne eletto presidente. Nel 1898 iniziò una serie di incontri diplomatici, durante i quali venne ricevuto varie volte dal Kaiser; presenziò alla conferenza di pace de L’Aia e fu ricevuto da numerosi statisti che vi partecipavano. Nel maggio del 1901 fu ricevuto dal Sultano turco che però si rifiutò di cedere la Palestina ai sionisti. Negli anni 1902-1903 Herzl fu invitato a deporre di fronte alla British Royal Commission on Alien Immigration. In conseguenza di ciò entrò in stretto contatto con vari membri del governo britannico, in particolare con Joseph Chamberlain, allora segretario di stato alle colonie. Attraverso quest’ultimo Herzl negoziò col governo egiziano lo statuto per un insediamento ebraico a Al ‘Arish, nella penisola del Sinai al confine della Palestina del Sud. L’operazione fallì ma Herzl ricevette, da parte del governo britannico, l’offerta di facilitare un vasto insediamento ebraico dotato di governo autonomo sotto sovranità britannica nell’Africa dell’Ovest. Nello stesso periodo Herzl si recò in Russia, a San Pietroburgo, dove venne ricevuto dal ministro delle finanze e da quello degli interni, V. Plehve. L’ultima opera letteraria di Herzl fu Altneuland (Vecchia-Nuova Terra), completamente dedicata al Sionismo. Va ricordato che Herzl concepiva lo stato ebraico in forma del tutto laica, quindi senza alcuna implicazione religiosa e neppure linguistica. Herzl è sepolto sul Monte Herzl, la montagna più alta nei pressi di Gerusalemme.

 

8 – NdT. Letteralmente “dibatteva”.
9 – NdT. Der Judenstaat fu pubblicato nel 1896 a Berlino e Vienna da M. Breitenstein Verlags-Buchhandlung.
10 – NdT. Un’osservazione interessante di Herzl, tratta dal suo diario: si riferisce alle manifestazioni antisemite cui aveva assistito a Parigi in seguito al processo Dreyfuss: “A Parigi, come ho detto, ho raggiunto un atteggiamento più libero riguardo all’antisemitismo, che ora inizio a comprendere storicamente ed a perdonare. Soprattutto, riconosco la vacuità e la futilità di cercare di “combattere” l’antisemitismo”.
11 – Citato in: Ingrid Weckert, Feuerzeichen: Die “Reichskristallnacht” (Tubinga, Grabert, 1981), pagina 212. Vedi anche: Th. Herzl, The Jewish State (New York, Herzl Press, 1970), pagine 33, 35, 36, e Edwin Black, The Transfer Agreement (New York, Macmillan, 1984), pagina 73.
12 – Th. Herzl, “Der Kongress”, Die Welt, 4 giugno 1897. Ristampato in: Theodor Herzls zionistische Schriften (Leon Kellner, a cura di), erster Teil (prima parte), Berlino, Jüdischer Verlag, 1920, pagina 190 (e pagina 139). 13 NdT. La ZVfD, Zionistische Vereinigung für Deutschland.
14 – Memorandum del 21 giugno 1933, in: L. Dawidowicz, A Holocaust Reader (New York, Behrman, 1976), pagine 150-155, e (in parte) in: Francis R. Nicosia, The Third Reich and the Palestine Question (Austin, University of Texas, 1985), pagina 42; Sul Sionismo in Germania prima dell’ascesa al potere di Hitler, vedi: Donald L. Niewyk, The Jews in Weimar Germany (Baton Rouge, 1980), pagine 94-95, 126-131, 140-143; F. Nicosia, Third Reich (Austin, 1985), pagine 1-15.
15 – NdT. Anche “violazione, sconfinamento”.
16 – NdT. La Jüdische Rundschau nacque come Israelitsche Rundschau, il periodico che dal 1896 ful’organo del movimento sionista tedesco. Fu ribattezza Jüdische Rundschau nel 1900 dal suo direttore Heinrich Loewe. Uscì fino all’8 novembre 1938.

 

17 – Rassegna ebraica.
18 – Jüdische Rundschau (Berlino), 13 giugno 1933. Citato in: Heinz Höhne, The Order of the Death’s Head (New York, Ballantine, 1971, 1984), pagine 376-377.
19 – NdT. Joachim Prinz nacque a Burkhardsdorf in Alta Slesia il 10 maggio 1902 e morì nel New Jersey (U.S.A.) il 30 settembre 1988. Fu espulso dal Reich nel 1937.

 

20 – NdT. L’American Jewish Congress è un’organizzazione statunitense nata per proteggere i “diritti civili” degli ebrei. Ebbe il proprio momento d’oro negli anni ’60. Per maggiori informazioni: http://www.ajcongress.org/.
21 – Noi ebrei.
22 – Heinz Höhne, The Order of the Death’s Head (Ballantine, 1971, 1984), pagina 376.

 

23 – NdT. Si veda a tal proposito la lettera inviata dal presidente della Federazione Sionista tedesca, Blumenfeld, il 29 giugno 1933 al Cancelliere del Reich per sottoporgli un documento relativo “agli ebrei in Germania” e per richiedere un incontro per discutere la posizione sionista (Archivio Federale tedesco, Documento R43-II/524).
24 – “Berlin,” Encyclopaedia Judaica (New York and Jerusalem, 1971), Vol. 5, pag. 648. Per uno sguardo ad un aspetto di questa “energica vita”, vedi: J.-C. Horak, “Zionist Film Propaganda in Nazi Germany”, Historical Journal of Film, Radio and Television, Vol. 4, N. 1, 1984, pp. 49-58.

 

25 – Francis R. Nicosia, The Third Reich and the Palestine Question (1985), pp. 54-55.; Karl A. Schleunes, The Twisted Road to Auschwitz (Urbana, Univ. of Illinois, 1970, 1990), pp. 178-181.
26 – NdT. Leopold Eduard Stephan Itz Edler von Mildenstein divenne in seguito capo della Judenreferat del Sicherheitsdienst-Hauptamt.

 

27 – NdT. Kurt Tuchler era membro dell’esecutivo della ZVfD, la Federazione Sionista tedesca.
28 – NdT. Pare accertato che un altro viaggio sia stato compiuto da Adolf Eichmann e dal suo superiore Herbert Hagen nel 1937, di nuovo con l’intento di verificare la possibilità di creare insediamenti ebraici in Palestina.
29 – NdT. Der Angriff (L’Assalto) era il giornale fondato da Joseph Göbbels nel 1927.
30 – NdT. Ein Nazi fährt nach Palästina. Gli articoli apparvero fra il 26 settembre e il 9 ottobre 1934. Von Mildenstein utilizzò lo pseudonimo di Von Lim.

 

31 – NdT. Letteralmente: “la visita congiunta SS-Sionista”.
32 - Jacob Boas, “A Nazi Travels to Palestine”, History Today (Londra), gennaio 1980, pp. 33-38.
33 – NdT. Das Schwarze Korps, giornale ufficiale della SS, usciva il mercoledì e veniva distribuito gratuitamente. Il redattore capo era Gunter d’Alquen, l’editore Max Amann e la casa editrice la Eher-Verlag. Apparve per la prima volta il 6 marzo 1935 con una tiratura di 70.000 copie; nel novembre dello stesso anno aveva raggiunto le 200.000 e nel 1944 le 750.000 copie.
34 – Ristampa del facsimile della prima pagina de Das Schwarze Korps, del 15 maggio 1935 è in: Janusz Piekalkiewicz, Israels Langer Arm (Frankfurt, Goverts, 1975), pp. 66-67. Citato anche in: Heinz Höhne, The Order of the Death’s Head (Ballantine, 1971, 1984), p. 377. Vdi anche: Erich Kern, a cura di, Verheimlichte Dokumente (Munich, FZ-Verlag, 1988), p. 184.
35 – Das Schwarze Korps, 26 settembre 1935. Citato in: F. Nicosia, The Third Reich and the Palestine Question (1985), pp. 56-57.

 

36 – Lenni Brenner, Zionism in the Age of the Dictators (1983), p. 83.
37 – NdT. Letteralmente: “identificarsi come”.
38 – F. Nicosia, The Third Reich and the Palestine Question (1985), p. 60. Vedi anche: F. Nicosia, “The Yishuv and the Holocaust”, The Journal of Modern History (Chicago), Vol. 64, N. 3, settembre 1992, pp. 533-540.
39 – F. Nicosia, The Third Reich and the Palestine Question (1985), p. 57.
40 – NdT. La prima, Legge per la Protezione del Sangue e dell’Onore tedeschi, è del 15 settembre 1935 e consta di 7 articoli; la seconda, Legge sulla Cittadinanza del Reich, anch’essa del 15 settembre, è di soli 3 articoli.
41 – Jüdische Rundschau, 17 settembre 1935. Citato in: Yitzhak Arad, con Y. Gutman e A. Margaliot, a cura di, Documents on the Holocaust (Jerusalem, Yad Vashem, 1981), pp. 82-83.
42 – NdT. Per maggiori informazioni su Georg Kareski vedi: Lenni Brenner, Zionism in the Age of the Dictators, 12. Georg Kareski, Hitler’s Zionist Quisling before Quisling (http://www.codoh.com/zionweb/zizad/zizad12.html).
43 – Der Angriff, 23 dicembre 1935, in: E. Kern, a cura di, Verheimlichte Dokumente (Monaco, 1988), p. 148.; F. Nicosia, Third Reich (1985), p. 56.; L. Brenner, Zionism in the Age of the Dictators (1983), p. 138.; A. ù Margaliot, “The Reaction…,” Yad Vashem Studies (Gerusalemme), vol. 12, 1977, pp. 90-91. Sulla straordinaria carriera di Kareski, vedi: H. Levine, “A Jewish Collaborator in Nazi Germany”, Central European History (Atlanta), settembre 1975, pp. 251-281.
44 – Ebrei e Tedeschi.

 

45 - NdT. Letteralmente: “riecheggiarono, ripeterono”.
46 – NdT. Stephen S. Wise nacque a Budapest nel 1874. Emigrò negli U.S.A. da bambino. Fu ordinato rabbino presso il Jewish Theological Seminary e si avvicinò al sionismo. Partecipò al secondo Congresso Sionista del 1898 e venne eletto memebro del General Actions Committee. Nel 1914 divenne il braccio destro di Louis Brandeis, capo del movimento sionista americano. Due anni dopo fu eletto presidente del Provisional Executive Committee for General Zionist Affairs e la sua azione fu fondamentale nell’influenzare il presidente Woodrow Wilson a favore della Dichiarazione Balfour. Nel 1925 divenne presidente dell’United Eretz-Israel Appeal. Con l’ascesa al potere del Nazionalsocialismo in Germania, Wise, insieme a Leo Motzkin, incoraggiò la costituzione del World Jewish Congress allo scopo di creare una forza rappresentativa per combatterlo, e usò la propria influenza sul presidente Roosevelt, suo intimo amico, per raggiungere lo scopo. Durante gli anni della guerra fu eletto Co-Presidente dell’American Zionist Emergency Council. In seguito fu nominato rappresentante speciale presso la Jewish Agency alla Conferenza delle Nazioni Unite tenuta a San Francisco nel 1945. Morì a New York nel 1949.
47 – NdT. Oganizzazione di difesa ebraica filo-sionista creata nel 1936.
48 – “Dr. Wise Urges Jews to Declare Selves as Such,” New York Herald Tribune, 13 giugno 1938, p. 12. [NdT. “Il dottor Wise esorta gli ebrei a proclamarsi tali”].
49 – NdT. Ministero degli Interni.
50 NdT. Bernhard Lösener nacque nel 1890. Era figlio di un giudice. Partecipò alla I Guerra Mondiale e compì gli studi presso l’Università di Tubinga. Nel 1924 si impiegò presso le dogane. Membro del Partito dal 1930. Nell’aprile 1933 entrò al Ministero degli Interni diretto da Wilhelm Frick. Il suo ruolo era quello di esperto di problemi razziali (Rassereferent) e in questa veste rimase al Ministero sino al 1943 quando a Frick subentrò Heinrich Himmler. Lösener collaborò alla stesura delle Leggi di Norimberga, redasse
ventisette decreti anti-ebraici, e si occupò della definizione legale dei Mischlinge (Mezzi ebrei) e della relativa distinzione fra questi e gli “ebrei puri”. Nel 1943 venne nominato giudice. Purtroppo, nel 1944 nascose una coppia accusata d’essere implicata nel complotto per uccidere il Führer. Scoperto, venne espulso dal Partito e imprigionato. Dopo la guerra venne arrestato due volte,prima dai Russi e poi dagli Americani. Dopo il periodo di denazificazione cui fu sottoposto rientrò nell’amministrazione pubblica. Morì nel 1952.
51 – NdT. La Reichsverwaltungsblatt era la rivista ufficiale dell’amministrazione del Reich che pubblicava leggi, decreti, decisioni amministrative relative alla gestione dello Stato.
52 – F. Nicosia, The Third Reich (1985), p. 53.

 

53 – NdT. Erano gli Umschulungslager (Campi di trasferimento). Inutile dire che si è tentato di farli passare per “campi di sterminio”.
54 – Lucy Dawidowicz, The War Against the Jews, 1933-1945 (New York, Bantam, 1976), pp. 253-254; Max Nussbaum, “Zionism Under Hitler,” Congress Weekly (New York, American Jewish Congress), 11 settembre 1942; F. Nicosia, The Third Reich (1985), pp. 58-60, 217; Edwin Black, The Transfer Agreement (1984), p. 175. 55 L’Haganah (in ebraico “La Difesa”, הנגהה) , primo nucleo delle forze armate dello Stato d’Israele (ל”הצ), era un’organizzazione militare ebraica in Palestina durante il mandato britannico dal 1920 al 1948. Nacque dopo i moti arabi del 1920 e 1921 sulle ceneri di un’organizzazione precedente, l’Hashomer, fondata nel 1909, allo scopo di proteggere gli insediamenti. La trasformazione in senso militare vero e proprio di questa organizzazione avvenne dopo i moti arabi del 1929 quando l’Haganah si trasformò in una vera e propria forza paramilitare comprendente la quasi totalità dei giovani e degli adulti dei kibbutz come pure migliaia di abitanti delle città. Essa acquistò anche armamento straniero e cominciò a sviluppare officine per creare bombe a mano ed equipaggiamenti militari di base e finì col trasformarsi da milizia non addestrata in esercito efficiente. Nel 1936 l’Haganah poteva contare su 10.000 uomini pronti alla mobilitazione, oltre a 40.000 riservisti. Durante la Grande Insurrezione del 1936-1939, essa partecipò attivamente nell’opera di protezione degli interessi britannici e nel contrastare gli insorti arabi. Sebbene l’amministrazione britannica non riconoscesse ufficialmente l’Haganah, le forze di sicurezza britanniche cooperarono con essa nel formare una forza ausiliaria ebraica, la Polizia degli Insediamenti Ebraici (Jewish Settlement Police) e speciali squadroni notturni (Special Night Squads). L’esperienza guadagnata sul campo nel piegare la Grande Insurrezione fu di grandissima utilità nella guerra arabo-israeliana del 1948. Membri dell’Haganah furono, fra gli altri, Yitzhak Rabin, Ariel Sharon, Rehavam Zeevi, Dov Hoz, Moshe Dayan e Ruth Westheimer.

 

56 – NdT. Il Sicherheitsdienst (SD, Servizio di Sicurezza) era il servizio segreto della SS, creato nel 1932 da Reinhard Heydrich. Nel 1938 divenne il servizio segreto di Stato, così come del Partito, appoggiando la Gestapo e lavorando con l’Amministrazione Generale e degli Interni.
57 – NdT. Feivel Polkes compì un viaggio a Berlino il 26 febbraio 1937 per incontrarsi con Adolf Eichmann e negoziare, attraverso lui, col Sicherheitsdienst. Per maggiori informazioni su Polkes vedi: Lenni Brenner, Zionism in the Age of the Dictators, 8. Palestine – The Arabs, Zionists, British and Nazis (http://www.marxists.de/middleast/brenner/ch08.htm#top).

 

58 – NdT. Letteralmente: “collocare”.
59 – H. Höhne, The Order of the Death’s Head (Ballantine, 1984), pp. 380-382; K. Schleunes, Twisted Road (1970, 1990), p. 226; Il rapporto su Folkes del 17 giugno 1937 del servizio segreto interno della SS, in: John Mendelsohn, a cura di, The Holocaust (New York, Garland, 1982), vol. 5, pp. 62-64.
60 – F. Nicosia, Third Reich (1985), pp. 63-64, 105, 219-220.
61 – F. Nicosia, Third Reich (1985), p. 160.

 

62 – Questa distinzione è implicita anche nella “Dichiarazione Balfour” del novembre del 1917, in cui il governo britannico manifestò il proprio appoggio a “un focolare nazionale per il popolo ebraico” in Palestina, evitando accuratamente qualsiasi cenno ad uno Stato ebraico. Riferendosi alla maggioranza araba della popolazione, la Dichiarazione proseguiva avvertendo che “…è evidentemente sottinteso che non verrà fatto niente che possa recare pregiudizio ai diritti civili e religiosi delle comunità non-ebraiche esistenti in Palestina”. Il testo completo della Dichiarazione è riprodotto in: Robert John, Behind the Balfour Declaration (IHR, 1988), p. 32.

 

63 – F. Nicosia, Third Reich (1985), p. 121.
64 – F. Nicosia, Third Reich (1985), p. 124.
65 – NdT. Ministero degli Esteri britannico.
66 – David Yisraeli, The Palestine Problem in German Politics 1889-1945 (Bar-Ilan University, Israel, 1974), p. 300; Anche in: Documents on German Foreign Policy, Serie D, Vol. 5. Doc. N. 564 o 567.

 

67 – K. Schleunes, The Twisted Road (1970, 1990), p. 209.
68 – NdT. Joachim von Ribbentrop (30 aprile 1893 – 16 ottobre 1946) fu Ministro degli Esteri del Reich dal 1938 al 1945. Successe il 4 febbraio 1938 a Konstantin von Neurath. Ribbentrop fu il primo statista Nazionalsocialista ad essere impiccato la notte del 16 ottobre 1946. Le sue ultime parole furono “Gott schütze Deutschland!” (Dio protegga la Germania).

 

69 – Circolare del 25 gennaio 25, 1939. Documento Processo di Norimberga 3358-PS. Tribunale Militare Internazionale, Processo ai maggiori criminali di Guerra davanti al Tribunale Militare Internazionale (Norimberga: 1947-1949), vol. 32, pp. 242-243. Cospirazione ed Aggressione Nazi(onalsociali)sta (Washington, DC: 1946-1948), vol. 6, pp. 92-93.

 

70 – F. Nicosia, Third Reich (1985), pp. 141-144; Sull’opinione critica di Hither a proposito del sionismo contenuta nel Mein Kampf, vedi in particolare: Vol. 1, Cap. 11. Citato in: Robert Wistrich, Hitler’s Apocalypse (London, 1985), p. 155; Vedi anche: F. Nicosia, Third Reich (1985), pp. 26-28; Hitler dichiarò al proprio consigliere militare nel 1939 e di nuovo nel 1941 d’aver chiesto agli Inglesi nel 1937 di trasferire tutti gli ebrei tedeschi in Palestina o in Egitto. Gli Inglesi avevano respinto la proposta, disse, poiché ciò avrebbe provocato ulteriori disordini. Vedi: H. v. Kotze, a cura di, Heeresadjutant bei Hitler (Stuttgart, 1974), pp. 65, 95.

 

71 – NdT. Il Mossad Le’aliyah Bet (da non confondere col Mossad Le Modi in Ve Tafkidim Meyuhadim, più noto come Mossad, il servizio segreto israeliano) nacque nel 1937 a Parigi creato da ebrei palestinesi. Significa “Istituto per la Seconda Immigrazione”.
72 – NdT. Letteralmente: “lo sforzo”.

 

73 – F. Nicosia, Third Reich (1985), pp. 156, 160-164, 166-167; H. Höhne, The Order of the Death’s Head (Ballantine, 1984), pp. 392-394; Jon and David Kimche, The Secret Roads (London, Secker and Warburg, 1955), pp. 39-43. Vedi anche: David Yisraeli, “The Third Reich and Palestine,” Middle Eastern Studies, ottobre 1971, p. 347; Bernard Wasserstein, Britain and the Jews of Europe, 1939-1945 (1979), pp. 43, 49, 52, 60; T. Kelly, “Man who fooled Nazis,” Washington Times, 28 aprile 1987, pp. 1B, 4B. Basato su una intervista a Willy Perl, autore de The Holocaust Conspiracy.

 

74 - Y. Arad, et alii, a cura di, Documents On the Holocaust (1981), p. 155. (Il kibbutz d’addestramento era a Neuendorf, e può esser rimasto in funzione perfrino dopo il marzo 1942).
75 – NdT. Il piano si trasferimento si chiamava Haavara-Abkommen. Haavara è la parola ebraica, da leggersi con l’accento sull’ultima sillaba, che significa appunto trasferimento.

 

76 – NdT. Chaim Arlosoroff (1899-1933), (anche Arlozorov o Arlozoroff), nacque in Russia, ma la famiglia si stabilì in Germania nel 1905. Studiò all’Università di Berlino, laureandosi in economia. Nel 1918 fu tra i fondatori del partito Ha-Po’el ha-Tza’ir che attrasse molti intellettuali ebrei. Autore di vari articoli sul sionismo e sulla collaborazione fra ebrei ed arabi, nel 1924 si trasferì in Palestina, allora sotto mandato britannico. Nel 1926 fu nominato rappresentante dei yishuv -i coloni ebrei insediati in Palestina- presso la Lega delle Nazioni a Ginevra. Divenne in seguito un leader del Mapai, il più importante partito politico ebraico del tempo, ed intimo amico di Chaim Weizmann; fu quindi nominato capo del dipartimento politico dell’Agenzia ebraica. Fu ucciso nel 1933 a Tel Aviv. Ad oggi i responsabili non sono stati individuati.

 

77 – NdT. La World Zionist Organization (WZO) fu fondata, col nome di Zionist Organization (ZO), il 3 settembre del 1897 al Primo Congresso Sionista tenuto a Basilea, in Svizzera. La ZO, nelle intenzioni di T. Herzl, doveva essere il contenitore del futuro stato d’Israele. E così fu: quando, il 14 maggio 1948, nacque Israele, gran parte delle istituzioni del nuovo stato erano già attive e funzionanti, sviluppatesi negli anni per mezzo della ZO. L’organizzazione cambiò la propria denominazione in WZO nel gennaio del 1960. La sede centrale dell’organismo è oggi a Gerusalemme.

 

78 – Sull’Accordo in generale, vedi: Werner Feilchenfeld, et alii, Haavara-Transfer nach Palaestina (Tubinga, Mohr/Siebeck, 1972); David Yisraeli, “The Third Reich and the Transfer Agreement,” Journal of Contemporary History (Londra), N. 2, 1971, pp. 129-148.; “Haavara”, Encyclopaedia Judaica (1971), vol. 7, pp. 1012-1013; F. Nicosia, The Third Reich and the Palestine Question (Austin, 1985), pp. 44-49; Raul Hilberg, The Destruction of the European Jews (New York, Holmes and Meier, 1985), pp. 140-141; The Transfer Agreement, di Edwin Black, è dettagliato ed utile. Tuttavia esso contiene numerose inesattezze e conclusioni palesemente errate. Vedi, per esempio, la recensione di Richard S. Levy in Commentary, settembre 1984, pp. 68-71.

 

79 – NdT. Si trattò di un vero e proprio accordo commerciale che, fra l’altro, contribuì a rompere il boicottaggio mondiale anti-fascista organizzato contro la Germania. Le compagnie erano due: la Haavara, ebraica a Tel Aviv, e la Paltreu, tedesca, a Berlino. Il deposito minimo era di 1.000 sterline inglesi presso la Banca Wasserman di Berlino oppure presso la Banca Warburg di Amburgo. A questa iniziativa politico-commerciale parteciparono personaggi divenuti in seguito molto noti: Ben Gurion, Moshe Sharret (noto anche come Moshe Shertok), Golda Meir (che collaborava da New York), e Levi Eshkol, il rappresentante della Haavara a Berlino. [Confronta: "Ben Gourion et Shertok, dans Black": L'accord de la "havaara", p.294. Citato da Tom Segev in "Le septieme million", (Ed. Liana Levi, 1993, p. 30 and 595)].

 

80 – NdT. Sam Cohen era fra l’altro co-proprietario della società “Hanoaiah Ltd.” che curava rapporti commerciali con la Germania.
81 – NdT. Arthur Ruppin (1876 – 1943), nato nel distretto di Rawitsch Posen, in Prussia, frequentò l’Università di Berlino e si laureò in quella di Halle. Economista e sociologo, viene considerato il “padre degli insediamenti sionisti” e il padre della sociologia ebraica.

 

82 – E. Black, The Transfer Agreement (1984), pp. 328, 337.

 

83 – Sull’opposizione all’Haavara nei circoli ufficiali tedeschi, vedi: W. Feilchenfeld, et alii, Haavara-Transfer nach Palaestina (1972), pp. 31-33; D. Yisraeli, “The Third Reich”, Journal of Contemporary History, 1971, pp. 136- 139.; F. Nicosia, The Third Reich and the Palestine Question, pp. 126-139; I. Weckert, Feuerzeichen (1981), pp. 226-227.; Rolf Vogel, Ein Stempel hat gefehlt (Monaco,Droemer Knaur, 1977), pp. 110.

 

84 – W. Feilchenfeld, et alii, Haavara-Transfer (1972), p. 31. Il testo complete è in: David Yisraeli, The Palestine Problem in German Politics 1889-1945 (Israele, 1974), pp. 298-300.
85 – Dalla Germania!
86 – Memorandum interno del Ministro degli Interni (firmato dal Segretario di stato W. Stuckart), 17 dicembre 1937, in: Helmut Eschwege, a cura di, Kennzeichen J (Berlino, 1966), pp. 132-136.

 

87 – W. Feilchenfeld, et alii, Haavara-Transfer (1972), p. 32.
88 – NdT. Il Ministro, dal 1937, era Walther Emanuel Funk (1890 – 1960).
89 – E. Black, Transfer Agreement, pp. 376-377.
90 – Ebraico per “scambio”.
91 – E. Black, Transfer Agreement (1984), pp. 376, 378; F. Nicosia, Third Reich (1985), pp. 238-239 (n. 91).

 

92 – Letteralmente: “realizzazioni”.
93 – E. Black, Transfer Agreement, p. 379; F. Nicosia, Third Reich, pp. 212, 255 (n. 66).
94 – W. Feilchenfeld, et alii, Haavara-Transfer, p. 75; “Haavara”, Encyclopaedia Judaica, (1971), Vol. 7, p. 1013.
95 – E. Black, Transfer Agreement, pp. 379, 373, 382.
96 – Per mezzo dell’Accordo Haavara.
97 – Circolare del 25 gennaio 1939. Documento del Processo di Norimberga 3358-PS. Tribunale Militare Internazionale, Processo ai maggiori criminali di Guerra davanti al Tribunale Militare Internazionale (Norimberga: 1947-1949), Vol. 32, pp. 242-243.
98 – Werner Feilchenfeld, et alii, Haavara-Transfer nach Palaestina (Tubinga, Mohr/Siebeck, 1972). Citato in: Ingrid Weckert, Feuerzeichen (Tubianga, Grabert, 1981), pp. 222-223.
99 – NdT. Vedi anche: http://www.thule-italia.com/ns/manipolazioni.html.
100 – W. Feilchenfeld, et alii, Haavara-Transfer nach Palaestina (1972). Citato in: I. Weckert, Feuerzeichen (1981), p. 224.

 

101 – Lehi è l’acronimo dell’ebraico Lohamei Herut Israel che significa, appunto, “Combattenti per la Libertà d’Israele”). Le autorità britanniche chiamavano il gruppo Stern Gang, dal nome del suo primo comandante, Avraham Stern. Il gruppo nacque nel 1940. Fra le sue azioni più note vi sono l’assassinio di Lord Moyne, rappresentante del governo britannico, il 6 novembre 1944; la strage di coloni arabi di Deir Yassin del 9 aprile 1948; l’uccisione del Conte Folke Bernadotte, un mediatore delle Nazioni Unite, il 17 settembre 1948. Il gruppo si dissolse il 31 maggio del 1948 quando venne integrato nelle Forze di Difesa israeliane (il futuro esercito d’Israele) ed i suoi leader ottennero l’amnistia. Uno dei membri più noti del Lehi fu Yitzhak Shamir (il futuro Primo Ministro d’Israele).

 

102Avraham Stern, detto Yair (1907 – 1942) era nato in Polonia a Suwalki. Immigrato in Israele nel 1925, frequentò l’università ebraica e si specializzò in lingue e letterature classiche. Stern fu ucciso il 12 febbraio 1942 da ufficiali del servizio segreto britannico, ufficialmente mentre “tentava di scappare”, dopo l’arresto avvenuto in un appartamento di Tel Aviv.

 

103 – L’Irgun (ןוגרא), abbreviazione di Irgun Tsvai Leumi (ימואל יאבצ ןוגרא), o Irgun Zvai Leumi), era un gruppo sionista militante che operò in Palestina dal 1931 al 1948. Fondato da Avraham Tehomi si distingueva dall’Haganah per il suo rifiuto dell’ideologia socialista. In effetti lo si considera il predecessore dell’attuale coalizione di destra Likud. Anche questo gruppo si sciolse nel 1948 ed i suoi membri confluirono nelle Forze di Difesa Israeliane, come accadde per il Lehi di Stern (vedi nota 101).

 

104 – L’Irgun, dal 1940 al 1943, dichiarò una tregua nei confronti degli Inglesi e sostenne gli Alleati contro le forze tedesche e quelle dell’Asse nell’area arruolando i propri membri nell’esercito britannico e nella Jewish Brigade.

 

105 – Lehi.
106 – Il documento originale si trova presso l’Auswärtiges Amt Archiv tedesco, Bestand 47-59, E 224152 e E 234155-58. (L’Autore è in possesso di una fotocopia); Il testo completo in tedesco è stato pubblicato in: David Yisraeli, The Palestine Problem in German Politics 1889-1945 (Israel, 1974), pp. 315-317. Vedi anche: Klaus Polkhen, “The Secret Contacts”, Journal of Palestine Studies, Primavera-Estate 1976, pp. 78-80; (Quando venne fatta questa offerta il gruppo Lehi di Stern si considerava come il vero Irgun/NMO).

 

107 - NdT. Vedi nota precedente.
108 – NdT. “Osserva che” non è la traduzione letterale.
109 - Hebrërtum.
110 – NdT. Letteralmente: “documento”.
111 – I nazionalisti arabi si opponevano alla Gran Bretagna, che allora dominava gran parte del mondo arabo, compresi l’Egitto, l’Iraq e la Palestina. Poiché la Gran Bretagna e la Germania erano in guerra, la Germania coltivava il sostegno arabo. Il leader degli arabi palestinesi, il Gran Mufti di Gerusalemme, Haj Amin el-Husseini, lavorò congiuntamente alla Germania nel periodo bellico. Dopo esser fuggito dalla Palestina, si rivolse al mondo arabo dalla radio tedesca e collaborò al reclutamento di musulmani in Bosnia per le unità della Waffen-SS.
112 – Israel Shahak, “Yitzhak Shamir, Then and Now,” Middle East Policy (Washington, DC), Vol. 1, N. 1, (L’intero N. 39), 1992, pp. 27-38; Yehoshafat Harkabi, Israel’s Fateful Hour (New York, Harper and Row, 1988), pp. 213- 214. Citato in: Andrew J. Hurley, Israel and the New World Order (Santa Barbara, California, 1991), pp. 93, 208-209; Avishai Margalit, “The Violent Life of Yitzhak Shamir”, New York Review of Books, 14 maggio 1992, pp. 18-24; Lenni Brenner, Zionism in the Age of the Dictators (1983), pp. 266-269; L. Brenner, Jews in America

 

113 - Avishai Margalit, “The Violent Life of Yitzhak Shamir”, New York Review of Books, 14 maggio 1992, pp. 18- 24; Lenni Brenner, Zionism in the Age of the Dictators (1983), pp. 266-269; L. Brenner, Jews in America Today (1986), pp. 175-177; L. Brenner, “Skeletons in Shamir’s Cupboard”, Middle East International,30 settembre 1983, pp. 15-16; Sol Stern, L. Rapoport, “Israel’s Man of the Shadows”, Village Voice (New York), 3 luglio, 1984, pp. 13 e seguenti.

 

 

Fonte: visto su: http://www.thule-italia.net/Storia/Zionism%20and%20the%20Third%20Reich.pdf

 

 

“SPERO CHE POSSANO ESSERE MACELLATI UN MILIONE DI EBREI POLACCHI. COSI’ SI RENDERANNO CONTO DI VIVERE IN UN GHETTO”. PAROLA DI SIONISTA.

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Ahimier

Abba Achimeir

 

 

[fonte: RADIO SPADA]

 

“Spero che possano essere macellati un milione di ebrei polacchi. Così si renderanno conto di vivere in un ghetto”.

["I wish that a million Polish Jews might be slaughtered. Then they might realize that they are living in a ghetto"]

A chi è stata attribuita questa frase? Chi potrebbe esserne l’autore?

 

Hitler? Himmler? Rosenberg? Eichmann?

 

Questa citazione sarebbe da ricondurre ad una delle icone splendenti nel pantheon dello stato israeliano: Abba Achimeir. Quando finì a processo per il caso dell’omicidio Arlosoroff, sotto controinterrogatorio dall’accusato, il testimone ammise che le frasi potevano essere citazioni.*

 

Nel 1922 il Ministro ebreo tedesco Rathenau fu assassinato da esponenti dell’estrema destra tedesca. Di fronte ad una assemblea di studenti ebrei, Achimeir  dichiarò:

 

Voi siete delle pappette e non degli studenti, non c’è fra di voi nessuno capace di assassinare come hanno fatto quegli studenti tedeschi che hanno ucciso Ratenau […] nascono dei sicari poiché hanno la coscienza di essere dei volontari e il fatto dell’assassinio sarà considerato come un episodio di eroismo ed un impresa positiva”.

 

Nel 1928 Achimeir  già teneva su un giornale ebraico una rubrica chiamata “Diario di un fascista”.

 

Alla presa del potere di Hitler non mancò di elogiare molti aspetti del nazionalsocialismo.

 

L’organo degli estremisti palestinesi [Achimeir e suoi sodali] aveva  espresso il parere che, ad eccezione dell’antisemitismo di Hitler, il nazionalsocialismo tedesco sarebbe stato accettabile e che, comunque, Hitler aveva salvato la Germania. Ancor prima, nel 1932, avevano accolto con favore il grande movimento nazionale che aveva salvato l’Europa dai parlamenti impotenti e, soprattutto, dalla dittatura della polizia segreta sovietica e dalla guerra civile.

 

Pare fosse abbastanza abituato ai saluti romani. In occasione della conferenza revisionista di Vienna nell’estate del 1932, sempre Achimeir:

 

riassumendo la convention non fece alcun tentativo di nascondere l’ammirazione della sua fazione per il fascismo italiano, quando l’avvocato Leone Carpi di Milano, che salutò la convenzione con una mano alzata in stile fascista, entrò nella sala [ricorda], “noi balzammo in piedi dalle sedie e alzammo le nostre braccia in suo onore.

 

Fu capo del Brit HaBirionim, l’ala massimalista del revisionismo sionista in Palestina.

 

Lo stato israeliano ha deciso di dedicargli un francobollo.

 

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*L. Brenner nel suo “Zionism in the age of dictators” riferisce: “When the British discovered Abba Achimeir’s diary after the Arlosoroff murder, they found that view expressed more forcefully: ‘I wish that a million Polish Jews might be slaughtered. Then they might realize that they are living in a ghetto’”.

 

Informazioni tratte dal libro: L’Asse Roma-Berlino-Tel Aviv

 

- See more at: http://www.losai.eu/spero-che-possanomacellati-un-milione-di-ebrei-polacchi-parola-di-sionista/#sthash.gELqX9co.dpuf

 

 

Fonte: visto su LOSAI.EU del 24 settembre 2012

Link: http://www.losai.eu/spero-che-possanomacellati-un-milione-di-ebrei-polacchi-parola-di-sionista/

 

VANDEA, IL GENOCIDIO DIMENTICATO (SECHER)

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Maurizio BLONDET

 

Tratto da: Avvenire, 1.7.1992

 

Parla lo storico Reynald Sécher, perseguitato per aver rivelato i massacri della Rivoluzione francese. Le prove di brutalità raccapriccianti, le stesse dei lager nazisti. Lo sterminio di chi preferiva i preti agli insorti: 117 mila morti (su 800 mila), 10 mila casolari distrutti (su 50 mila). «Diffamato dopo gli studi, mi hanno vietato, l’università, ho perso il lavoro e non riuscivo più a trovarne uno».

 

Un giovane storico scopre un genocidio sconosciuto. Per questo, viene perseguitato dal potere. Diffamato, ridotto alla disoccupazione, impedito di diventare docente universitario. Non è accaduto nella Germania di Hitler, né nella Russia di Stalin: è accaduto nella Francia di Mitterrand nell’anno 1985.

L’incredibile storia la racconta lui stesso, il giovane storico: Reynald Sécher, oggi 37 anni, due lauree (una in storia e una in amministrazione d’impresa) e un ‘dottorato di ricerca’ post-laurea superato col massimo dei voti.

 

I DOCUMENTI DISPERSI

 

Secher è in Italia per un giro di conferenze, per presentare il suo libro -Il genocidio vandeano (1793-94), pubblicato in italiano dalla Effedieffe di Milano- che è anche la sua tesi di dottorato, e la rivelazione del genocidio.

 

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Reynald Sécher

 

E’ un genocidio vecchio: quello che Robespierre perpetrò contro i contadini della Vandea che erano insorti in difesa della fede e dei sacerdoti. “Si sapeva che qualche atrocità era stata ammessa, ma la si metteva sul conto della «guerra civile»”, spiega Secher. “Io ho cercato i documenti del massacro in Vandea. Non è stato facile. I documenti erano dispersi, come da un uragano. Ciò che ho trovato è spaventoso.

In 18 mesi, fino alla caduta di Robespierre il 27 luglio 1794, i soldati della Rivoluzione uccisero 117 mila persone, su una popolazione totale di 800 mila. 10 mila i casolari distrutti su 50 mila.

“La stampa di sinistra ha contestato a Secher l’uso della parola ‘genocidio’, che per essa va applicato solo ai crimini del ventesimo secolo, non a quelli del 18″, ha scritto Jean-Francois Revel su Le Point.

“Ma di genocidio si trattò, in Vandea. Lo scopo proclamato era di sterminare la popolazione; non solo i combattenti, ma anche le donne e i bambini. Si distrussero sistematicamente i mezzi di vita della popolazione, case, campi, bestiame, boschi. E non per anarchia, ma per un disegno. Anche quando i ribelli erano ormai ridotti all’impotenza”.

 

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I documenti e le testimonianze recuperate da Secher richiamano paurosamente, fin nei particolari, l’olocausto degli ebrei sotto il Nazismo.

Da Parigi, la Convenzione moltiplica ai suoi comandanti in Vandea l’esortazione allo “sterminio” allo “spopolamento”, come Himmler ordinava la «soluzione finale».

Ad Angers, il tribunale raccoglie le prove, il 6 novembre 1794, che decine di vandeani uccisi sono stati “scorticati dalla cintola in giù”, e la loro pelle, conciata, usata per farne pantaloni per i soldati: allo stesso modo, ad Auschwitz, si fecero paralumi con la pelle degli ebrei.

A Clisson, nell’aprile, 150 cadaveri di donne furono bolliti per estrarne “10 barili di a grasso, inviati a Nantes”.

A Chaux, un testimone depone di aver visto “fucilare da 400 a 500 bambini, di cui i maggiori avevano forse 14 anni”.

 

TESTE DI MORTO

 

Non c’erano i lager, ma le ‘anticamere della morte’, dove i detenuti, in un affollamento inverosimile, erano lasciati morire di fame, stenti e soffocati con suffumigi di catrame. I volontari addetti allo sterminio chiamavano se stessi «Teste di Morto»: lo stesso nome assunto dalle SS della sinistra Divisione «Toten kopf» («Testa di Morto» in tedesco).

 

“Ci fu perfino la volontà di creare camere a gas, ma i mezzi tecnici mancarono”, spiega Secher. “Un farmacista rivoluzionario di nome Proust fece un esperimento con gas velenosi, ma non funzionò. Come metodo di sterminio, perciò, si ricorse ai barconi, fatti affondare nella Loira col loro carico di donne e uomini denudati. Un secolo e mezzo dopo, i nazisti avrebbero trovato mezzi più efficaci”. Delle spaventose scoperte di Secher ha già parlato su Avvenire, il 6 febbraio scorso, Vittorio Messori. Ciò che non si sa in Italia, sono i guai che il libro ha provocato al giovane storico.

 

“L’inizio della mia ricerca nasce da una curiosità familiare”, racconta lui:

“Volevo sapere perché la casa di mia nonna, a Chapelle Basse-Mer che è un paesino della Vandea, era stata ricostruita dopo la Rivoluzione. Pubblicai le prime indagini sul paese. Pierre Chaunu [il famoso storico della Sorbona, ndr] mi incoraggiò ad estendere la ricerca alla repressione dell’intera Vandea: decidemmo che quello sarebbe stato il tema della mia Thèse d’Etat“.

E’ la tesi post-laurea. Secher si mise al lavoro nell’83, contando sulle sovvenzioni che il Ministero dell’Educazione mette a disposizione per simili ricerche storiche. “Stranamente, non sono riuscito ad ottenere un soldo. Ho speso di tasca mia 500 mila franchi, indebitandomi”.

Anni di ricerche in archivio a Roma, in Usa, persino in Russia: i documenti della tragedia vandeana erano sparsi dovunque, tranne che in Vandea. “Una settimana prima di discutere la tesi, ignoti ladri penetrarono in casa mia e mi rubarono tutte le copie del mio lavoro”, racconta Secher. “Per fortuna avevo già depositato gli originali.

Due giorni prima dell’esame di Stato, mi si presenta un signore che si spaccia come funzionario del Ministero dell’educazione, e mi dice che non potevo discutere una simile tesi: avrei infangato l’onore della Francia. In cambio del silenzio, mi offrì denaro e un posto sicuro all’Università. Io rifiutai. ‘Avrà molte noie’, mi disse lasciandomi”.

 

Nel luglio dell’85, Reynald Secher, che ha allora 29 anni, discute alla Sorbona la sua tesi ‘di Stato’ davanti a una commissione eccezionalmente portata a sette membri, invece dei cinque usuali. Domande minuziose, un interrogatorio ostile. Ma presiede la commissione il professor Channu, di cui Secher è allievo; e un altro suo docente, Francois Meyer dell’Università di Rennes, difende il lavoro dello studente dicendo: “Sono corresponsabile di questa ricerca”. La Commissione deve accordargli il massimo dei voti e la menzione d’onore. Il libro verrà pubblicato dalla Presse Universitaire venderà 30 mila copie quasi un best-seller.

 

“Ma appena uscito il libro, sono stato vittima di una campagna diffamatoria da parte della stampa di sinistra”, racconta Sécher.

 

UN LINCIAGGIO MORALE

 

“Sono stato dipinto come un reazionario, un fascista che gettava fango sulla gloriosa Rivoluzione. Max Gallo ha scritto contro di me un libello definendomi un muscardin [dal nome dei picchiatori reazionari che scatenarono la violenza «nera» alla fine della Rivoluzione Francese]“.

Invano Pierre Channu ha scritto articoli in difesa del suo allievo, s’è perfino mostrato in tv, nella trasmissione Apostrophes, per denunciare il linciaggio morale.

“Ho ricevuto minacce di morte al telefono, mi hanno licenziato dal liceo dove insegnavo, mi hanno cacciato dall’Università. Sono rimasto disoccupato per un anno e mezzo: i potenziali datori di lavoro venivano ‘dissuasi’ dall’assumermi”. La sua carriera universitaria è stata troncata.

“Proprio quest’anno mi han detto chiaro e tondo che non potrò mai aspirare a una cattedra”, dice: “In Francia non si diventa docenti per concorso. Si deve essere cooptati dal corpo dei professori”. E per lui non c’è posto in una corporazione dominata dalla sinistra e dai ‘laicisti’.

 

Un lavoro, Secher ha dovuto inventarselo. Fa l’editore, e stampa libri che raccontano l’altra verità sulla Rivoluzione. “Da poco ho ristampato un ‘libro bianco’ che Gracchus Babeuf scrisse proprio per denunciare il genocidio in Vandea”, dice. Gracchus Babeuf, nato nel 1760, fu ghigliottinato nel 1797, come capo o della Congiura degli Eguali: è uno dei grandi della Rivoluzione, considerato il “padre del comunismo”.

 

OTTO COPIE DI BABEUF

 

“Nel 1794 scrisse il suo libro, La guerra di Vandea e il sistema di spopolamento, per denunciare la politica di sterminio voluta da Robespierre”. In Francia, le tirature del libro erano state totalmente e deliberatamente distrutte. “Per quanto ne so, ne restano al mondo 8 copie”, conclude lo storico. “Quella che ho trovato io era conservata in Urss, dove il «comunista» Babeuf godeva di un culto storico”.

 

 

Fonte: srs di Maurizio BLONDET, da Avvenire del 1 luglio 1992; visto su Storia Libera.it

Link: http://www.storialibera.it/epoca_contemporanea/rivoluzione_francese/vandea/articolo.php?id=399

 

 

LA GUERRA DI VANDEA E IL SISTEMA DI SPOPOLAMENTO

 

 

Francois Noel Babeuf

François-Noël Babeuf

 

 

Babeuf, François-Noël (Saint Quentin 1760 – Vendôme 1797), rivoluzionario francese, fondatore del socialismo rivoluzionario. Acceso sostenitore della Rivoluzione francese, organizzò la rivolta fiscale dei contadini e contrastò la politica di Robespierre. Arrestato e liberato dopo il colpo di stato del 9 termidoro (1794), diresse la rivista ‘Le Tribun du Peuple’ con lo pseudonimo di Gracchus.

 

Sostenitore della proprietà comune della terra e dei mezzi di produzione, nonché dell’assoluta eguaglianza di tutti i cittadini, propose di eliminare la proprietà privata mediante confisca e abolizione del principio di eredità. Con Filippo Buonarroti organizzò nel 1796 la congiura cosiddetta ‘degli Eguali’, che aveva come fine quello di instaurare una dittatura rivoluzionaria basata sul comunismo dei beni. Scoperta la cospirazione, fu nuovamente arrestato, condannato a morte e ghigliottinato.

 

« Cittadini repubblicani, non c’è più nessuna Vandea! È morta sotto la nostra sciabola libera, con le sue donne e i suoi bambini. L’abbiamo appena sepolta nelle paludi e nei boschi di Savenay. Secondo gli ordini che mi avete dato, ho schiacciato i bambini sotto gli zoccoli dei cavalli, e massacrato le donne che non partoriranno più briganti. Non ho un solo prigioniero da rimproverarmi. Li ho sterminati tutti… le strade sono seminate di cadaveri. Le fucilazioni continuano incessantemente a Savenay, poiché arrivano sempre dei briganti che pretendono di liberare i prigionieri. »

 

(Da una lettera del generale François Joseph Westermann inviata al Comitato di salute pubblica)

→ Il Comitato di salute pubblica, organo del Governo rivoluzionario creato dalla Convenzione Nazionale il 17 germinale dell’anno I (6 aprile 1793), fu costituito per sostituire il Consiglio esecutivo, fondato dopo l’insurrezione del 10 agosto 1792, che riuniva i sei maggiori Ministeri di governo. Il Comitato veniva eletto ogni mese e costituì di fatto il Governo francese, tranne che per le materie finanziarie, fino al 1795.

 

Le guerre di Vandea



 

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Per guerre di Vandea si intende una serie di guerre civili scoppiate a seguito della Rivoluzione francese durante la prima repubblica francese, che vide come protagonisti la popolazione della Vandea e quella di alcuni dipartimenti vicini, che insorsero contro la neonata repubblica.

 

La prima guerra di Vandea e la seconda guerra di Vandea solitamente vengono accorpate in un unico periodo che va dal 1793 e il 1796. L’insurrezione ebbe inizio nel marzo 1793, quando la Convenzione Nazionale ordinò la leva obbligatoria per 300.000 uomini da inviare al fronte, e proseguì per i successivi tre anni, con brevi tregue durante le feste come il Natale e la Pasqua.

 

Dopo che venne emanata la legge che prevedeva la leva obbligatoria per 300.000 uomini, i vandeani si trovarono di fronte alla scelta di combattere al fronte per una nazione che ritenevano non li rappresentasse più o di riprendere e ampliare quell’insurrezione che era cominciata qualche mese prima. Inoltre avevano dalla loro il fatto che nella nuova versione della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, pubblicata nel 1793, l’articolo 35 prevedeva che: « Quando il governo viola i diritti del popolo, per il popolo e per ogni parte del popolo, l’insurrezione è il più sacro di tutti i diritti e il più indispensabile di tutti i doveri. »

 

Una tregua vera e propria avvenne nella primavera del 1795 con la Pace di La Jaunaye, alla fine di questa, il 24 giugno 1795 inizia la seconda guerra di Vandea, che terminerà l’anno successivo quando l’esercito francese riuscì a sopprimere l’insurrezione, compiendo quello che, se venisse riconosciuto, diverrebbe il primo genocidio della storia moderna.



 

La terza guerra di Vandea durò solo tre mesi, dal 26 ottobre al 17 dicembre 1799, terminando con l’armistizio di Pouancé: a causa dell’instabile situazione politica, la Francia non avrebbe potuto sostenere una nuova guerra civile e per questo motivo il nuovo governo francese preferì acconsentire alle richieste degli insorti, in modo da evitare il ritorno delle monarchia, che in quel momento sembrava imminente.

 

VandeaMilitare

 

 

Sorte diversa ebbe la quarta guerra di Vandea, che iniziò con qualche insurrezione nel marzo 1813 e terminò quando Luigi XVIII salì al trono, nell’aprile 1814. La vera quarta guerra di Vandea scoppiò peraltro dopo i cosiddetti Cento giorni il 15 maggio 1815 e terminò il mese successivo nella fine del giugno 1815, quando Luigi XVIII ritornò sul trono di Francia. A differenza dei precedenti conflitti, essa fu determinante per il ripristino della monarchia, tanto che il nuovo sovrano, in segno di riconoscenza, conferì il grado di generale dei granatieri reali (un corpo militare addetto alla protezione del re) al generalissimo dell’armata vandeana Louis de La Rochejaquelein, e lo stesso fece con il suo successore Charles Sapinaud, che divenne generale e e fu insignito del titolo di duca.

 

Babeuf accusa



 

Babeuf accusa la Convenzione e Robespierre di perpetrare in Vandea un vero genocidio, impiccando, sgozzando, annegando, fucilando, incendiando, violentando, torturando e saccheggiando una popolazione per lo più inerme.
L’esecutore materiale di tale infamia, il truce Carrier ne dava orgogliosi annunci alla Convenzione: donne da ammazzare perchè “solchi riproduttori di mostri”, bambini da ammazzare perchè “briganti o futuri briganti”; si collezionavano teste come trofei, si conciava la pelle umana per farne oggetti e indumenti.

 

Lo studio storico



 

 

 

Lo studio storico della guerra di Vandea è segnato da una serie di opinioni discordanti, che portarono alla nascita di una bibliografia immensa, con due correnti principali in opposizione: gli studiosi favorevoli alla rivoluzione francese e tutto ciò che ne derivò, quindi dalla parte dei repubblicani; e quegli studiosi che ritennero che i cambiamenti portati dalla rivoluzione francese fossero stati deleteri per la Francia di allora, e che si schierarono quindi dalla parte dei vandeani. Tuttavia è errato definire questa seconda categoria come i “monarchici”, in quanto nonostante i vandeani appoggiassero il re e fossero molto legati alla monarchia, non tutti i monarchici francesi appoggiarono l’insurrezione e molti di quelli che avevano servito sotto il re erano poi passati al servizio della repubblica. Inoltre i vandeani iniziarono la rivolta solo in seguito all’attuazione da parte del governo francese di misure repressive per il clero ed all’aumento delle tasse necessario alla ricostruzione della Francia e alle spese militari per l’aggressiva politica estera attuata negli anni successivi alla rivoluzione. Il ripristino della monarchia rappresentava così per i controrivoluzionari vandeani una soluzione per porre fine alla rivoluzione.

 

Genocidio



 

La tesi del genocidio, così come il termine stesso, risale al XX secolo, tuttavia, nonostante questo concetto fosse piuttosto estraneo alla mentalità dell’epoca, nel 1794 uno cronista del tempo François-Noël Babeuf detto “Gracchus”, pubblicò un libro dal titolo: “Du système de dépopulation ou La vie et les crimes de Carrier” (in italiano, “Il sistema di spopolamento e i crimini di Carrier) [In Italia pubblicato con il titolo di "La guerra di Vandea e il sistema di spopolamento" ], nel quale riporta alcune vicende della guerra e gli atti dell’intero processo di Carrier. Nel libro conia un neologismo, che oggi si potrebbe considerare un sinonimo di genocidio, ovvero “populicidio”. La differenza con il termine “genocidio”, coniato da Lemkin nel 1944, sta solamente nell’etimologia: in quando “genocidio” deriva dal greco “ghénos” (razza, stirpe) e “cædo” (uccidere), mentre “populicidio” deriva del latino “populus” (popolo).

 

La guerra di Vandea e il sistema di spopolamento



 

Nel suo libro, Babeuf, si scagliò duramente contro la “convenzione termidoriana”, che riteneva colpevole del terrore e del “populicidio”. Babeuf infatti non fu un controrivoluzionario, ma anzi aderì con entusiasmo alla rivoluzione e pensava che uno stato repubblicano non avrebbe mai potuto sterminare una parte della sua popolazione, anche perché riteneva che quei cambiamenti che stavano mutando la società francese sarebbero dovuti avvenire in modo progressivo e senza l’uso della violenza. Per questo motivo, decise di testimoniare quanto avvenne in tempi molto brevi, tanto che scrisse questo libro in appena due mesi (venne pubblicato nell’inverno 1794). Scelse, quindi, di riportare il primo avvenimento che diede iniziò al populicidio, cioè il processo di Carrier che avvenne nel periodo della “convenzione termidoriana” e secondo lui fu questo il motivo per cui gli imputati non vennero condannati.

 

Reynald Secher

 

 

Fonte: visto su http://www.parodos.it

Link: http://www.parodos.it/books/storia/babuef.htm

 

 

 

FRANÇOIS JOSEPH WESTERMANN

 

 

François-Joseph Westerman

 

François-Joseph Westermann / Auteur : Antoine Meyer en 1884.

 

 

François Joseph Westermann (Molsheim, 5 settembre 1751 – Parigi, 5 aprile 1794) è stato un generale francese dell’esercito repubblicano. Divenne famoso per le atrocità che commise durante le Guerre di Vandea, tanto che venne soprannominato “il macellaio della Vandea” (in francese “Le boucher de la Vendée”).

 

Scrisse in una lettera al Comitato di salute pubblica il 23 dicembre 1793 in seguito alla Battaglia di Savenay, una frase rimasta famosa:

 

« Cittadini repubblicani, non c’è più nessuna Vandea! È morta sotto la nostra sciabola libera, con le sue donne e i suoi bambini. L’abbiamo appena sepolta nelle paludi e nei boschi di Savenay. Secondo gli ordini che mi avete dato, ho schiacciato i bambini sotto gli zoccoli dei cavalli, e massacrato le donne che non partoriranno più briganti. Non ho un solo prigioniero da rimproverarmi. Li ho sterminati tutti… le strade sono seminate di cadaveri. Le fucilazioni continuano incessantemente a Savenay, poiché arrivano sempre dei briganti che pretendono di liberare i prigionieri ».

 

 

 

 

SERGIO ROMANO “DIMENTICA” IL GENOCIDIO VANDEANO

 

PRESENTAZIONE DEL LIBRO DI GIANFRANCO FINI IL FUTURO DELLA LIBERTA'

Sergio Romano

 

 

Il prof. Sergio Romano è un importante storico italiano, sempre diviso tra il suo anticlericalismo pregiudiziale e l’oggettività del ricercatore. A volte il pregiudizio prevale sull’oggettività, a volte il contrario.

 

Pochi giorni fa Romano si è incredibilmente “dimenticato” di citare il genocidio vandeano realizzato dagli illuminati rivoluzionari francesi. Per molti tale crimine, assieme all’uso frenetico della ghigliottina, è il vero volto della laicissima Rivoluzione francese e forse proprio per questo motivo il prof. Romano ha preferito non parlarne.

 

Una lettrice gli ha infatti domandato cosa fosse la “Costituzione civile del clero”, ovvero le norme approvate dall’Assemblea costituente francese nel giugno del 1790 per organizzare la Chiesa di Francia con criteri di utilità pubblica. Romano ha parlato degli abusi subiti dalla Chiesa cattolica francese con una delicatezza estrema, quasi giustificando i rivoluzionari francesi. Non ha accennato al fatto che i sacerdoti che si rifiutavano di staccarsi dal Pontefice per diventare zimbelli in mano allo Stato furono costretti a vivere clandestinamente, ma ha scritto semplicemente che i sacerdoti refrattari, in particolare in regioni come l’Alsazia e la Vandea, «constatarono di avere la simpatia e il sostegno di una larga parte della società francese». Tutto qui.

 

Ma può uno storico, seppur profondamente anticlericale, evitare di ricordare anche che il governo francese in risposta al sostegno dei vandeani a questi coraggiosi sacerdoti fece migliaia di vittime in soli tre anni? E’ come spiegare che a Hitler non stavano simpatici gli ebrei senza nemmeno citare l’Olocausto. Il numero esatto dei martiri vandeani è molto discusso, in tanti parlano di genocidio. Papa Pio XI nel 1926 beatificò 191 delle vittime, quasi tutti sacerdoti, dei massacri avvenuti tra il 2 ed il 6 settembre del 1792, Giovanni Paolo II ne ha beatificati altri 60 nel 1995.

 

Il mito della Rivoluzione francese non si può toccare, lo storico Reynald Sécher venne duramente perseguitato quando osò pubblicare i risultati dei suoi studi su quello che ritenne essere il primo genocidio di Stato della storia occidentale. Molti altri storici, come si spiega in questo articolo, paragonano la Vandea alla persecuzione ebrea da parte del nazismo.

Il premio Nobel Aleksandr Isaevič Solženicyn ha scritto: «Già due terzi di secolo fa, da ragazzo, leggevo con ammirazione i libri che evocavano la sollevazione della Vandea, così coraggiosa e così disperata, ma non avrei mai potuto immaginare, neppure in sogno, che nei miei tardi giorni avrei avuto l’onore di partecipare all’inaugurazione di un monumento agli eroi e alle vittime di questa sollevazione. […] Per molto tempo ci si è rifiutati di capire di accettare quel che gridavano coloro che morivano, che venivano bruciati vivi: i contadini di una contea laboriosa, per i quali la rivoluzione sembrava essere fatta apposta, ma che la stessa rivoluzione oppresse e umiliò fino alle estreme conseguenze: e proprio contro essa si rivoltarono. […]. È stato il ventesimo secolo ad appannare, agli occhi dell’umanità, quell’aureola romantica che circondava la rivoluzione del XVIII secolo» («Famiglia Cristiana», n. 41/1993, pp.80-81). 

 

Niente di tutto questo, Sergio Romano si è casualmente dimenticato anche soltanto di citare cosa accadde ai protagonisti della sua risposta data alla lettrice. La memoria fa brutti scherzi a volte, fortunatamente non a Solženicyn e agli storici senza pregiudizi anticlericali.

La redazione

 

 

Fonte: visto su UCCR del 15 marzo 2014

Link: http://www.uccronline.it/2014/03/15/sergio-romano-dimentica-il-genocidio-vandeano/

 

 

 

 

DAL GENOCIDIO VANDEANO AL “MEMORICIDIO”

 

 

robespierre disse cancellate i vandeani

 

 

Articolo apparso sul n. 224 di Cristianita’ 

 

Intervista con il professor Reynald Secher

 

Intervista di Marco Respinti

 

di Marco Respinti

 

 

 

Il tema delle insurrezioni contro-rivoluzionarie nella Francia Occidentale – particolarmente quello delle insurrezioni nella Vandea Militare, episodiche sin dal 1789, ma esplose con grande rilevanza a partire dal mese di marzo del 1793 – ha acquistato una certa notorietà per il mondo dei mass media – attenti sempre e solo a ciò che “fa notizia” e suscita clamore -, grazie all’allocuzione pronunciata da S. Em. il card. Paul Poupard, presidente del Pontificio Consiglio per la Cultura, il 18 luglio 1993 a Le Pin-en-Mauges, e al discorso tenuto dallo scrittore russo Aleksandr Isaevic Solzenicyn il 25 settembre a Les Lucs-sur-Boulogne (cfr., rispettivamente, Jacques Cathelineau, “il Santo dell’Anjou”, un combattente sotto lo stendardo del Re del Cielo e Onore alla memoria della resistenza e del sacrificio degl’insorti vandeani del 1793 contro la Rivoluzione, in Cristianità, anno XXI, n. 222, ottobre 1993).

 

Al secondo avvenimento ha fatto eco anche la stampa italiana, sulla quale hanno ritrovato voce alcuni pregiudizi, di per sé mai scomparsi, che ancora una volta mostrano “in controluce” l’importanza e la “scomodità” del ricordo dell’insurrezione vandeana. Per esempio, pur sostenendo che “non si tratta di demonizzare il moto vandeano, né di dimenticare gli eccessi sanguinosi e disumani della sua repressione (come quelli dei ribelli, del resto), il professor Giuseppe Galasso ha sottolineato che, alla domanda se si possa o meno sostituire un riferimento politico-culturale contro-rivoluzionario “di tipo vandeano” al “mito” della Rivoluzione di Francia, “se si accettano certe confluenze ideologico-celebrative, le risposte possono essere solo positive: ma non vi consentono né la storia, né gli ideali della più alta tradizione europea. Sarebbe come se in Italia celebrassimo la Santa Fede o il Viva Maria! toscano, il cardinale Ruffo e i Borboni o i Savoia della Restaurazione. Niente male, davvero, per cominciare il secolo XXI” (È come se noi onorassimo il Sanfedismo, in Corriere della Sera, 24-9-1993).

 

Nel mese di ottobre del 1993, il professor Reynald Secher ha compiuto un breve ciclo di conferenze in Italia, in occasione del secondo centenario del genocidio vandeano. Reynald Secher, dal 1989 a oggi, è stato più volte protagonista di congressi e di conferenze organizzate da Alleanza Cattolica, a partire dal convegno internazionale Contro l’Ottantanove. Miti, interpretazioni e prospettive, svoltosi a Roma il 25 e 26 febbraio 1989 (cfr. “Contro l’Ottantanove. Miti, interpretazioni e prospettive”, in Cristianità, anno XVII, n. 167-168, marzo-aprile 1989), che fu l’occasione della sua prima comparsa pubblica italiana e l’avvio della sua notorietà nel nostro paese. Hanno fatto seguito, poi, numerose altre manifestazioni, incontri e conferenze, organizzati direttamente o indirettamente da Alleanza Cattolica (cfr., per esempio, Reynald Secher: il genocidio vandeano, in Cristianità, anno XX, n. 207-208, luglio-agosto 1992).

 

Il 27 ottobre 1993 Reynald Secher ha tenuto una conferenza dal titolo Vandea 1793-1993: la memoria di un genocidio, organizzata da Alleanza Cattolica nella Sala delle Colonne Verdi, presso la parrocchia di Santa Francesca Romana in Milano, brevemente introdotto dell’avvocato Benedetto Tusa, dell’associazione promotrice. La conferenza è stata annunciata, il giorno stesso, sul Secolo d’Italia, e un’intervista con lo storico francese – raccolta nell’occasione – è comparsa, a cura di Fabrizio Crivellari, su L’Italia settimanale (anno II, n. 46, 17-11-1993, pp. 48-49), con il titolo Robespierre, padre dei razzisti. Al termine della serata milanese è stata registrata un’intervista – introdotta dal dottor Enzo Peserico, di Alleanza Cattolica – con lo studioso francese, per Radio Onda Verde, di Cremona. Il 28 ottobre Reynald Secher ha parlato, sempre a Milano, alle alunne della scuola Monforte, mentre il 29 ha trattato il medesimo tema per gli alunni della scuola Argonne.

 

Il 30 ottobre Reynald Secher si è trasferito a Bologna dove è stato ricevuto dall’arcivescovo, S. Em. il card. Giacomo Biffi. Nel corso della mattinata lo studioso ha tenuto una conferenza – organizzata dal Centro Culturale Enrico Manfredini nella sala di rappresentanza della Cassa di Risparmio, con il patrocinio dell’università, e ampiamente annunciata dalla stampa locale – dal titolo Quando uccidono un popolo, introdotto dal card. Giacomo Biffi. Entrambi gli oratori sono stati presentati dal dottor Raffaello Vignali, presidente del sodalizio organizzatore, che, fra l’altro, ha detto: “Nel titolo che abbiamo dato alla giornata odierna, abbiamo tentato di sviluppare questi spunti: un momento del tempo, un accadimento cruento e terribile, un giudizio: quando uccidono un popolo. Sono mutati i tempi, sono diversi i contesti da quello che il proto-comunista Gracchus Babeuf già stigmatizzava, ma il popolo può essere sempre ucciso dall’ideologia del momento, assuma essa l’abito sanguinoso della guerra o quello più apparentemente rispettabile dell’omologazione sociale. Soprattutto quando l’ideologia – fosse anche quella dello Stato – pretende di eliminare la libertà religiosa, o meglio la Libertas Ecclesiae, che è la condizione di ogni libertà civile”.

 

Nell’introduzione – integralmente pubblicata in Avvenire, del 31 ottobre 1993, nel supplemento regionale Bologna Sette, con il titolo Biffi ricorda Manzoni – il card. Giacomo Biffi ha, fra l’altro, ricordato che “la diffusa tendenza a vedere nella Rivoluzione Francese un evento tutto luminoso e positivo, senz’ombre e senza peccati, “è una prospettiva – dicevo quattro anni fa – che dà risultati storiografici di notevole comicità, sia pure involontaria”. Purtroppo proprio questa visione encomiastica è ancora quotidianamente imposta nelle nostre scuole e nella divulgazione corrente, nonostante le revisioni che ormai in sede scientifica si stanno affermando, specialmente in Francia”.

 

“Non si può disconoscere - ha proseguito il porporato – che nel 1789 si è messo in moto un processo sociale e politico che ha portato in molte parti della terra al pubblico riconoscimento dei diritti fondamentali dell’uomo e alle forme democratiche di vita associata. Anche se bisogna pur ammettere che le genti anglosassoni sono arrivate per altra strada, a minor prezzo e con esiti generalmente più soddisfacenti, agli stessi risultati.

 

“Ma non si può nemmeno ignorare che col genocidio vandeano, col regicidio e con il Terrore si è affermato esplicitamente ed è stato applicato per la prima volta su larga scala il principio che sia legittimo e perfino doveroso sopprimere chi è personalmente innocente in vista dell’attuazione di un programma, dell’imposizione di persuasioni ritenute indiscutibili, del trionfo di una ideologia”.

 

“In quanto è avvenuto nel 1793- sono sempre parole dell’arcivescovo di Bologna - trovano le loro premesse le stragi che hanno insanguinato l’intero secolo XX in nome o di un assurdo ideale di giustizia, o di un’aberrante esaltazione di una nazione o di una razza, o di un egoismo mascherato da civile comprensione (come avviene nelle odierne legislazioni contro la vita).

 

“Da quanto è avvenuto nel 1793 hanno trovato il primo impulso e la propria legittimazione i grandi criminali del nostro tempo, come Lenin, Stalin, Hitler, con tutta la schiera dei loro sciagurati imitatori.

 

“Ricordiamoci dunque dell’89 e ricordiamoci del 93: prendiamo atto di tutto ciò che è avvenuto, senza esclusioni, e riflettiamoci sopra”.

 

Le parole del porporato sono state ampiamente riprese e talora commentate, e due di questi commenti appaiono particolarmente degni di nota, in quanto rivelatori di atteggiamenti ideologici precisi.

 

Il primo commento è di Giordano Bruno Guerri, che scrive “Biffi straparla ed è in malafede”, aggiungendo: “Quello di Biffi è un tentativo di restaurazione della peggior specie. Il cardinale riprende tesi vecchie di due secoli, già usate ed abusate dalla Chiesa per dire che tutti i mali della società moderna nascono dalla Rivoluzione. La verità è che la Chiesa in questo periodo ha ripreso slancio aggressivo sulla base della debolezza intellettuale dei laici. Le ultime uscite dei vescovi sono la logica conseguenza della posizione oscurantista del Sillabo, come quella espressa dal papa nella “Veritatis Splendor”, il cui succo non è altro che questo: non c’è salvezza fuori dalla Chiesa, e l’unica cosa che dovete fare è obbedire al papa, senza possibilità di discussione”. Dunque – conclude il giornalista “storico” – “per me, invece, la rivoluzione è uno degli eventi più positivi di tutta la storia umana” (Ma lo storico ribatte “Il cardinale straparla”, in L’Indipendente,31-10/1-11-1993).

 

Il secondo commento è di Carlo Ghisalberti che a sua volta scrive: “Il ricordo di quella forza e di quella violenza sembrano ancora turbare le coscienze e dilacerare gli animi di molti offuscando ai loro occhi l’immagine degli eserciti della rivoluzione che da Valmy a Waterloo hanno cambiato il corso della storia europea ed inducendoli, addirittura, come ha fatto Solzhenicyn, e ora sembra fare il cardinale Biffi, a negare ogni positività di quella storia per le conseguenze che da essa sarebbero scaturite culminando nei più spietati totalitarismi contemporanei, e cioè in quello nazista e in quello sovietico.

“È una tesi che non si può accettare perché l’Europa democratica e liberale ha tratto dai principi dell’89 non soltanto la forza morale per resistere al fascismo ed al nazismo ma anche di opporsi al comunismo che qualche conservatore, ripercorrendo strade già note, vuole polemicamente far derivare dalla rivoluzione francese, contestandone e negandone, in nome della Vandea, il significato più autentico” (Bisogna andarci piano con l’elogio della Vandea, in il Giornale, 1-11-1993).

 

 

 

REYNALD SECHER – discendente sia da bretoni che da vandeani – nasce a Nantes il 27 ottobre 1955. Di formazione giuridica e storica, si laurea in lettere e il 14 aprile 1983 discute una tesi di dottorato del 3° ciclo in scienze storiche e politiche all’università di Parigi IV-Sorbona dal titolo Anatomie d’un village vendéen: La Chapelle-Basse-Mer, relatore il professor Jean Meyer, di fronte a una commissione di cui fanno parte i professori Pierre Chaunu e André Corvisier. Tale tesi è successivamente pubblicata con il titolo La Chapelle-Basse-Mer, village vendéen. Révolution et contre-révolution, con una Prefazione di Jean Meyer (Perrin, Parigi 1986).

 

Reynald Sécher.426

REYNALD SECHER

 

Nel 1985, sempre all’università di Parigi IV-Sorbona Reynald Secher sostiene una tesi per il dottorato di ricercain lettere e scienze umane, dal titolo Contribution à l’étude du génocide franco-français: la Vendée-Vengé, relatore sempre il professor Jean Meyer e i professori Pierre Chaunu, André Corvisier, Yves Durand, Louis Bernard Mer, Jean Tulard e Jean-Pierre Bardet membri della commissione. Codesta tesi – rubata al suo autore pochi giorni prima di venire discussa (cfr. La thèse de Doctorat sur le génocide vendéen disparait, in Presse Océan, 19-9-1985) – è pubblicata come Le génocide franco-français: la Vendée-Vengé (Presses Universitaires de France, Parigi 1986),con una Prefazione di Jean Meyer e una Presentazione di Pierre Chaunu (trad. it., Il genocidio vandeano, Effedieffe, Milano 1991). “La Vandea, il 21 settembre 1985, è entrata alla Sorbona dalla porta principale”: così Pierre Chaunu ha scritto nella Presentazione di tale opera (p. 17), della quale dice, [...] il libro è di Reynald Secher, ma il titolo è proprietà mia, dal 1983″ (Le grand déclassement. À propos d’une commemoration, Robert Laffont, Parigi 1989, p. 11). Poi Reynald Secher cura – con Jean-Joël Brégeon – la ripubblicazione del libro di Jean-Nöel “Gracchus” Babeuf, La guerra di Vandea e il Sistema di spopolamento (trad. it, Effedieffe, Milano 1991), a cui fanno seguito la guida storico-turistica La guerre de Vendée. Itinéraire de la Vendée Militaire (Tallandier, Parigi 1989), il romanzo “Les Vire-Couettes” (Presses de la Citè, Parigi 1989) e Juifs et Vendéens. D’un génocide à l’autre. La manipulation de la mémoire (Olivier Orban, Parigi 1991). Conscio della necessità di raggiungere anche il pubblico non specialistico, Reynald Secher cura la preparazione scientifica di alcune video-cassette nonché la sceneggiatura e la redazione dei testi di alcuni albi a fumetti, realizzati in collaborazione con il disegnatore René Le Honzec. Dal 1991, lo studioso francese dirige una propria casa editrice, le Éditions Reynald Secher di Noyal-sur-Vilaine. Già docente in diversi college, licei e scuole superiori, nonché, per un anno, all’università del Diritto di Rennes, attualmente Reynald Secher insegna a Sciences Com, di Nantes, e presso l’ESIG, l’École Supérieure d’Informatique et de Gestion, di Rennes, svolgendo corsi sulla cultura e sull’identità della regione della Loira. Dal 1986 al 1989, lo studioso ha ricoperto la carica di direttore della Comunicazione del Consiglio Regionale del Poitou-Charentes, mentre dal 1990 è consigliere culturale del Patronat Breton.

 

In occasione delle diverse conferenze italiane, nel corso di lunghe conversazioni – durante le quali lo studioso ha spesso fatto riferimento all’opera di Plinio Corrêa de Oliveira, Rivoluzione e Contro-Rivoluzione, per descrivere l’eredità culturale e ideologica della Rivoluzione del 1789 -, ho raccolto un’intervista.

 

  1. Perché ha deciso di dedicarsi allo studio delle guerre nella Francia Occidentale?

 

  1. Da parte di madre discendo da una famiglia vandeana che fu oggetto di una repressione particolare ad opera dei rivoluzionari. Ma, benché conoscessi alcuni fatti di questa vicenda, non ne ero stato influenzato significativamente per la semplice ragione che non avevo mai risieduto in Vandea abbastanza a lungo, avendo condotto i miei studi soprattutto in Bretagna. La ragione per la quale mi sono poi dedicato a codesti studi è altrettanto semplice: il “caso”. Ossia il caso dell’incontro – in un luogo ben preciso, il corridoio dell’università… – con il grande studioso francese, d’origine alsaziana, Jean Meyer, docente alla Sorbona. La consuetudine, in Francia, vuole che il soggetto della tesi di laurea venga assegnato al laureando dal docente: quando mi recai da Jean Meyer per sollecitare la scelta dell’argomento della mia ricerca, egli non sapeva che cosa propormi. Ne discutemmo nei corridoi dell’università e, al momento della separazione, egli ebbe l’idea di un lavoro sulla Vandea. Il fatto interessante è che, di fronte a questa sua proposta, fui relativamente reticente perché ero convinto che gli avvenimenti occorsi in Vandea fossero ormai ben conosciuti e, soprattutto, perché ritenevo acclarato che tali fatti non avessero alcuna importanza di per se stessi, se non in quanto esempio della reazione di una popolazione che non era più d’accordo con uno Stato desideroso di affermare soltanto il proprio benessere. Fui piuttosto contrario a tale studio finché Jean Meyer non mi fece comprendere che non era mai stata condotta alcuna ricerca scientifica sull’intera vicenda e che rimaneva, dunque, ancora molto da analizzare a livello tanto documentale quanto formale. Questo accadeva nel 1978; le mie ricerche sono durate fino al 1986, lavorando soprattutto a partire da documentazione privata, conservata da sacerdoti, da religiosi e da famiglie contadine, artigiane, borghesi e nobili. Parallelamente a tale documentazione privata vi era pure documentazione pubblica, sia militare, sia civile: quella militare, in particolare, si trova concentrata presso gli archivi della fortezza di Vincennes – vicino a Parigi -, mentre quella civile si trova normalmente presso i municipi, presso i dipartimenti o presso gli archivi nazionali.

 

D. Quali sono stati i problemi che ha dovuto affrontare per aver sostenuto la sua tesi sul genocidio vandeano alla Sorbona e per aver poi pubblicato i suoi libri sul medesimo tema?

 

  1. All’epoca ero molto giovane e non ero del tutto cosciente del problema che la ricerca sulla Vandea avrebbe posto. Ovviamente, il relatore e io sapevamo che tale ricerca era stata di fatto vietata per duecento anni circa, ma credevamo che ciò fosse dovuto a motivazioni banali. In un secondo tempo ci siamo resi conto che, effettivamente, questa volontà di non ricordare i fatti occorsi in Vandea era maggioritaria, e che causava quindi una serie di problemi per quanto concerneva l’accesso alle fonti documentarie, l’ottenimento di sovvenzioni per la ricerca e altre questioni d’ordine amministrativo. Comunque, è importante che, nonostante grandi difficoltà, sia riuscito a concludere i miei studi. La situazione si è poi evoluta molto più rapidamente una settimana prima di discutere la tesi alla Sorbona, dato che Pierre Chaunu aveva parlato di questi miei studi ai giornali, sostenendo che davvero in Vandea si era praticato un genocidio e che finalmente tutto questo era stato inoppugnabilmente e scientificamente dimostrato. Devo solo constatare che una settimana prima della discussione della tesi il mio appartamento a Rennes è stato svaligiato e che le copie della stessa tesi mi vennero sottratte; che pure, in un secondo tempo, cinque giorni prima della discussione, un funzionario di dipartimento della Pubblica Istruzione mi convocò per domandarmi di non sostenere – in nome della Francia – codesta tesi che stava per infrangere un mito, quello della Rivoluzione. Ben inteso, mi sarebbero stati dati compensi, sia professionali che economici. Non potei naturalmente accettare, dato che – come storico fuori dall’ottica ideologica -, ero e sono animato soltanto dal desiderio di narrare i fatti reali. Se si rilegge tutta la documentazione su questa vicenda, è interessante notare che Pierre Chaunu – si è cercato di comperare anche lui, senza alcun successo… – ha notificato, a conclusione del verbale della discussione della mia tesi, che, a causa della profondità, della serietà e delle conseguenze delle mie ricerche, la mia carriera universitaria sarebbe stata interrotta: gli avvenimenti successivi gli hanno dato ragione. Fui diffamato dai giornali, la mia famiglia fu coinvolta e fui quindi costretto a dimettermi dall’insegnamento pubblico e,dato che l’insegnamento superiore francese è relativamente ideologizzato, non ho più potuto insegnare negli atenei, cosicché oggi svolgo attività d’insegnante presso istituzioni private.

 

  1. I suoi studi sulla Vandea hanno, dunque, costituito un approccio del tutto nuovo al tema, soprattutto per quanto riguarda l’idea e la realtà del “genocidio” perpetrato contro la popolazione della regione insorta. Nessuno prima di lei aveva, infatti, documentato il piano genocida ordito dalla Convenzione…

 

  1. Riguardo alle pubblicazioni precedenti i miei studi, è interessante il fatto che si conosceva piuttosto bene un certo numero di avvenimenti, come le grandi battaglie, le vite dei capi dell’insurrezione, e così via. Per contro, non si aveva conoscenza alcuna della programmazione, della votazione e della realizzazione sul terreno del genocidio. Ossia, nessuno aveva riflettuto su questa tematica e sull’enormità stessa di tale fatto. Quando iniziai le ricerche, non era assolutamente mia intenzione giungere a tale scopo: ho ricostruito questo puzzle, allora sorprendente, sulla base dello svolgimento scientifico del mio studio. Mi sono, dunque, reso conto che lo Stato francese aveva votato un certo numero di provvedimenti, che un certo numero d’ordini era stato trasmesso alle truppe e che queste stesse avevano ligiamente eseguito tali ordini. In breve mi resi conto che i fatti di Vandea non erano assolutamente una semplice somma di massacri – la terminologia è molto importante -, ma che corrispondevano a un piano di sterminio e di annientamento che era stato – ripeto – programmato, votato e realizzato dalla Convenzione.

 

Nel mese di aprile del 1793, il ministro Bertrand Barère, membro del Comitato di Salute Pubblica, fu il primo a utilizzare il termine “sterminio” nei confronti della Vandea. Poi – questa è l’unicità storica del caso vandeano – la Convenzione votò ben tre leggi al fine di eliminare una parte del popolo francese, ossia una parte del popolo che essa rappresentava:

1. la legge del 1° agosto dello stesso anno, che prevedeva l’annientamento fisico del territorio vandeano e la distruzione di tutte le ricchezze, degli abitati, delle foreste e dell’intera economia, secondo la politica della “terra bruciata”;

2. poi, la legge del 1° ottobre che ordinava lo sterminio fisico di tutti gli abitanti del territorio insorto, principalmente delle donne, in quanto “solchi riproduttori”, e dei bambini, in quanto “futuri briganti”;

3. finalmente, la legge del 7 novembre, che toglieva al dipartimento il nome di Vandea, per sostituirlo con quello di Vengé, ossia “dipartimento vendicato”, seguendo la stessa idea secondo cui la ghigliottina era “vendicatrice del popolo” e il boia “vendicatore”: si disse, infatti, che gli insorti erano “fuori legge”, dunque non più buoni repubblicani, pertanto non più uomini, ma solo animali che non potevano possedere un territorio loro proprio… È la “vendetta nazionale”…

Gli orrori si moltiplicarono dopo la fine della guerra civile, nel dicembre del 1793. Il progetto era quello di creare l’”uomo nuovo” repubblicano e così, con ogni mezzo, si dovevano sterminare gli oppositori: fucilazioni, ghigliottina, annegamenti nei fiumi, camere a gas, avvelenamento, ma – soprattutto – le famose Colonne Infernali del generale Louis Marie Turreau de Garambouville, la flotta schierata sulla Loira e il Comitato di Sussistenza, incaricato del saccheggio. Si bruciarono i corpi dei vandeani, si conciò la pelle umana… Su circa 815.000 abitanti, oggi si calcola che almeno 117.000 persone circa scomparvero: ma il problema è quello di stabilire se l’ordine di sterminio da parte della Convenzione – la legge del 1° ottobre -, da attuarsi soprattutto con l’eliminazione delle donne, fu eseguito. Grazie agli archivi parrocchiali si è potuto verificare che fra il 70 e l’80 % delle vittime furono donne. Con riferimento alla legge del 1° agosto, poi, ho cercato di stabilire se anche la volontà di distruggere economicamente il territorio venne rispettata. Si è acclarato che circa un quinto delle case della Vandea furono distrutte, con apici di circa l’80 % in alcuni villaggi. Per esempio a La Chapelle-Basse-Mer furono distrutte circa una casa su tre: ricostruendo il valore immobiliare di tutte le case, è stato possibile rilevare che le abitazioni abbattute rappresentavano circa il 51% della ricchezza. Si distrussero di preferenza i borghi centrali, attorno ai quali orbitavano villaggi minori, in quanto centri commerciali e di ricchezza: con questo sistema è stato addirittura possibile ricostruire in dettaglio gli itinerari seguiti dalle sei Colonne Infernali.

 

  1. Lei sostiene che in Vandea, per la prima e l’ultima volta nella storia, uno Stato – il popolo sovrano – ha votato, ordinato ed eseguito lo sterminio sistematico e voluto di una parte di sé stesso. Una delle critiche a tale descrizione, sostiene sofisticamente che essa “relativizzerebbe” l’olocausto ebraico…

 

R. Sostengo che il genocidio vandeano è un fatto unico nella storia per quanto riguarda le modalità adottate. Fu il popolo sovrano a concepire, a votare, a programmare e a eseguire lo sterminio. Per quanto riguarda l’olocausto ebraico, i fatti non si svolsero assolutamente così: si trattò di un uomo, insieme a un gruppo di altri uomini, che concepì e fece eseguire lo sterminio di una minoranza – quella ebraica – presente sul territorio nazionale. Costoro agirono senza la partecipazione del resto della popolazione nazionale, la quale non potè direttamente o indirettamente esprimere la propria opinione.

 

D. Com’è stato possibile che nessuno, prima, abbia scoperto i documenti pubblici da lei utilizzati per le ricerche, evidenziandone i contenuti e i risvolti profondi?

 

R. La ragione è molto semplice, benché duplice. La spiego nel mio Juifs et Vendéens. D’un génocide à l’autre. La manipulation de la mémoire: quanti hanno concepito il crimine, hanno pure concepito tutta una politica di manipolazione della storia proiettata verso il futuro. Maximilien Robespierre, mentre sterminava i vandeani, offrì alla storia una giustificazione. E il secondo aspetto è costituito dal fatto che tutta questa vicenda è stata vietata alla ricerca universitaria per duecento anni circa. Nessuno studioso ha, dunque, compreso e ricostruito questo sterminio. Chi volete che si ricordi degli avvenimenti? Nessuno. Infatti, da un lato si ha una storiografia ufficiale completamente manipolata e, di conseguenza, una storiografia scientifica che diviene ufficiosa; dall’altro lato, parallelamente, si ha il fatto che nessuno scienziato ha potuto ricostruire il mosaico. Così si è giunti all’ignoranza dei fatti che ho denunciato, il che dimostra come la manipolazione della memoria storica sia perfettamente riuscita.

 

  1. Prima delle sue pubblicazioni si sono contate fino a circa 15.000 opere sulle guerre nella Francia Occidentale: eppure, nessuna di esse è riuscita a descrivere compiutamente l’intero meccanismo del genocidio vandeano. Così la novità dei suoi studi è stata quella di aver offerto il quadro di riferimento – l’esplicito progetto di genocidio -, al quale devono essere ricondotte tutte le altre narrazioni e tutti gli altri particolari dell’accaduto.

 

  1. Certamente sì. Grosso modo, esistono due scuole storiografiche sul tema. Una scuola definibile come “conservatrice” – che denunciò in nome del re e della Chiesa i massacri della popolazione -, molto precisa riguardo ai fatti, senza peraltro aver compreso quanto stava dietro l’accaduto e che ragionava, così, solo in termini di “massacro”. L’altra è la scuola “ufficiale” precedentemente ricordata – prima “repubblicana” e poi marxista -, giustificatrice della necessità di sterminio della popolazione in quanto ribelle contro una repubblica “buona e generosa”. Bene inteso, quest’ultima scuola ha giustificato i massacri secondo l’ottica che considerava i vandeani come traditori dell’ideologia e della patria, dato che essi avevano sollecitato l’aiuto degli stranieri e dei francesi emigrati, fuggiti all’estero. Dunque, nessuno poteva spiegare i fatti obbiettivamente, perché il dibattito storiografico era divenuto un dibattito esclusivamente ideologico. Tutto il mio lavoro è consistito, fuori dall’ideologia e dalla partigianeria politica, nel ricostruire il quadro giuridico di fondo, oltre a tutto quanto è poi concretamente accaduto sul terreno, in relazione appunto alle misure legali adottate. Questo è l’inedito.

 

  1. Come le è stato possibile ritrovare i documenti privati e riscoprire quelli pubblici, e quali metodi scientifici ha adoperato per la sua indagine storica?

 

  1. L’itinerario che Jean Meyer mi ha fatto seguire è stato assolutamente e giustamente scientifico. Il mio relatore e io avevamo chiara coscienza del fatto che esistevano migliaia di libri sul tema, ma abbiamo preso le mosse dalla constatazione che tali libri avevano avuto un’impostazione esclusivamente polemica o ideologica: da qui la necessità di ritornare alle fonti primarie. Ci siamo così posti la domanda fondamentale se tali fonti esistessero ancora. Si è deciso di partire analizzando un determinato Comune, ossia La Chapelle-Basse-Mer, nel tentativo di ricostruire il quadro dell’intera documentazione generale del territorio insorto. Nello stesso tempo abbiamo adoperato questa specie di “quarantena scientifica” per mettere a punto metodi di proiezione e di analisi. La grande scoperta è stata, in realtà, questa: ci siamo resi conto che le fonti primarie esistevano, ma che, siccome nessuno le aveva adoperate, esse erano sparse dappertutto, sia nel senso delle strutture amministrative pubbliche o di quelle private che le conservavano, sia nel senso propriamente geografico, perché le fonti erano distribuite tanto in Bretagna quanto nelle regioni della Vandea Militare o del resto di Francia, e oltre le frontiere nazionali, principalmente in Belgio, in Italia, in Gran Bretagna e anche in Canada, negli Stati Uniti d’America e in Australia. Così abbiamo condotto un’enorme indagine documentaria, ottenendo un certo numero di tessere del mosaico, che abbiamo alla fine ricondotto a unità.

 

D. Dunque, lo studio per la sua tesi del 3° ciclo, in scienze storiche e politiche, poi reso pubblico come La Chapelle-Basse-Mer, village vendéen. Révolution et contre-révolution, costituisce la prima ricerca specifica sul tema, dilatando la quale lei ha potuto descrivere il quadro generale.

 

  1. Sì, certamente. Lo studio sul villaggio di La Chapelle-Basse-Mer è stato decisivo. Poiché la mia formazione è poliedrica – ossia letteraria, giuridica, storica, geografica e imprenditoriale -, mi sono trovato a utilizzare un metodo scientifico che non è solo quello tradizionalmente storico, ma piuttosto una somma di diversi metodi del tutto originale. Il mio relatore e io abbiamo così lavorato sul “laboratorio” costituito dal villaggio di La Chapelle-Basse-Mer, un villaggio molto importante in quanto Comune crocevia fra la Vandea Militare e la Bretagna, oltre a essere geograficamente primo comune-parrocchia della Bretagna, prima parrocchia della Vandea Militare, parrocchia della valle della Loira e parrocchia dell’Anjou. Dunque, una parrocchia dove tradizioni, usi e costumi differenti si sono confrontati, magari si sono scontrati, comunque segnando profondamente la popolazione, tanto a livello culturale che a livello politico, sociale, economico e religioso. Il nostro lavoro ha cercato di spiegare quanto avvenne in questo villaggio prima, durante e dopo l’insurrezione, con tutte le conseguenze – lungo i secoli XIX e XX – culturali, sociali, economiche e religiose, oltre che a livello strettamente ecclesiale. Così, assunto come dato un Comune, abbiamo circoscritto tutto quanto poteva esservi accaduto, estrapolando da qui, infine, il metodo per l’intera Vandea Militare.

 

D. Perché avete deciso di ripubblicare il libro La guerra di Vandea e il Sistema di spopolamento del “proto-comunista” Gracchus Babeuf?

 

R. Anche per tutto quanto concerne il pamphlet di Gracchus Babeuf si può parlare di caso. La pubblicazione in Francia della prima edizione del mio Il genocidio vandeano, nel 1986, diede origine a un grande dibattito. La polemica veniva soprattutto dagli ambienti di sinistra, “freddati” a livello ideologico in quanto essi si consideravano come i figli della Rivoluzione francese e non potevano tollerare che la propria “madre” avesse commesso un genocidio. Inoltre, la sinistra voleva commemorare il bicentenario, nel 1989, con grandi festeggiamenti e si riteneva di non poter far festa attorno a un genocidio. Fra l’altro, si cercò di far credere all’opinione pubblica che il mio approccio nei confronti della Vandea Militare risentiva dell’attualità e della modernità, prendendo significato solo in rapporto ai crimini che il nazionalsocialismo tedesco aveva perpetrato contro gli ebrei, i cattolici e gli zingari durante la seconda guerra mondiale. Dunque, si voleva far credere all’esistenza di un anacronismo di pensiero e di concetto. Avevo già avuto occasione di mostrare il rigore degli studi condotti, nonché per illustrare i documenti originali utilizzati: dovevo soltanto provare che, all’epoca dei fatti, si ebbe coscienza dell’enormità del crimine commesso. Tutto ciò assomigliava molto a un “falso problema”, ma era comunque difficile, di fronte all’opinione pubblica, superare tale questione. Evidentemente l’ideale era dimostrare tutto questo con scritti, elemento che ci mancò finché non fu riscoperto il libro di Gracchus Babeuf. Esso costituisce la reazione di un uomo, noto come il “padre del comunismo”, scandalizzato dai crimini commessi contro l’umanità. Gracchus Babeuf fu non solo contemporaneo degli avvenimenti, ma perfettamente in grado di comprendere quanto era realmente successo. Da qui la sua denuncia fatta in occasione del primo processo contro alcuni responsabili di tali crimini: con il suo pamphlet intese spiegare al giudice del tribunale la realtà dei fatti e, nello stesso tempo, mostrare di avere piena coscienza del fatto che, in ragione della strategia della comunicazione adoperata da Maximilien Robespierre e dalle sue comparse, la storia avrebbe rischiato di non rammentarsi più, nel futuro, di tali crimini. Gracchus Babeuf – lo afferma nella parte introduttiva – scrive per la storia. E aveva ragione: la storia, non solo ha dimenticato tutto questo, ma l’ha innanzitutto negato. Infine, il pamphlet di Gracchus Babeuf è importante, perché ci ha permesso di rispondere alla domanda dalla quale eravamo partiti: ossia, se i mandanti e gli esecutori del genocidio sapevano quanto stavano compiendo. Gracchus Babeuf permette anche di rispondere all’interrogativo sull’identità e sulle motivazioni dei mandanti, una domanda a lungo disattesa. Si trattò di Maximilien Robespierre, un ideologo fanatico e convinto di detenere il monopolio della verità, fuori dalla quale non si può avere “salvezza”. Le sue motivazione furono ugualmente ideologiche: bisognava creare l’”uomo nuovo” e, per questo, si dovevano sterminare tutti coloro la cui mentalità non coincideva con gli schemi dell’ideologia. Dividendo i francesi in “buoni” e in “cattivi”, lo sterminio venne praticato soprattutto a partire dai sacerdoti, dagli anti-rivoluzionari in armi e dai contro-rivoluzionari coscienti: un progetto che si voleva estendere a tutto il territorio nazionale. Perciò la Vandea fu un vero e proprio “laboratorio” per la “rigenerazione”…

 

Ma esiste anche una seconda interessante motivazione d’ordine economico. Maximilien Robespierre mostrò di avere un approccio “malthusiano ante litteram” rispetto alla realtà economica: ossia, a causa della difficile crisi finanziaria prodotta dalla guerra contro le potenze estere, il prodotto alimentare interno risultava insufficiente per sovvenire alle necessità della popolazione. Di conseguenza, poiché non vi era più nutrimento sufficiente per tutti, si rese necessaria la soppressione di una parte della popolazione, iniziando da tutte le “bocche inutili”, come parroci, “buone suore”, aristocratici e nobili. Ma quando ci si rese conto che l’insieme di tutti costoro non costituiva un numero sufficiente, si decise di sterminare interi gruppi umani, iniziando da chi “si era permesso” di prendere le armi contro la Rivoluzione. Primi fra tutti coloro che si opponevano alla Rivoluzione con ferme motivazioni d’ordine ideale. L’opuscolo di Gracchus Babeuf, scritto nel mese di dicembre del 1794, ha una storia interessante: fu vietato e distrutto, per essere da noi ritrovato quasi per caso circa duecento anni dopo. Non si tratta, per altro, di un pamphlet qualunque, ma del libro di un giornalista cosciente del proprio prodotto, che scrive – lo ripeto – per la storia.

 

D. Quando, in che modo e come è stato ritrovato tale libro?

 

R. Il libro fu trovato per caso da Jean-Joël Brégeon, uno studioso di storia locale che stava lavorando sull’affaire Jean-Baptiste Carrier, il responsabile a Nantes degli eccidi perpetrati dai repubblicani. Egli non comprese immediatamente l’importanza dell’opera, citandomela, appunto, fortuitamente. Devo confessare che anch’io, quando mi venne mostrata, non ne compresi subito il valore: solo dopo averla letta, ritenni che valesse la pena di ripubblicarla, onde porre fine a quello che ho definito un “falso problema”, quantunque certamente rilevante.

 

  1. Perché, dopo la caduta di Maximilien Robespierre e di Louis Saint-Just, il 9 termidoro dell’anno II – 27 luglio 1794 -, l’opera di Gracchus Babeuf, di fatto anti-robespierrista e anti-giacobina, venne ritirata e distrutta?

 

  1. Non furono i termidoriani a far scomparire il pamphlet. Costoro, dopo il colpo di Stato che mise fine al Terrore giacobino, vollero mantenere il ricordo dell’accaduto in funzione anti-robespierrista: per questa ragione fu permesso a Gracchus Babeuf di pubblicare l’opuscolo. Ma, successivamente, si ebbe un ritorno al potere, secondo logiche di lotte interne, dei convenzionali “puri e duri”: proprio costoro distrussero l’opera babuviana.

 

  1. Nel Dizionario storico della Rivoluzione francese, pubblicato da Jean Tulard, Jean-François Fayard e Alfred Fierro (trad. it., Ponte alle Grazie, Firenze 1989), alla voce Reazione termidoriana, si legge: “Questa denominazione è del tutto aberrante ed è stata inventata dagli storici favorevoli al terrore. Alla caduta di Robespierre non vi fu nessuna “reazione”. Il potere restò nelle mani di regicidi, repubblicani, ex terroristi che si limitarono a porre fine alle esecuzioni in massa del Gran Terrore. La ghigliottina continuò a funzionare, solo con minore frequenza, le teste dei sostenitori di Robespierre caddero, ma continuarono a cadere anche quelle dei preti refrattari e dei fautori della monarchia. La linea politica dei Termidoriani corrisponde al sogno di Danton: una repubblica rigorosa ma moderatamente repressiva. La presenza della gioventù dorata, chiassosa ma priva di potere politico, non è sufficiente per trasformare i Termidoriani in reazionari che volevano restaurare la monarchia” (p. 841). È d’accordo con questa definizione, che può aggiungere informazioni interessanti proprio sul “dopo Terrore“?

 

  1. Gli autori hanno perfettamente ragione: perché i termidoriani hanno compiuto il loro colpo di Stato contro Maximilien Robespierre? Per ragioni molto semplici: in un suo famoso discorso, egli fu tanto vago in merito all’identità dei suoi oppositori che tutti iniziarono a preoccuparsi. Anche i suoi colleghi convenzionali ebbero paura di ritrovarsi, prima o poi, sotto la lama della ghigliottina, dato che Maximilien Robespierre, desideroso di “rigenerare” il popolo francese, aveva deciso d’iniziare proprio “rigenerando” la Convenzione. Codesta “reazione” ha avuto come unico scopo quello di “salvare la pelle” di alcuni convenzionali, che non si allontanarono affatto dal governo: questo farà ritornare al potere elementi più radicali, e causerà la ripresa di tutte le rigide misure di repressione.

 

  1. Oltre le ragioni politiche oggettive che hanno permesso a Gracchus Babeuf di pubblicare il suo testo accusatorio, quali sono le motivazioni d’ordine soggettivo che lo hanno spinto a scrivere? Gracchus Babeuf non era certo un contro-rivoluzionario, eppure offre strumenti per una critica seria e radicale alla Rivoluzione francese…

 

  1. Egli lo spiega perfettamente: infatti, questo autore populista fu spinto a scrivere da tre ragioni. La prima è che si considerava un democratico, per il quale è inaccettabile il fatto che il popolo sovrano stermini… la popolazione, o una parte di essa. In secondo luogo, per via dei mezzi stessi che furono impiegati per il genocidio: mezzi barbari e terroristici, che egli non potè accettare. Infine, per terzo, Gracchus Babeuf era convinto che il cambiamento della società dovesse avvenire gradualmente e non per mezzo della violenza.

 

  1. Qual è il contenuto del suo Juifs et Vendéens. D’un génocide à l’autre. La manipulation de la mémoire?

 

  1. Il mio Il genocidio vandeano fu un’opera di ricostruzione degli avvenimenti, non di filosofia o di scienza politica. Ossia, in essa ho spiegato i fatti così come si sono svolti. La sua pubblicazione ha generato un certo numero di critiche che mi hanno posto interrogativi nuovi, del tipo: “Come si è giunti a tale manipolazione della memoria storica? Quali sono, poi, le conclusioni che si possono trarre dalla risposta a questa domanda?”. Da qui la necessità – in rapporto a un fatto ben preciso come quello dello sterminio degli ebrei – di spiegare quanto è successo in Vandea. In altre parole, sono partito dalla riflessione sull’accaduto in Vandea per spiegare quanto è accaduto agli ebrei, soprattutto sul tema della revisione e della manipolazione della storia.

 

In occasione del processo contro Jean-Baptiste Carrier, celebrato nel periodo termidoriano dal 25 vendemmiaio al 26 frimaio dell’anno III – dal 16 ottobre al 16 dicembre 1794 -, molti responsabili vennero riconosciuti colpevoli e quindi giustiziati. Un anno più tardi, Louis Marie Turreau de Garambouville si ritrovò davanti allo stesso tribunale, con le stesse imputazioni. Ma il verdetto mutò: si stabilì che il generale era assolutamente colpevole dei suoi crimini, ma non responsabile in quanto esecutore di ordini. Egli venne graziato, insieme a tutti gli altri uomini politici coinvolti. La memoria storica si conservò, dunque, fino alla caduta di re Carlo X, durante la “rivoluzione di luglio” del 1830. Dopo di lui salì al potere il “re repubblicano” filo-rivoluzionario Luigi Filippo I – che regnò fino al 1848 -, figlio di Luigi Filippo Giuseppe, duca d’Orléans, noto come Philippe Egalité, che aveva votato a favore dell’esecuzione capitale di suo cugino, re Luigi XVI. Il regno di Luigi Filippo I fu l’inizio della negazione e della manipolazione della memoria, anche perché i testimoni oculari erano quasi totalmente scomparsi all’epoca. Alcuni storici vennero appositamente pagati al fine di riscrivere la storia e creare il “mito” della Rivoluzione: fra altri, il “grande revisionista” Jules Michelet, autore, fra il 1847 e il 1852, di una Histoire de la Révolution française. Jules Michelet è il maestro di tutte le scuole storiografiche ideologiche successive.

 

Verso il 1850 si negò la concia delle pelli umane, ma, dopo ricerche storiche in loco, vennero ritrovati ancora testimoni viventi, benché molto anziani. Anche a livello popolare, quando, verso la fine del secolo scorso, la “storiografia ufficiale” mise in dubbio gli annegamenti collettivi praticati nel 1794, i discendenti dei vandeani reagirono scrivendo numerose lettere di protesta ai giornali. Ho ritrovato tutte queste testimonianze e le ho raccolte nel mio studio… Inoltre, mi sono reso conto che anche un certo numero di storici del secolo XIX ebbe perfettamente coscienza della manipolazione: in particolare il grande Hyppolite-Adolphe Taine che, nell’opera monumentale Les origines de la France contemporaine, scritta dal 1873 al 1893, denunciò in modo molto serio e scientifico la manipolazione della storia, soprattutto relativamente alla Rivoluzione francese.

 

La “cattedra della Rivoluzione francese”, che venne creata alla Sorbona, è erede di questa “revisione” della storia. Si pensi ai lavori dello storico contemporaneo Michel Vovelle, uomo del Partito Comunista Francese.

 

  1. Lei è anche autore di testi utilizzati per albi a fumetti e per video-cassette sulle guerre dell’Occidente francese e sulla storia della Bretagna, oltreché di un romanzo storico sul genocidio vandeano. È un tentativo per riproporre la verità storica ai giovani e agli studenti, oltre gli stereotipi della cultura e della programmazione scolastica ufficiali, adottando mezzi di uso popolare?

 

R. Quando uscì Il genocidio vandeano – un’opera per specialisti, che avrebbe rischiato di rimanere stipata nei magazzini della Sorbona… – vi è stata molta sorpresa da parte del pubblico. Ricevetti un certo numero di lettere e incontrai di persona anche gente convinta che tale ricerca sarebbe rimasta confinata ai tecnici. Mi è stato così chiesto di trovare materiali e metodi per volgarizzare e “democratizzare” i miei lavori. Ho riflettuto, dunque, in cerca dei migliori mezzi di comunicazione attuali. È risaputo che il libro – particolarmente quello scientifico – viene letto sempre meno; da qui l’idea di creare fumetti e video-cassette sulle guerre nella Francia Occidentale e sul genocidio vandeano, dato che il fumetto è un genere letto dai giovani e la video-cassetta è, per sua natura, accessibile al grande pubblico. Ho realizzato il romanzo “Les Vire-Couettes” per una sorta di diletto personale, in quanto adoro scrivere e desideravo narrare la storia di un sacerdote vandeano – don Pierre-Marie Robin di La Chapelle-Basse-Mer -, del quale avevo ritrovato tutti gli scritti. Nello stesso tempo questo romanzo poteva anche rispondere al medesimo intento di diffusione della conoscenza.

 

  1. In Italia, paese nel quale non esiste una tradizione seria di pubblicazioni sulla Vandea, è stato tradotta l’opera di Jean-Clément Martin, I Bianchi e i Blu. Realtà e mito della Vandea nella Francia rivoluzionaria (Società Editrice Internazionale, Torino 1989), nella quale si contestano certe cifre relative al genocidio vandeano proposte da Pierre Chaunu e da lei (cfr. pp. 272-276). Jean-Clément Martin cita, inoltre, La guerra di Vandea e il Sistema di spopolamento di Gracchus Babeuf, un “opuscolo dal titolo significativo” (p. 228), del quale, peraltro, non tiene conto in merito alla rilevanza delle gravi accuse in esso contenute…

 

  1. Jean-Clément Martin è un docente universitario che si considera figlio spirituale della scuola di autori come Albert Mathiez, Albert Soboul e Michel Vovelle, ossia di quanti hanno un approccio esclusivamente ideologico rispetto alla Rivoluzione francese: scrivendo in quest’ottica, gli è impossibile riconoscere la realtà dei fatti accaduti in Vandea, perché, se lo facesse, tutti i lavori degli storici citati verrebbero annullati insieme ai suoi. E – non dimentichiamolo -, in quanto membro di quel mondo universitario che ho descritto, Jean-Clément Martin agisce per ragioni di propaganda.

 

  1. Il mondo della cultura ufficiale francese, trascorsi ormai alcuni anni dalla pubblicazione delle sue ricerche, ha ora accettato il fatto che, duecento anni fa, per la Vandea si pensò, si votò, si organizzò e si attuò un vero genocidio?

 

  1. Al momento attuale la quasi totalità del mondo culturale, universitario e politico, ha accettato l’impiego del termine “genocidio”. Effettivamente restano, comunque, alcune resistenze da parte di quanti si sono resi complici nel truccare la storia: costoro non possono e non vogliono riconoscere i fatti, perché ciò significherebbe ammettere di aver mentito. Per gli eredi della “scuola storiografica ufficiale”, ossia la scuola marxista, si tratterebbe di rimettere in discussione tutti i propri scritti…

 

  1. Dopo la fine del “mito” della Rivoluzione bolscevica russa del 1917, si è assistito a una sostanziale ripresa – soprattutto a partire dal bicentenario nel 1989 – del “mito” del 1789 francese, sebbene ci si premuri di separarlo subito dal biennio terroristico 1792-1793. Se quest’ultimo viene assimilato allo stalinismo più “oscurantista”, il 1789 e i suoi immortali “princìpi” vengono descritti come la vera anima “luminosa” della Rivoluzione. Cosa pensa di questo atteggiamento ideologico-culturale?

 

  1. È molto difficile dare una risposta. Infatti, è indiscutibile, e nessuno storico lo può negare, che la società francese immediatamente precedente il 1789 è una “società bloccata”. Se si analizzano gli avvenimenti storici, ci si persuade che un uomo come re Luigi XVI di Borbone, quando salì al trono nel 1774, ebbe perfettamente coscienza della situazione sociale chiusa nella quale si trovava. Così propose un certo numero di riforme che vennero rifiutate da un contro-potere reale, in particolare dalla Nobiltà. Le prime misure adottate, nel 1789, dai rivoluzionari sono del resto le stesse misure correttive proposte da re Luigi XVI. Allora la Rivoluzione francese del 1789 non appare subito “rivoluzionaria” nel senso che le si è voluto dare dopo: ossia, essa non fu immediatamente una rottura ideologica con il passato, ma corrispose a un certo numero di bisogni sociali e di necessità reali già avvertite dal re. La rottura con il mondo precedente giunse quando gli ideologi riuscirono a imprimere le proprie idee nel cuore della Rivoluzione. Esistevano più correnti: nel momento in cui prevalse quella ideologica, la Rivoluzione francese s’incamminò in questa direzione e non più in quella esclusivamente amministrativa e politica.

 

  1. Si può dire che, come sempre, anche nel 1789 francese la Rivoluzione si è servita, per ottenere i suoi scopi, di bisogni reali e di contraddizioni esistenti nella realtà sociale dell’epoca e che, invece di porvi rimedio, essa ha utilizzato e strumentalizzato in modo sovversivo e ideologico tutto questo?

 

  1. Assolutamente sì: in Francia vi erano problemi evidenti a causa delle strutture sociali che risalivano alla fine del Medioevo. Il mondo era cambiato e la politica sociale non corrispondeva più alla realtà dei fatti: si sentiva il bisogno di uno sviluppo, uno sviluppo che è comunque puramente formale. Il problema fu che i “Lumi” proposero un approccio del tutto nuovo nei confronti dell’uomo e della società. Gli ideologi approfittarono dei problemi spirituali e dei problemi sociali concreti per andare molto più lontano della loro semplice soluzione. L’esempio della Vandea è chiarissimo: la gente fu inizialmente favorevole alla ristrutturazione, dato che le riforme erano necessarie. Ma il giorno in cui il dibattito da politico si trasformò in ideologico, avvenne la frattura insanabile. Il simbolo di questa frattura fu l’esecuzione del re di Francia, il 21 gennaio 1793: non si trattò solo dell’esecuzione di Luigi XVI o dell’esecuzione di un re, ma della figura del monarca in quanto tale, di tutta una simbologia, di tutta una concezione della società. Tale esecuzione segnò la rottura filosofica, culturale e sociale che divise per sempre il “mondo di prima” dal “mondo di poi”. I convenzionali avevano coscienza di tutto questo: quando si leggono le deliberazioni del processo istruito contro re Luigi XVI, si trova il tale convenzionale che bene spiega la forte necessità di giustiziare il re, perché con lui si sarebbe giustiziata una concezione della società. Nacque quell’espressione terribile: “Il suo sangue servirà a far fruttificare l’albero nuovo”.

 

  1. Tale visione ricorda da vicino quella del pensatore irlandese Edmund Burke, da lei spesso seguito nell’analisi dei significati della Rivoluzione…

 

  1. Edmund Burke scrisse il suo famoso Reflections on the French Revolution nel 1790, ossia ben prima degli avvenimenti del periodo del Terrore. Egli distinse molto bene la necessità dell’evoluzione della società francese dai pericoli e dagli eccessi che si sarebbero potuti generare, dato il subbuglio e la confusione del momento. Infatti, gli eccessi erano del tutto possibili, considerando la trama delle riflessioni condotte durante il “secolo dei Lumi”. La storia gli ha dato ragione, dal momento che egli aveva perfettamente previsto che la Rivoluzione francese sarebbe sfociata in quello che fu il Terrore, i bagni di sangue, e così via, e tutto ciò per mezzo di un generale – come egli bene illustrò – che avrebbe imposto una tirannide. Ciò significa che tutto era prevedibile per un filosofo o uno specialista…

 

  1. Nelle sue conferenze lei definisce il concetto nuovo di diritto e di legge sorto con la Rivoluzione francese nei termini di una “rivoluzione nel cuore della rivoluzione”…

 

R. Per spiegare quest’affermazione mi servo di un esempio. Durante l’Ancien Régime, la Francia era suddivisa in province, ognuna delle quali relativamente autonoma, con statuti giuridici diversi, animate da costumi dissimili; anche la lingua non era per tutti il francese, ma ne esistevano di locali. Con la Rivoluzione francese si decise di creare uno Stato unitario e indivisibile, fondato sulla creazione di una nuova Legge pensata, definita e approvata da una minoranza della popolazione, i parlamentari dell’Assemblea Nazionale. Ora, questa Legge – anch’essa unitaria e indivisibile – fu un fatto completamente nuovo: la negazione stessa della democrazia fondamentale. L’esempio specifico della lingua mostra che chi non parlava il francese imposto dal governo – nella Francia Occidentale, al tempo, questa lingua era parlata da un’esigua minoranza -, diveniva immediatamente “fuori-legge”: la negazione della propria lingua impedì presto la trasmissione di un patrimonio culturale quasi fissato “geneticamente” in chi viveva nelle comunità reali, presto emarginate. In Italia, per esempio, si produsse lo stesso fenomeno, a livello giuridico e linguistico, con il Risorgimento. Eppure nessuno storico evidenzia questi fatti, perfettamente chiari.

 

  1. La legge del 4 agosto 1789, che mise fine ai “privilegi” in Francia, viene normalmente salutata come la liberazione dai “vincoli feudali” e dalla “schiavitù” delle disparità. Tale legge rappresentò forse uno dei passi più decisivi e importanti nel corso del processo rivoluzionario, in vista della costruzione di un diritto, di una società e di uno Stato nuovi. Eppure, nel mondo precedente la Rivoluzione, “privilegio” ebbe anche altri significati giuridici ben più rilevanti e positivi…

 

  1. “Privilegio” deriva il suo senso originario dall’espressione privata lege, ossia “secondo il diritto privato”. Vi erano corporazioni, Comuni e province dotati di statuti propri, “privati”. La legge del 4 agosto venne votata durante una “nottata dal significato globale”: si soppresse universalmente tutto il mondo giuridico particolare, una soppressione funzionale e necessaria alla creazione del nuovo concetto di Legge. Allo stesso modo si soppressero, poi, le leggi che animavano le corporazioni e i diversi ordini professionali e sociali. Gli statuti particolari vennero omologati: tutto questo creò grandi problemi nella Francia intera, per esempio in Bretagna, dove si pagavano le imposte in ragione di due volte meno della media nazionale. Tutto questo ordine plurisecolare scomparve in pochi minuti: si può ben immaginare la delusione e la rabbia.

 

  1. In occasione delle celebrazioni per il bicentenario nel 1989, non vi furono commemorazioni dei fatti di Vandea…

 

  1. Nel 1989, in quanto studioso e insegnante, domandai, con una lettera, a Jack Lang, allora ministro della cultura, incaricato dell’organizzazione e della supervisione delle celebrazioni del bicentenario, una ridiscussione del tema della Vandea, anche mediante la promozione di simposi scientifici sul tema. Mi si rispose negativamente. Nulla verrà fatto, anche in occasione delle ricorrenze bicentenarie del 1793 e del 1794, a livello ufficiale: avremo commemorazioni locali private, non segnate ideologicamente, né tantomeno politicamente, prive di sentimenti di rivalsa. Si tratterà solamentedi ricordare in modo anche sereno l’accaduto. Concretamente, erigeremo monumenti alla memoria, moltiplicando gli scritti sul tema. Fuori dei confini regionali, tutto ciò avrà grande rilevanza, perché la coscienza di quanto si abbattè sulla Vandea potrà insegnare – anche per quanto riguarda altri episodi storici – a evitare le insidie e i pericoli della revisione artificiale e della manipolazione della memoria – che chiamo “memoricidio” -, sperando che tale riflessione eviti la manomissione di fatti più recenti e sperando pure che essa impedisca all’uomo di commettere i medesimi errori.

 

  1. I vandeani di oggi hanno coscienza dei fatti accaduti duecento anni fa e del loro retaggio storico, culturale e religioso?

 

  1. Anche di ciò tratto in qualche modo nel mio Juifs et Vendéens. D’un génocide à l’autre. La manipulation de la mémoire. Il comportamento della Vandea Militare è un comportamento culturale, educativo, sociale, economico e religioso, oltreché relativo a quanto riguarda propriamente il clero, molto differente dal comportamento del resto della popolazione francese. Si tratta di una regione rimasta legata alla tradizione, dove il senso e la realtà della famiglia sono importanti, dove i sacerdoti hanno una loro funzione specifica e rilevante, dove la fede è relativamente forte e dove si hanno le più importanti concentrazioni di imprese private del territorio nazionale. Dunque, una regione con un suo comportamento specifico. Circa quest’ultimo dato, non si può istituire un rapporto di causa-effetto forzato fra lo sterminio e l’indipendenza economica della regione, ma si può certamente constatare un dato reale: i vandeani hanno dovuto imparare a “sbrigarsela da soli” per quanto riguarda l’economia, dato che erano stati completamente annientati anche sotto questo aspetto. Dunque, essi si sono battuti, dotandosi dei mezzi appropriati per tale combattimento a partire dalla famiglia e dalla religione, per quanto riguarda le motivazioni e le giustificazioni d’ordine filosofico, intellettuale e morale. Per quanto riguarda la coscienza dei fatti di due secoli fa, essa è stata certamente tramandata nelle famiglie di generazione in generazione, senza che peraltro i vandeani avessero la lucida consapevolezza dell’entità e della portata dello sterminio, non essendo noti tutti i documenti e le fonti originali del piano genocida. Ora che tale consapevolezza è stata indotta, certamente i vandeani – da una decina d’anni circa – hanno una coscienza più netta dell’accaduto: spettacoli come la colossale ricostruzione della guerra civile nella Vandea, che si tiene nei mesi estivi al castello di Puy-du-Fou, a Les Espesses, lo testimoniano. Poi, la venuta dello scrittore russo Aleksandr Isaevic Solzenicyn ha segnato un grande passo in avanti per quanto riguarda la presa di coscienza del significato globale del genocidio, tanto in Vandea, quanto nell’intera Francia.

 

  1. Dopo questo bicentenario vandeano, come vede il futuro della memoria storica?

 

R. Il ricordo che celebriamo oggi permetterà alla memoria di venire trasmessa oltre la presente generazione. A livello concreto mi è stato chiesto di presiedere un’associazione privata – Mémoire du Futur de l’Europe -, che sta raccogliendo fondi per ricostruire una piccola cappella di campagna in stile gotico fiammeggiante, del secolo XV, nel villaggio di La Chapelle-Basse-Mer, intitolata a Saint-Pierre-aux-Liens, oggi in rovina. Essa, una volta restaurata, diverrà un mausoleo a ricordo delle distruzioni rivoluzionarie e delle circa duemila vittime – quelle conosciute – del cantone di Loroux Bottreau, sterminate dai rivoluzionari, simbolo di tutti i caduti della Vandea Militare e della Bretagna. Vorremmo anche riportarne i nomi e procedere, possibilmente nei pressi della cappella, all’allestimento di un museo. All’interno verrà eretta una statua di donna vandeana inginocchiata, un sacro cuore cucito sulla veste, un rosario alla cintura, il fucile e la spada adagiati a terra. Essa ha un bimbo nelle braccia e lo solleva in alto: donne e bambini erano, infatti, le vittime preferite dalla repressione. Tale scena vuole significare la trasmissione della memoria e ricordare Maria Santissima e il Bambino Gesù. La frase che abbiamo posto sul modulo per la richiesta di fondi è: “Senza voi e senza la Provvidenza nulla è possibile!”.

 

  1. Nelle sue pubblicazioni e nei suoi interventi pubblici, lei sostiene che per porre termine al “memoricidio” occorre combattere una battaglia culturale…

 

  1. A partire dall’esperienza della Vandea si scopre un concetto nuovo: oltre la tragicità dei fatti, per ragioni diverse, ma sostanzialmente politiche e ideologiche, si può essere portati a relativizzare, a truccare, a negare, oppure, per lo meno, a non parlare più di un avvenimento di primaria importanza. Tutto mostra una certa fragilità: perciò bisogna dotarsi delle armi adeguate per fare in modo che i fatti vengano trasmessi in tutta la loro originalità e integralità. Non, ovviamente, per un amore ai fatti fine a sé stesso, ma per far tesoro dell’esperienza passata come spunto di riflessione. La cultura, come supporto globale dell’universo umano, dovrà lavorare in tal senso. La battaglia culturale è la battaglia fondamentale, la battaglia di oggi e di domani.

 

a cura di
Marco Respinti

 

 

Fonte: visto su http://davidbotti.tripod.com/

Link: http://davidbotti.tripod.com/c224_a02.htm

 

 

 


SREBRENICA: GENOCIDIO O PROPAGANDA?

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Srebrenica

Una foto datato del 24 luglio 1996, ricercatori internazionali del tribunale di crimini di guerra esamina una tomba di massa in Srebrenica.

 

 

De-Construct

 

IL ‘GENOCIDIO DI SREBRENICA’ È UNA BUFALA?

 

Aleksandar Pavic WorldNetDaily

  

4 maggio 2007

 

Per più di 10 anni, il termine “Srebrenica” è stato usato per indicare il massacro di “musulmani innocenti” per mano di cristiani, specificamente dall’esercito serbo-bosniaco, secondo cui si presume siano stati massacrati, secondo la versione attualmente accettata dalla maggior parte dei principali media, “tra 7.000 e 8.000 musulmani” quando presero quel paesino nella Bosnia orientale, a metà del luglio 1995. Secondo la leggenda, i serbi di Bosnia catturarono questa “zona protetta dall’ONU” e  procedettero a deportare e giustiziare migliaia di uomini, donne e bambini nel giro di pochi giorni, per poi seppellirli nelle fosse comuni, che sono ancora ricercate dopo quasi 12 anni.

 

1. Numeri truccati

Lo storico e ricercatore di Belgrado Milivoje Ivanisevic, che ha documentato le vittime della guerra civile jugoslava per più di un decennio, ha recentemente contestato le rivendicazioni in un nuovo opuscolo, “La carta d’identità di Srebrenica“, che documenta che centinaia dei corpi sepolti nel Srebrenica Memorial non furono uccisi nel luglio 1995, quando il presunto genocidio avrebbe avuto luogo, ma che si trattava di persone decedute di morte naturale ben 13 anni prima che gli eventi avessero avuto luogo. L’ultima prova offerta da Ivanisevic indica che il numero di coloro che sono sepolti presso il Complesso Memoriale di Srebrenica, non solo non sono stati uccisi nel luglio del 1995, ma in realtà sono morti molto prima, perfino nei primi anni ’80, più di 10 anni prima che iniziasse la guerra civile in Jugoslavia.

 

2. I morti votano

Secondo Ivanisevic, a partire dal marzo 2007, più di 12 anni dopo l’evento, un totale di 2.442 corpi vennero sepolti al Memorial. Tra questi, un 914, oltre il 37 per cento, erano sulle liste elettorali delle elezioni del 1996 in Bosnia, tenutesi un anno dopo il presunto “genocidio”. Le liste elettorali furono approvate e controllate dall’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa [OSCE], che curò le elezioni.

 

3. I musulmani “massacrati” sono morti di cause naturali

Una seconda scoperta ancora più significativa, indicava il fatto che “almeno 100 persone” sepolte nel Memoriale sono morte per cause naturali. Ivanisevic afferma che i numeri sarebbero ancora più alti se gli fosse stato consentito l’accesso ai registri anagrafici di Srebrenica e delle città circostanti. Tuttavia, tra i diversi nomi, con date di nascita, morte e luogo di morte, vi sono: Fetahija (Nazif) Hasanovic, n. 1955 – m. 15 dicembre 1996, Srebrenica, Sukrija (Amil) Smajlovic, n.1946 – m. 2 maggio 1996, Zaluzje; Maho (Suljo) Rizvanovic, n.1953 – m. 3 gennaio 1993, Glogova; Mefail (Meho) Demirovic, n.1970 – m. 10 maggio 1992, Krasanovici; Redzic (Ahmet) Asim, n.1949 – m. 22 aprile 1992, Bratunac.

 

4. Presunte “vittime di Srebrenica” uccise prima di Srebrenica

In terzo luogo, Ivanisevic afferma che diverse centinaia di soldati e civili sono stati trasferiti al Memorial di Srebrenica da altri cimiteri e riseppelliti con rituali musulmani. Uno di questi è il corpo di Hamed (Hamid) Halilovic, trasferito dal vicino cimitero di Kazani, che a quanto pare è morto ben 13 anni prima del “genocidio” di Srebrenica. Altri corpi trasferiti da Kazani al Memoriale di Srebrenica comprendono quelli di Osman (Ibro) Halilovic, Nurija (Smajo) Memisevic, Salih (Saban) Alic, Mujo (Hasim) Hadzic, Ferid (Ramo) Mustafic e Hajrudin (Ismet) Cvrk. In quarto luogo, utilizzando registri catturati all’esercito musulmano-bosniaco, Ivanisevic elenca più di una dozzina di nomi di soldati alle cui famiglie furono concessi alloggio e servizi sociali dovuti ai familiari dei soldati uccisi in azione prima dell’11 novembre 1993, quando i documenti vennero catturati dall’esercito serbo-bosniaci. In quinto luogo, sulla base dei documenti acquisiti nello stesso modo, Ivanisevic fornisce i nomi di decine di combattenti dell’esercito musulmano-bosniaco uccisi prima del 7 marzo 1994.

 

5. I macellai della Jihad camuffati da vittime innocenti

Ivanisevic continua a fornire i nomi dei soldati bosniaci musulmani sepolti presso il Memoriale di Srebrenica implicati in numerosi massacri di civili serbi nella zona vicina, in cui vennero uccisi oltre 3.000 serbi. È interessante notare che il comandante della forze dell’esercito bosniaco a Srebrenica, Naser Oric, fu condannato a due anni dal Tribunale penale internazionale per la Jugoslavia, o ICTY, nel giugno 2006 per la sua partecipazione a questi omicidi, alcuni dei quali ripresi in video e diffusi dal giornalista del Washington Post John Pomfret, che lo incontrò nella “zona di sicurezza delle Nazioni Unite” nel 1994. [Bill Schiller sul Toronto Star del Canada]

 

Il Dipartimento di Stato della Clinton, ancora in carica, condivide il mito

Negli anni ’90, l’amministrazione Clinton ha utilizzato il preteso “genocidio di Srebrenica” per intervenire nella guerra civile bosniaca dalla parte dei musulmani bosniaci e applicare il successivo accordo di pace di Dayton per la Bosnia-Erzegovina, nel novembre 1995, con il riconoscimento reciproco tra Jugoslavia (ora Serbia), Croazia e Bosnia. Più in generale, la burocrazia del Dipartimento di Stato della Clinton ha utilizzato il “genocidio di Srebrenica”, come da allora è stato definito a seguito delle controverse sentenze pronunciate dal Tribunale Penale Internazionale per la Jugoslavia a L’Aia, per giustificare il suo sostegno ai movimenti politici musulmani non solo in Bosnia, ma in Macedonia e nella regione del Kosovo della Serbia, che attualmente cerca l’indipendenza. E poiché la maggior parte degli indirizzi della Clinton è affidata al Sottosegretario di Stato per gli affari politici Nicholas Burns, che continua l’esecuzione della strategia degli Stati Uniti nei Balcani, la sua azione politica è rimasta tale fino ad oggi.
Così, anche se l’indipendenza albanese del Kosovo è pesantemente sostenuta dagli Stati Uniti, dagli inglesi e dai tedeschi, ai serbo-bosniaci, infelici per la prospettiva di rimanere chiusi dentro una Bosnia a maggioranza musulmana, è stata negata l’indipendenza, grazie al “genocidio di Srebrenica” utilizzato come argomento principale, vale a dire che i vantaggi della guerra conseguiti attraverso il “genocidio” non possono essere sanzionati. Molti osservatori, tra cui una recente analisi del Bollettino G2, collega il sostegno occidentale dei musulmani nei Balcani a spese dei cristiani, nel quadro di una più ampia politica per placare i regimi “moderati” sunniti in Medio Oriente, nell’ambito di una coalizione anti-iraniana.

 

Srebrenica trasformata in un santuario per la Jihad

Tra gli elementi radicali bosniaci musulmani, il racconto di Srebrenica è stato utilizzato non solo per ottenere il sostegno alla causa generale della jihad, suscitando il sentimento tra i musulmani di essere oppressi e perseguitati dai non-musulmani, ma per costruire ciò che alcuni chiamano il “primo santuario musulmano in Europa”, un luogo di ritrovo per i musulmani di tutto il mondo con intenzioni anti-occidentali, anti-europee e anti-cristiane. Il complesso del memoriale di Srebrenica ora serve come luogo di pellegrinaggio dove i musulmani possano vedere, in prima persona, i risultati di quello che credono essere un’atrocità senza precedenti contro i loro compagni di fede.

 

I mass media occidentali perpetuano il mito

L’intero racconto di Srebrenica è stato supportato fondamentalmente dai media mainstream occidentali, con in testa New York Times, Washington Post, Los Angeles Times, Wall Street Journal e i principali media britannici, tedeschi e francesi, che hanno collegato le notizie dai Balcani, nel corso degli anni, con riferimenti al “genocidio di Srebrenica” definendolo, tra le altre cose, “la peggiore atrocità in Europa dalla seconda guerra mondiale“, e “macchia sulla coscienza dell’Occidente“, ecc. Fin dall’inizio, numerose voci di dissenso, sia in occidente che in ex-Jugoslavia, hanno contestato sia i mass media occidentali, sia le accuse e le sentenze dell’ICTY connesse a Srebrenica, ma non hanno ricevuto quasi nessuna pubblicità di sorta.

 

Il Gruppo di Ricerca su Srebrenica demistifica la menzogna

Nell’estate del 2005, nel 10° anniversario della manifestazione, il “Gruppo di Ricerca su Srebrenica” composto in gran parte de figure accademiche e mediatiche anglo-statunitensi e, così come gli ex funzionari civili ed osservatori militari delle Nazioni Unite, con esperienza sull’ex-Jugoslavia, creò  un sito web in cui l’intera storia del “massacro di Srebrenica” è stata riconsiderata e demistificata. Invece sul dato di 7-8000, i funzionari delle Nazioni Unite e gli esperti del Congresso degli Stati Uniti parlano di “700-800″, “poche centinaia”, “un totale di circa 2.000 musulmani e serbi”, ecc. Henry Wieland, capo della Commissione per i diritti umani delle Nazioni Unite, che ha passato diversi giorni ad intervistare i profughi di Srebrenica nel luglio 1995, avrebbe detto che non aveva trovato “nessuno che avesse visto con i propri occhi una qualsiasi atrocità.”

 

I risultati e i verdetti forensi dell’ICTY contestati

I risultati forensi vennero richiamati all’ordine e venne affermato che l’intero processo di scavo e identificazione dei corpi era stato controllato da un’organizzazione fondata dal defunto leader islamico bosniaco Alija Izetbegovic. E un professore canadese di diritto internazionale smontò i verdetti del ICTY su Srebrenica, dimostrando, tra le altre cose, che il generale serbo-bosniaco Radoslav Krstic, condannato a 46 anni, è stato, nel verdetto del tribunale, assolto dalla partecipazione o anche dalla conoscenza del massacro, invece di essere condannato in base alla ricostruzione dell’ICTY della sua “responsabilità di comandante”.
Il testimone dell’accusa, Drazen Erdemovic, un croato bosniaco che misteriosamente apparve nelle file dell’esercito serbo-bosniaco dopo aver precedentemente combattuto nei ranghi dell’esercito musulmano bosniaco, che sostenne di aver partecipato al massacro di 1.200 musulmani a Srebrenica, venne esentato dal contro-interrogatorio perché ritenuto dalla stessa corte “mentalmente instabile” e, in definitiva, ebbe una condanna a cinque anni per la sua “cooperazione”. Eppure, i media, senza eccezioni, hanno ignorato i risultati del gruppo, anche quelli che citano i rapporti degli stessi media presenti sul terreno in quel momento.

 

Istituto olandese: Srebrenica era un rifugio sicuro per diverse migliaia di armati musulmani bosniaci che devastavano i villaggi serbi nei dintorni

L’Istituto olandese per la documentazione di guerra ha pubblicato un ampio rapporto, nel 2002: “Srebrenica, uno spazio ‘sicuro’“, che dettaglia tra le altre cose che Srebrenica, anche se dichiarata “zona di sicurezza delle Nazioni Unite“, in realtà non è stata mai smilitarizzata, e che molte migliaia di truppe musulmane bosniache vi erano di stanza, da dove organizzavano numerose incursioni letali contro i villaggi serbi nelle vicinanze. L’accusa è stata ulteriormente corroborata dalla relazione del segretario generale dell’ONU all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, del 15 novembre 1999. Il libro di Ivanisevic sarà presto tradotto in inglese.
Resta da vedere se i mass media occidentali aziendali continueranno ad ignorare questa e altre prove che sfatano l’affermazione che un “genocidio” anti-musulmano ha avuto luogo a Srebrenica, nel luglio del 1995. Alcuni personaggi pubblici nei Balcani hanno chiesto che una commissione internazionale su Srebrenica riesamini le prove e faccia una nuova valutazione più equilibrata e indipendente di ciò che accadde nella Bosnia orientale, durante le ultime fasi della guerra civile, nell’estate del 1995.

 

Traduzione di Alessandro Lattanzio SitoAurora

 

Fonte: visto su AURORA del 4 maggio 2007

Link: http://aurorasito.wordpress.com/2012/12/08/srebrenica-genocidio-o-propaganda/

 

TUTTO TORNA: SAI CHI HA INVENTATO L’EURO? NEL 1942 “QUALCUNO” PARLO’ DELLA NECESSITA’ DI UNA MONETA UNICA. INDOVINA CHI ERA

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1942. Terzo Reich. Il ministro dell’economia della Berlino nazista, Walter Funk, organizza una conferenza con economisti, politici e i vertici delle maggiori industrie. La questione sul tavolo è che uso fare dei territori conquistati e da conquistare. Albert Speer, l’allora ministro degli armamenti, suggerisce la necessità di coinvolgere le altre economie europee. Nasce un progetto dal nome inequivocabile: Europaische Wirtschaftgesellschaft. Che tradotto in italiano suona più o meno così: «Società economica europea». Un sistema di scambi commerciali, di trattati industriali basati sull’utilizzo di una sola moneta. Speer, durante gli interrogatori condotti dagli Alleati dopo la guerra, aveva dichiarato che per il nazismo il mero sfruttamento sarebbe stato insufficiente. «Meglio risollevare», aveva aggiunto, «singole economie e inserirle in un sistema tariffario unico per realizzare una produzione industriale su larga scala». Senza dazi, senza tariffe e con una sola valuta. Vi ricorda qualcosa? Tipo l’euro o la Cee?

La risposta nel corso degli anni è arrivata da molti complottisti, ma anche da lucidi politici. Nel 2002 Boris Johnson, quando era giornalista per lo Spectator e prima di diventare sindaco di Londra, scrisse un lungo editoriale per affiancare l’euro ad Adolf Hitler. «Oggi, per noi, la prospettiva di revanscismo tedesco sembra ridicola e le difficoltà di integrazione europea sembrano molto preoccupanti. Può essere vero che ciò ci turbi di più», ebbe a scrivere, «proprio per il fatto che non siamo stati conquistati da Hitler. Ma dire che l’euro non ha nulla a che fare con la guerra, o Hitler, è assurdo».

La frase -un po’ fortina – trae la sua origine da alcuni libri pubblicati nel decennio precedente. Uno di quelli che fece più scalpore è da attribuire allo storico John Laughland. The Tainted Source (La sorgente infetta), ovvero le origini antidemocratiche dell’idea europea.

Lo storico arriva a capovolgere la tradizione e cerca di dimostrare che il progetto di un’Europa unificata non è figlio del pensiero liberale, ma delle ideologie totalitarie. E che lungi dal rappresentare una conquista di libertà, il superamento della sovranità nazionale mina alle basi stesse dello Stato di diritto.

Ovviamente, l’idea dell’Europa comune targata Hitler sarebbe stata più che un’utopia irrealizzabile un incubo indescrivibile, il fatto è che, secondo alcuni storici, il progetto nato da quella terribile Conferenza del 1942 avrebbe poi dato ai padri fondatori della Cee una serie di spunti.

La guerra avrebbe insegnato a Jean Monnet e Jacques Delors come addomesticare il potere economico di Berlino. Non a caso i due padri fondatori si sono dimostrati così determinati nel costruire un progetto ampio, e creare la Comunità europea del carbone e dell’acciaio, alla quale in un certo senso Francia e Germania hanno ceduto la sovranità su due settori vitali per l’economia dell’epoca.

Che l’euro possa essere figlio di Hitler non è nulla di così eccezionale, se si pensa che una buona fetta della tecnologia nazista è poi stata riutilizzata dall’Occidente.

 

 

Fonte: visto su Il Grande Cocomero

Link: http://www.grandecocomero.com/euro-inventato-hitler/

 

MUSSOLINI E L’ODIO ALLA CHIESA

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O preti, non è lontano il tempo in cui cesserete di essere inutili e falsi apostoli di una religione bugiarda

 

Siamo agli inizi del Novecento, e un giovane maestro incomincia la sua carriera politica di passioni rapide e cangianti, e di inenarrabili odi. Suo padre, Alessandro, è un ruvido uomo di sinistra che vede nel socialismo “la scienza e l’excelsior che illumina il mondo”, “il libero amore che subentra al contratto legale”.

 

Scrive: “o preti, non è lontano il tempo in cui cesserete di essere inutili e falsi apostoli di una religione bugiarda e in cui, lasciando al passato la menzogna e l’oscurantismo, abbraccerete la verità e la ragione, e getterete la tonaca alla fiamma purificatrice del progresso”.

 

Anche il figlio di Alessandro è un amante del socialismo, del progresso, della “ragione”, contro l’oscurantismo dei credenti. Egli, nei suoi viaggi lontano dalla patria romagnola, arriva a Trento nel 1908, chiamato dal partito socialista locale, e subito viene onorato come grande oratore, “versato soprattutto in anticlericalismo”. Qui, nella città del Concilio, scaglia i suoi strali contro l’ “idra clericale”, in nome della “Redenzione umana”. Non crede in Dio, ma nell’avvenire dell’umanità, radioso e splendente.

 

Occorre solo eliminare i nemici, gli avversari, coloro che si oppongono al trionfo del bene, all’ “internazionalismo”, all’ “anti-religiosismo”, all’ “affratellamento dei popoli”.

Questi nemici sono la Chiesa, il militarismo, il “morbus sacer” del nazionalismo, l’ “Austria guerrafondaia”, guidata da un sovrano ridicolmente cattolico, e i militaristi germanici.

 

Declama, a testa alta: “I milioni che dovrebbero destinarsi al popolo, a sollevare il popolo, sono invece inghiottiti dall’esercito. Il militarismo! Ecco la mostruosa piovra dai mille viscidi tentacoli che succhiano senza tregua il sangue e le migliori energie del popolo”.

 

Per il giovane rivoluzionario a succhiare il sangue del popolo italiano c’è anche la Chiesa, “grande cadavere”, “lupa cruenta”, “covo di intolleranza”, e i suoi preti, “pipistrelli”, “sanguisughe”, “pallide ombre del medioevo”, “sudici cani rognosi”, che vogliono mantenere il popolo nell’ignoranza.

Le vicende di Galilei e di Giordano Bruno, scrive sempre con vigore il nostro giornalista, sono lì a dimostrare chi sono i nemici della ragione e del progresso. Eppure, prosegue, oggi Marx ci ha finalmente aperto gli occhi, ci ha rivelato che Dio non esiste, e con lui Darwin, che ha dato un grosso colpo alle teorie della Bibbia, tanto che “nessun altra dottrina ha avuto portata maggiore di quella del grande naturalista inglese”.

 

Mentre scrive, il giovane rivoluzionario si concede qualche scappatella, con donne che poi abbandona senza tanti scrupoli. “E’ vero che a Losanna – scrive – ebbi relazione con una divorziata, ma così per la carne, non per l’anima”.

E mentre frequenta svariate signore, e percorre i corridoi dei bordelli, scrive articoli intitolati “Meno figli, meno schiavi!” e definisce l’amore “una grandissima cosa: ma non è poi solo e non è tutto. E’ un mezzo per conservare la specie”, un artificio della natura solo per mantenere se stessa, come ogni buona dottrina materialista insegna.

Queste esperienze e queste convinzioni, non gli impediscono di spiegare ai suoi lettori che i sacerdoti sono sempre degli sporcaccioni, e come loro le suore. Esse, in particolare, sono il bersaglio preferito della pubblicistica socialista, cui il nostro appartiene: si racconta che nei “reclusori” le suore abbiano sempre tresche orrende con le detenute, e che siano delle crudeli violentatrici.

 

Nel romanzo Orkinzia, degli stessi anni, le “suore infami” fanno violenza “su fanciullette ignude, incatenate, con le braccia dietro la schiena”. I preti, poi, sono orride creature che passano “ributtanti malattie veneree” ai bambini, come “porci in veste talare che pullulano ogni giorno nelle cronache dei giornali come funghi schifosi ammorbanti l’umanità coi loro fetori”.

 

Per dimostrarlo il nostro racconta appena può, colorandoli il più possibile, gli atti immorali di qualche sacerdote, di qualche suora, di qualche catechista. “Lo so, aggiunge, che questo fa ciccare i ciarlatani neri, ma ne dovranno inghiottire molti altri di questi che sono per loro rospi vivi che guazzano nelle cloache massime e minime”. La verità, continua infine il nostro, è “che certi voti di castità non possono essere mantenuti senza forzare la natura umana”, che, come si è già detto, è solo animalità ed istinto. Così i preti sono degli ipocriti, perché proclamano una morale disumana, ma la tradiscono di continuo: anche andando a caccia, e cioè “uccidendo tante piccole esistenze create da Dio, se dobbiamo por fede alla Genesi”, e violando il sacro “pacifismo”.

 

Oltre ad articoli di giornale, il nostro scrive anche un romanzo, “Claudia Particella, l’amante del cardinale”, infarcito di violenze e turpitudini, adattissimi alla polemica anticlericale, e prende le difese degli ebrei, ingiustamente “martoriati e suppliziati”, ovviamente dalla Chiesa.

 

Ma chi è questo socialista difensore della purezza, della pace, della tolleranza, di Marx e Darwin, della scienza e del progresso, i cui pregiudizi e le cui calunnie sono ancor oggi condivisi da non pochi giornalisti ed intellettuali alla moda, esattamente un secolo dopo?

Per chi non lo avesse riconosciuto, il suo nome è Benito Mussolini.

 

- di Francesco Agnoli

 

 

Fonte: Il Foglio, 25 novembre 2010

Fonte: visto su Basta Bugie del 10 dicembre 2010

Link: http://www.bastabugie.it/it/articoli.php?id=1500

 

 

CRISTOFORO COLOMBO, IL GRANDE CRIMINALE

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Il Regno del Terrore di Colombo, come documentato da noti storici, fu così sanguinoso, il suo lascito così indicibilmente crudele.

Perché tutt’oggi continuiamo ad onorare questo criminale? Perché a scuola e nei libri di storia viene presentato come un eroe?

 

 

STERMINI VOLUTAMENTE DIMENTICATI

 

Ma se ci pensate, l’intero concetto della scoperta dell’America è, beh, arrogante. Dopo tutto, i nativi americani scoprirono il Nord America circa 14.000 anni prima che Colombo fu nato!

 

Sorprendentemente, la prova del DNA suggerisce ora che i coraggiosi avventurieri Polinesiani navigarono con delle piroghe attraverso il Pacifico e si stabilirono in America del Sud molto prima dei Vichinghi. In secondo luogo, Colombo non era un eroe. Quando mise piede sulla sabbia della spiaggia alle Bahamas il 12 Ottobre 1492, Cristoforo Colombo scoprì che le isole erano abitate da gente amichevole e pacifica che si chiamavano Lucayans, Taino e Arawak.

 

Scrivendo il suo diario, Colombo disse che erano un popolo affascinante, intelligente e gentile. Egli osservò che i gentili Arawak furono eccezionali nella loro ospitalità.

 

I NATIVI AMERICANI PACIFICI, SENZA PRIGIONI NE PRIGIONIERI !

 

Essi si offrivano di condividere con chiunque e quando si chiedeva qualcosa non dicevano mai di no”, diceva. Gli Arawak non possedevano armi; la loro società non aveva ne prigioni, né criminali né prigionieri. Erano così di buon cuore che Colombo annotava nel suo diario che il giorno in cui la Santa Maria naufragò, gli Arawak lavorarono per ore per salvare il suo carico e il suo equipaggio.

 

I nativi furono così onesti che nessuna cosa sparì.

Colombo fu così impressionato del duro lavoro di questi isolani gentili che confiscò immediatamente la loro terra per la Spagna e li ridusse in schiavitù per farli lavorare nelle sue brutali miniere d’oro.

In soli due anni, 125.000 (la metà della popolazione), degli originali indigeni dell’isola erano morti.

 

Se fossi un nativo americano, vorrei segnare il 12 ottobre nel mio calendario come il giorno nero. Incredibilmente, Colombo supervisionò la vendita di ragazze native ridotte in schiavitù sessuale. Le ragazze giovani di 9 e 10 anni erano le più desiderate dagli uomini. Nel 1500 Colombo ne scrisse casualmente sul suo diario.

 

E disse: “Un centinaio di castellanoes sono così facilmente ottenuti per una donna come per una fattoria ed è assai universale che ci siano molti commercianti che vanno in giro in cerca di ragazze, adesso c’è la richiesta di quelle da nove a dieci anni.” Egli forzò questi pacifici nativi a lavorare nelle sue miniere d’oro fino a quando non morivano di sfinimento.

 

MASSACRI E VIOLENZE SENZA FINE !

 

Se un “Indiano” non consegnava l’intera sua quota di polvere d’oro alla scadenza data da Colombo, i soldati avrebbero tagliato le mani dell’uomo e gliele avrebbero annodate saldamente attorno al collo per divulgare il messaggio. La schiavitù era così insopportabile per questi dolci e gentili isolani che ad un certo punto 100 di loro commisero un suicidio di massa.

 

Nel suo secondo viaggio nel Nuovo Mondo, Colombo portò con sé cannoni e cani da attacco. Se un nativo resisteva alla schiavitù, gli si sarebbe tagliato via il naso o un orecchio. Se gli schiavi cercavano di scappare Colombo li bruciava vivi.

 

Altre volte mandava cani d’assalto a dar loro la caccia, e i cani strappavano via braccia e gambe dei nativi urlanti mentre essi erano ancora vivi. Se gli spagnoli si trovavano a corto di carne per nutrire i propri cani, venivano uccisi bambini Arawak e usati come cibo per cani.

 

Uno degli uomini di Colombo, Bartolome De Las Casas, fu così mortificato dalle brutali atrocità di Colombo contro i popoli nativi, che smise di lavorare per Colombo e diventò un sacerdote Cattolico.

Egli descrisse come gli Spagnoli sotto il comando di Colombo “tagliavano le gambe dei bambini che correvano da loro, per testare l’affilatezza delle loro armi”.

 

STERMINI DI MASSA

 

In un sol giorno De Las Casas fu testimone oculare di come i soldati spagnoli smembrarono, decapitarono o violentarono 3000 persone native. “Tali disumanità e barbarie furono commesse ai miei occhi come nessun’altra età al confronto” scrisse De Las Casas. “I miei occhi hanno visto questi atti così estranei della natura umana che adesso Io tremo mentre scrivo.”

 

De Las Casas trascorse il resto della sua vita nel tentativo di proteggere il popolo nativo indifeso. Ma dopo un po non vi erano rimasti più nativi da proteggere. Gli esperti concordano sul fatto che prima del 1492 la popolazione dell’isola di Hispaniola probabilmente contava oltre 3 milioni di persone. Dopo 20 anni dall’arrivo degli spagnoli essa si ridusse a solo 60.000.

 

Nel 1516 lo storico spagnolo Peter Martyr scrisse:”…una nave senza ne bussola, ne carta o guida, ma solo seguendo la striscia degli indiani morti che erano gettati dalle navi, poteva trovare la strada dalle Bahamas a Hispaniola.”

 

A SCUOLA ERA UN EROE…

 

In realtà Colombo fu il primo mercante di schiavi delle Americhe. Quando gli schiavi indigeni morivano essi erano rimpiazzati con schiavi neri. Il figlio di Colombo diventò il primo trafficante di schivi africani nel 1505.

 

Sei sorpreso e non hai mai imparato nulla di tutto ciò a scuola?

 

Il regno del terrore di Colombo è uno dei capitoli più oscuri della nostra storia.

 

 

 

Fonte: srs di Ruggero Marino, visto su MorAsta del 3agosto 2014

Link: http://www.morasta.it/cristoforo-colombo-il-grande-criminale/

 

 

CONTROSTORIA DI SADDAM HUSSEIN E MUAMMAR GHEDDAFI

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Senza la minima volontà di “assolvere” o peggio “mitizzare” due dittatori, possiamo sicuramente affermare che l’immagine che hanno di loro i cittadini occidentali – costruita attraverso la propaganda mediatica – è senza dubbio peggiore di quella reale.

 

Premesso che per giudicare un governo è necessario ‘contestualizzare’, cioè tenere in considerazione la situazione socio-politica, culturale ed economica del posto, possiamo affermare con tranquillità che le condizioni di vita in Iraq e in Libia, quando i paesi erano gestiti dai due dittatori erano molto migliori di quanto comunemente ed erroneamente creduto. In entrambi i paesi c’era un certo grado di benessere ed era presente un discreto welfare; infatti erano benvoluti dalla maggioranza dei cittadini.

 

Proprio per questo motivo Bush “senior”, durante la prima guerra del golfo, rinunciò a far cadere il regime; le truppe americane arrivarono alle porte di Baghdad, ma gli fu ordinato di non entrare nella Capitale. L’intelligence USA fermò il presidente, in quanto se avesse destituito Saddam, la situazione sarebbe diventata ingestibile; l’ostilità del popolo iracheno gli avrebbe impedito di coltivare i propri interessi e di imporre un “governo fantoccio”. Decisero pertanto di “sfiancare” la popolazione irachena con un lungo embargo, che bloccò l’economia irachena e isolò il paese, dove erano introvabili persino specialità medicinali di prima necessità. Pur di far perdere consensi a Saddam gli USA non hanno avuto remore nell’imporre un embargo che è costato la vita a moltissimi cittadini, tra cui bambini. 

 

Con Saddam, un mosaico di popoli di differente etnia e religione conviveva  pacificamente, così come Gheddafi riusciva a tenere a freno i fanatismi. Sia in Iraq che in Libia la popolazione godeva di un certo grado di libertà, più di quanta ce ne fosse in altri paesi islamici.

 

Uno degli episodi per cui è noto Saddam, è l’uso di armi chimiche contro il popolo curdo iracheno, che nel 1988 costò la vita a 5.000 persone. Un episodio che conosciamo marginalmente e che non abbiamo approfondito abbastanza da poter esprimere un giudizio in merito, ma c’è da rilevare che cercando sul web, si scopre che c’è chi sostiene che non fu Saddam ad usare il gas. E’ quanto emergerebbe da un rapporto dell’USAWC sarebbe stato insabbiato. In lingua inglese è disponibile molto più materiale in merito.

 

Come premesso, ci asteniamo da esprimere giudizi, ma alla luce delle recenti manipolazioni e montature, sia circa gli accadimenti in Ucraina che in Siria, dove Assad è stato accusato falsamente proprio di aver usato armi chimiche, se ciò fosse vero non ci sorprenderemmo. Anche le circostanze alimentano i dubbi. Se Saddam fosse stato accusato di aver usato le armi chimiche in guerra, sarebbe stato diverso; ma secondo le accuse le avrebbe usate “per ritorsione”, un motivo piuttosto “futile” per decidere di mettersi contro l’intera comunità internazionale. Così come Assad sarebbe stato un pazzo se avesse usato armi proibite, in un contesto dove sapeva bene che gli USA non aspettavano altro che un buon motivo per bombardarlo…

 

Ma torniamo alle “condizioni di vita” in Iraq e in Libia durante i regimi di Saddam e Gheddafi. Di seguito vi proponiamo alcuni articoli che riteniamo essere interessanti…

 

Staff nocensura.com

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CONTROSTORIA DI SADDAM HUSSEIN

 

 

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Di Leonardo Olivetti

 

Quando si parla dell’Iraq contemporaneo non si può fare a meno di pensare alla controversa figura di Saddam Hussein. Il Raìs iracheno è uno dei massimi oggetti di demonizzazione dell’Occidente, accusato di ogni sorta di crimine e usato come archetipo della tirannide. Ma alle costruzioni propagandistiche degli agiografi dell’imperialismo americano, non corrispondono i fatti; Saddam Hussein fu uno dei più geniali e lungimiranti leader mediorientali degli ultimi anni, capace di guidare un paese dalla rovina alla prosperità, di non arrendersi alle minacce e all’arroganza stranieri, per nulla responsabile di quelle “atrocità” tanto vilmente accostate alla sua figura.

 

Quando Saddam Hussein prese in mano le redini del paese mediorientale, aveva di fronte a sé una situazione molto deteriorata, insicura e sottosviluppata economicamente, culturalmente e socialmente. Il Raìs iracheno risollevò l’Iraq dalla miseria, creando un regime prospero e culturalmente avanzato. L’alfabetizzazione, nel 1973, era solo il 35%; solo nove anni più tardi, le Nazioni Unite dichiararono l’Iraq “libero dall’analfabetismo”, con una popolazione alfabetizzata superiore al 90%, ed una percentuale del 100% di giovani che andavano a scuola. Due anni dopo, nel 1984, le stesse Nazioni Unite ammisero che “il sistema educativo dell’Iraq è il migliore mai visto in un paese in via di sviluppo”. Il sistema scolastico iracheno era anche tra i migliori al mondo per qualità; il tasso di studenti promossi era maggiore che negli altri paesi arabi, e il governo di Saddam, dal 1970 al 1984, spese solo per l’educazione il 6% del PIL, pari al 20% del reddito annuo del paese. In pratica, il governo di Baghdad spese per ogni singolo studente circa 620$, una cifra altissima per un paese in via di sviluppo. E questo dopo che Saddam Hussein era l’uomo forte di Baghdad da solo un decennio. Più tardi, dal 1976 al 1986, gli studenti delle scuole elementari crebbero del 30%, le studentesse femmine del 45%, sintomo della crescente emancipazione femminile, e il numero delle ragazze che studiavano era il 44% del totale, quasi in parità con il sesso maschile. Un altro risultato del fervore culturale importante nell’Iraq di Saddam Hussein è quello ottenuto nell’ambito universitario; l’Università di Baghdad, fondata nel 1957, ebbe oltre 33 mila studenti tra il 1983 e il 1984, l’Istituto Tecnico oltre 34 mila, l’Università di Mustansirya oltre 11 mila. Queste cifre altissime, che manifestano la fioritura culturale dell’Iraq ba’athista, portarono il New York Times, nel 1987, a battezzare Baghdad come “la Parigi del Medio Oriente”.

 

Dal 1973 al 1990 furono costruiti migliaia di chilometri di strade, si completò l’elettrificazione, e si istituirono un sistema sanitario ed un sistema scolastico completamente gratuiti. Le infrastrutture in Iraq sono tutte opera della leadership di Saddam Hussein; la maggior parte degli aeroporti ora operanti in Iraq sono stati costruiti da Saddam Hussein (l’aeroporto internazionale di Basra, quello internazionale di Erbil, quello di Baghdad), la maggiore autostrada del paese (la cosiddetta “Freeway 1”, lunga 1.200 chilometri) fu costruita a partire dal 1990. Saddam Hussein si è reso molto popolare in Iraq anche per i suoi continui viaggi, negli anni ‛70, in tutto il paese, per assicurarsi che ogni cittadino avesse a disposizione un frigorifero e l’elettricità, una delle basi ed una delle più grandi vittorie del Partito Ba’ath in Iraq. La sanità irachena era tra le migliori nella regione; la mortalità infantile passò da 80 persone ogni 1.000 abitanti nel 1974, a 60 ogni 1.000 nel 1982, fino a 40 ogni 1.000 nel 1989. La mortalità al di sotto dei cinque anni calò da 120 bambini ogni 1.000 nel 1974, a 60 ogni 1.000 nel 1989. Il sistema sanitario iracheno era anche tra i migliori qualitativamente: dicono l’UNICEF e l’Organizzazione Mondiale della Sanità che “a differenza di altri paesi più poveri, l’Iraq ha sviluppato un sistema occidentale di ospedali all’avanguardia che usa procedure mediche avanzate, e ha prodotto fisici specialisti”. Prima del 1990, sempre secondo i rapporti dell’OMS, avevano accesso a cure mediche gratuite e di alta qualità il 97% dei residenti urbani e oltre il 70% di quelli rurali, percentuali infinitamente alte se confrontate con quelle di altri paesi in via di sviluppo.

 

La distruzione dell’Iraq fu decisa al Pentagono e cominciò con le sanzioni economiche del 1990. Poco si parla degli effetti di queste sanzioni sul popolo iracheno. Parlando a livello di morti, si potrebbe dire che si trattò di un vero e proprio genocidio. Nel periodo 1991-1998, a causa delle fortissimi limitazioni  imposte dagli Stati Uniti e del conseguente fallimento dell’economia irachena, morirono circa mezzo milione di bambini, stima l’UNICEF. E non solo: sempre secondo l’UNICEF a causa delle sanzioni degli anni ‛90, la mortalità nei primi cinque anni di vita raddoppiò e raddoppiò anche quella infantile. Bellamy, funzionaria dell’organizzazione, ha constatato che “se la riduzione della mortalità infantile che si era verificata negli anni ‛80 fosse proseguita anche negli anni ‛90, ci sarebbero state mezzo milione di morti in meno”. Può essere certamente plausibile quanto scrissero John e Karl Müller nel 1999, cioè che le sanzioni economiche “possono aver contribuito a causare più morti durante il periodo post Guerra Fredda che tutte le armi di distruzione di massa nel corso della storia”. La sanità irachena calò in qualità, dicono sempre Müller, dato che, a causa delle sanzioni, “l’importazione di alcuni materiali disperatamente necessari era stata ritardata o negata a causa delle preoccupazioni che avrebbero potuto contribuire ai programmi di armamento di distruzione di massa dell’Iraq. Forniture di siringhe sospese a causa delle paure legate alle spore di antrace”. Sempre nel campo medico “le tecniche medico-diagnostiche che utilizzano le particelle radioattive, una volta comuni in Iraq, erano vietate per effetto delle sanzioni e i sacchetti di plastica necessari alle trasfusioni di sangue ristretti”. A definire queste tremende sanzioni come un “genocidio di fatto” ci ha pensato anche  Denis Halliday, coordinatore umanitario delle Nazioni Unite in Iraq. Questa gravissima tragedia voluta dall’amministrazione americana, fu, successivamente, anche considerata “giusta” da Madeleine Albright.

Nella sua più controversa intervista, il 12 maggio 1996, il Segretario di Stato è intervistato da Lesley Stahl al programma 60 minutes:

- «Abbiamo saputo che mezzo milione di bambini sono morti. Intendo dire, più bambini di quelli che morirono ad Hiroshima. E, pensa ne sia valsa la pena?»

- «Pensiamo che sia stato un prezzo giusto da pagare

Non contenta dell’apologia di un crimine contro l’umanità, Albright ha poi accusato l’intervistatrice di “fare propaganda irachena”. E tutti questi morti e questa miseria per delle armi che Saddam Hussein non aveva mai avuto. Il primo passo per distruggere il più progredito stato mediorientale si concluse con un prezzo di vite altissimo, ma non fece crollare l’Iraq ba’athista.

 

Saddam Hussein aveva ancora una forte base di potere e godeva di un ampio sostegno, anche se si è cercato di far credere che fosse “odiato dal popolo e prossimo al collasso”. Il leader iracheno sapeva bene che con l’inizio delle sanzioni “era iniziata la madre di tutte le battaglie”, come egli stesso proclamò al mondo il 17 gennaio 1991. Infatti, senza cedere alle pressioni americane, egli proseguì la sua battaglia per un Iraq indipendente fino a che l’America non fu costretta ad intervenire direttamente. Dopo la creazione della fasulla “Asse del male” iniziò una delle più grandi operazioni di false flag che la storia ricordi: George W. Bush inventò di sana pianta la storia dei legami con al-Qaida e delle armi di distruzione di massa, e mentre lanciava assurdi slogan bellici («Saddam merita questo!»), si creava anche la storia dei “massacri” attribuiti ai ba’athisti iracheni. Mentre la notizia delle armi di distruzioni di massa si è oramai rivelata una falsità, diverso è il caso per le notizie dei “massacri” e dell’uso di armi chimiche di Saddam, che ancora riscuotono un gran successo mediatico.

 

Si disse che Saddam Hussein perseguitò i curdi, e, nella sola città di Halabja, ne fece uccidere 5.000 o più, nel marzo del 1988. Tuttavia furono ritrovati solo 300 corpi, e la cosa è tutt’altro che sicura; si pensa che la storia dell’attacco chimico a Halabja sia “ormai appurata”, eppure è l’America stessa a fornire le prove che scagionano Saddam.

Il Dipartimento di Stato americano ha mostrato vari rapporti che mostrano che l’Iraq non ha mai posseduto quel gas, a base di cianuro; in tanti anni, la CIA non aveva mai reperito questa arma tra gli arsenali iracheni, mentre era presente nell’esercito iraniano. Il mondo non è mai stato convinto della storia: la CIA, l’US Army War CollegeGreenpeace, Stephen Pelletiere (principale analista della CIA del 1988), Jude Waniski (giornalista e prestigioso commentatore di notizie economiche), l’Historical Report del corpo dei Marines hanno tutti accusato l’Iran, ed hanno tutti ritenuto “infondata” l’accusa rivolta a Saddam Hussein.

Stephen Pelletiere scrisse a tal proposito: «Per quanto ne sappiamo noi, tutti i casi in cui il gas fu usato corrispondono ad una battaglia. Queste sono tragedie di guerra. Forse possono esserci giustificazioni per l’invasione dell’Iraq, ma Halabja non è tra queste», ed ebbe cura di precisare, nello stesso articolo, che apparve sul New York Times:

«…la verità è che tutto quello che sappiamo è che i curdi quel giorno ad Halabja furono bombardati con gas velenoso. Non possiamo dire con assoluta certezza che furono armi chimiche irachene ad uccidere i curdi. Questa non è la sola stortura della storia di Halabja.

Io lo so perché, come capo analista politico della CIA sull’Iraq durante la guerra Iran-Iraq, e come professore al Collegio Militare di Guerra dal 1988 al 2000, ero a conoscenza di molto del materiale segreto che fluiva attraverso Washington e che aveva a che vedere con il Golfo Persico. Inoltre ero a capo di una investigazione militare del 1991 sul come gli iracheni avrebbero combattuto una guerra contro gli Stati Uniti; la versione segreta di quel dossier esplorava con dovizia di dettagli l’affare Halabja.

Quello di cui siamo sicuri circa l’uso del gas ad Halabja è che successe durante una battaglia tra le truppe irachene ed iraniane. L’Iraq usò armi chimiche per ammazzare gli iraniani che avevano preso la città, che si trova nell’Iraq settentrionale, non lontano dal confine iraniano. I civili curdi che morirono ebbero la sfortuna di essere presi in quello scambio. Ma non erano loro il bersaglio degli iracheni.

Ma la storia si intorbidisce. Immediatamente dopo la battaglia la DIA investigò e produsse un resoconto segreto, che circolò per conoscenza tra la comunità dell’intelligence. Quello studio accertò che era stato il gas iraniano ad uccidere i curdi, non quello iracheno.

L’agenzia trovò che ambedue le parti usarono armi chimiche l’una contro l’altra nella battaglia di Halabja. Tuttavia lo stato in cui furono trovati i corpi dei curdi indicava che furono uccisi con un veleno che agiva sul sangue, cioè un gas a base di cianuro, che si sapeva veniva usato dalle truppe iraniane. Gli iracheni, che si pensa usassero l’iprite in battaglia, non erano soliti usare gas che agiva sul sangue, in quel periodo.

È da molto tempo che questi fatti sono di pubblico dominio, ma, stranamente, ogniqualvolta il caso Halabja è citato, di questo non se ne parla. Un articolo controverso apparso sul New Yorker lo scorso marzo non faceva alcun riferimento al resoconto della DIA, né considerava che potesse essere stato gas iraniano ad aver ucciso i curdi. Nelle rare occasioni in cui se ne parla, ci si specula sopra, senza prova alcuna, che fosse per favoritismo politico dell’America verso l’Iraq nella guerra contro l’Iran.»

 

Secondo la versione suggerita dal New Yorker, e data per vera da Bush, il generale Alì Hassan al-Majid avrebbe ordinato all’aviazione irachena di sganciare bombe chimiche su Halabja. Ma Patrick Lang, uno dei maggiori analisti della DIA (la Defense Intelligence Agency americana), confermò che i due schieramenti che si contendevano la città, quello iracheno e quello iraniano, si scambiano bombe chimiche con mortai, e che l’aviazione non fu mai chiamata in causa. All’inizio, l’intera amministrazione americana accusò l’Iran della responsabilità, dato che era in corso la guerra Iraq-Iran e gli Stati Uniti supportavano la prima fazione; tuttavia, quando il nuovo bersaglio divenne Saddam Hussein, la versione venne stravolta, e fu invece accusato Saddam Hussein, così da “provare” l’esistenza di armi di distruzione di massa in Iraq, far approvare le sanzioni, ed avere un qualche motivo propagandistico per invadere l’Iraq nel 2003.

 

Nel novembre del 2003, gli Stati Uniti dichiararono che erano stati rinvenuti 400.000 corpi in fosse comuni dell’Iraq del Sud, da attribuirsi a Saddam. Ma ci pensò Tony Blair, nel giugno del 2004, a dover ammettere che Bush “aveva parlato in modo inappropriato”, perché solo 5.000 corpi erano stati rinvenuti. Solo qualche tempo dopo, altre fonti dimostrarono che erano dei morti civili causati dall’aviazione statunitense durante l’operazione Desert Storm nel 1991. Purtroppo tutto questo cadde nell’oblìo, e si decise di non divulgare più niente su questo argomento.

 

Saddam Hussein non abbandonò mai il suo popolo come fu detto. Questa operazione propagandistica era volta a screditare Saddam agli occhi degli iracheni. Si disse che era stato trovato nascosto in un buco a Tikrit. In realtà questa storia è totalmente priva di fondamento. Un marine libanese che aveva preso parte all’operazione per catturare Saddam, Nadim Rabeh, dichiarò nel 2005 (anche se si cercò di coprire la sua versione) che Saddam fu ritrovato “in una modesta casa di un piccolo villaggio, non nel buco dove si disse. Lo catturammo dove una feroce resistenza, e fu ucciso anche un marine sudanese”. Rabeh disse che il Raìs iracheno in persona aveva iniziato a fare fuoco contro di loro dalla sua finestra, e che si fermò dopo che gli fu detto di arrendersi perché era circondato. Rabeh disse anche che “più tardi un team militare di tecnici di ripresa assemblò il film del buco in cui sarebbe stato catturato che era in realtà un pozzo abbandonato”.

Saddam, al suo processo, espresse una versione che combaciava con questa. Un colonnello dell’esercito iracheno a riposo che partecipò al processo disse, sulla sua cattura e sulla sua resistenza attiva:

«La biancheria di Saddam appariva molto pulita dando l’impressione che egli non avesse potuto stare in un buco. Nel periodo in cui avevano detto di averlo catturato non vi sono datteri, ma le palme che si vedevano nei filmati mostratici portavano datteri e questo non è possibile. La mia casa è nel quartiere di Adhamiya e io ho effettivamente visto Saddam nella sua ultima famosa apparizione pubblica dopo che Baghdad era già caduta: egli stava in piedi sul cofano di un’autovettura, sorrideva alla gente intorno a lui che lo incitava mostrandogli la fedeltà di sempre. Saddam era alla testa delle truppe durante la battaglia dell’aereoporto. Secondo quello che ho sentito aveva guidato molti attacchi contro gli americani.»

 

In realtà, Saddam Hussein combatté fino alla fine, non si arrese né si nascose, e godette sempre del sostegno del popolo iracheno. Il 9 aprile 2003, conosciuto come il giorno della “caduta di Baghdad”, egli fece la sua ultima apparizione pubblica, circondato da una folla in delirio, qualche decina di migliaia di persone che lo sollevò dal tettuccio della sua macchina affinché potesse parlare alla folla. Parla degli ultimi giorni di Baghdad e del ruolo di Saddam Hussein anche una ex Guardia Repubblicana, che disse:

«Mentre stavo sparando con i miei compagni, all’improvviso, trovammo Saddam Hussein con molti dei suoi assistenti dentro l’aeroporto. Fummo davvero sorpresi perché non ci aspettavamo una simile cosa, ma Saddam venne avanti e prese un RPG e se lo mise sulle spalle ed iniziò a sparare anche lui. Ci raccogliemmo intorno a lui e lo pregammo di mettersi da parte e lasciare noi a combattere perché se fossimo stati uccisi noi eravamo comuni ufficiali, ma se lui fosse stato ucciso avremmo perso il nostro leader. Saddam si rivolse a noi e disse, “Ascoltate, io non sono meglio di chiunque tra voi e questo è il momento supremo per difendere il nostro grande Iraq e sarebbe grandioso essere ucciso come martire per il futuro dell’Iraq”.»

 

In un sondaggio del novembre 2006, condotto dal Iraq Centre for Research and Strategic Studies e Gulf Research Center, alla domanda se “si stesse meglio con Saddam o ora”, il 90% disse che si stava meglio meglio prima, e solo il 5% disse di preferire la situazione odierna. Un vero e proprio plebiscito. Per descrivere l’Iraq invaso dagli yankee, l’Iraq ipocritamente definito “libero”, non ci sono parole più precise di quelle usate da Riverbend – Blog da Baghdad:

«Non esiste alcuna maniera per descrivere la perdita di cui abbiamo fatto esperienza con questa guerra e questa occupazione. Non esiste compensazione per la densa nube nera di paura che penzola sulla testa di ogni iracheno. Paura degli americani nei loro carri armati, paura delle pattuglie della polizia con le loro bandane nere, paura dei soldati iracheni che indossano le loro maschere nere ai checkpoint.»

 

Per quanto riguarda il processo di Saddam Hussein, una delle più grandi finzioni giudiziarie degli ultimi anni, sarebbe fin troppo lungo elencare gli errori, le mancanze giudiziarie e le assurdità. Basti ricordare che il primo giudice fu costretto a dimettersi perché permetteva a Saddam di parlare e sembrava troppo equo, e ne subentrò uno che mostrava una totale tendenziosità; molte volte Saddam fu allontanato dall’aula senza motivo, gli avvocati difensori espulsi, testimoni a difesa torturati, furono distrutti vari video mostrati dalla difesa, ed in soli due giorni la corte disse di aver letto le 1.500 pagine della deposizione della difesa. La condanna a Saddam Hussein fu nient’altro che una montatura, un processo politico per liquidare un uomo scomodo, umiliare fino in fondo quell’implacabile nemico dell’Occidente, accusato di ogni sorta di crimine e screditarlo agli occhi del suo popolo che, invece, era ancora affezionato a lui. Delle ottime parole per descrivere l’ultimo giorno di Saddam Hussein prima della sua impiccagione furono quelle usate da Malcolm Lagauche: «Oggi, Saddam Hussein è l’uomo più libero dell’Iraq, nonostante sia dietro le sbarre. La sua mente è limpida e la sua integrità incredibile. Attende la morte con dignità. Non una sola volta ha ceduto sotto tortura o pressione. Anche quando gli fu offerta dagli USA una tessera per “uscire gratis di prigione” se avesse fermato la resistenza, Saddam rifiutò di capitolare.»

 

Leonardo Olivetti

 

- Fonte: statopotenza.eu del 19 dicembre 2013

Link: http://www.statopotenza.eu/9765/controstoria-di-saddam-hussein

 

 

Fonte: visto su NOCENSURA del 112 agosto 2014

Link: http://www.nocensura.com/2014/08/controstoria-di-saddam-hussein-e.html

 

 

 

 

LA LIBIA DI GHEDDAFI: LA LIBIA CHE NON SI LEGGE SUI GIORNALI 

 

 

gheddafi

 

 

Testimonianza di un tecnico ENI (anno 2011) 

 

Sono stato in Libia, da lavoratore, fino al 21 febbraio scorso quando, costretto dagli eventi, ho dovuto abbandonarla con l’ultimo volo di linea Alitalia.

 

Ho avuto modo di conoscere gran parte del Paese, da Tripoli a Bengasi, a Ras Lanuf a Marsa El Brega a Gadames, non frequentando gli ambienti dorati, ovattati e distaccati dei grandi alberghi, ma vivendo da lavoratore tra lavoratori e a quotidiano contatto con ambienti popolari, sempre riscontrando cordialità e sentimenti di amicizia per certi versi inaspettati e sorprendenti. Non era raro per strada sentirsi chiedere di poter fare assieme una fotografia da chi si accorgeva di stare incrociando degli italiani, peraltro numerosissimi anche per le tantissime imprese che vi operavano, dalle più grandi (ENI, Finmeccanica, Impregilo ecc.) alle più piccole (infissi, sanitari, rubinetterie, arredamenti ecc.), in un ambiente favorevolissimo, direi familiare…

 

Da quello che ho potuto constatare il tenore di vita libico era abbastanza soddisfacente: il pane veniva praticamente regalato, 10 uova costavano l’equivalente di 1 euro, 1 kg di pesce spada circa 5 euro, un litro di benzina circa 10 centesimi di euro; la corrente elettrica era di fatto gratuita; decine e decine di migliaia di alloggi già costruiti e ancora in costruzione per garantire una casa a tutti (150-200 m2 ad alloggio….); l’acqua potabile portata dal deserto già in quasi tutte le città con un’opera ciclopica, in via di completamento, chiamata “grande fiume”; era stata avviata la costruzione della ferrovia ad alta velocità e appaltato il primo lotto tra Bengasi e il confine egiziano della modernissima autostrada inserita nell’accordo con l’Italia; tutti erano dotati di cellulari, il costo delle chiamate era irrisorio, la televisione satellitare era presente sostanzialmente in ogni famiglia e nessun programma era soggetto a oscuramento, così come internet alla portata di tutti, con ogni sito accessibile, compreso i social network (Facebook e Twitter), Skype e la comunicazione a mezzo e-mail.

 

Dalla fine dell’embargo la situazione, anche “democratica”, era migliorata tantissimo e il trend era decisamente positivo: i libici erano liberi di andare all’estero e rientrare a proprio piacimento e un reddito era sostanzialmente garantito a tutti.

 

Quando sono scoppiati i primi disordini, la sensazione che tutti lì abbiamo avuto è stata quella che qualcuno stava fomentando rivalità mai sopite tra la regione di Bengasi e la Tripolitania, così come le notizie che rilanciavano le varie emittenti satellitari apparivano palesemente gonfiate quando non addirittura destituite da ogni fondamento: fosse comuni, bombardamenti di aerei sui dimostranti ecc.

 

Certamente dal punto di vista democratico i margini di miglioramento non saranno stati trascurabili, del resto come in tanti altri paesi come l’Arabia Saudita, la Cina, il Pakistan, la Siria, gli Emirati Arabi, il Sudan, lo Yemen, la Nigeria ecc. ecc… e forse anche un po’ da noi! Pertanto prima o poi qualcuno dovrà spiegare perché in questi Paesi non si interviene…

Sono triste e amareggiato al pensiero di come sarò considerato dagli amici libici che ho lasciato laggiù dopo questa scellerata decisione di stupidissimo interventismo!

 

 

Guido Nardo -Ingegnere Gruppo ENI

www.thefrontpage.it/2011/03/24/la-l…e-sui-giornali/

 

 

 

LA DISTRUZIONE DEL TENORE DI VITA DI UN PAESE: QUELLO CHE LA LIBIA AVEVA RAGGIUNTO, QUELLO CHE È STATO DISTRUTTO

 

 

22 settembre 2011

 

By coriintempesta

di: Prof. Michel Chossudovsky

 

“Non c’è domani” sotto una rivolta di Al Qaeda promossa dalla NATO .

 

Mentre veniva insediato un governo di ribelli “pro-democrazia”, il paese è stato distrutto.

Sullo sfondo della propaganda di guerra, le conquiste economiche e sociali della Libia nel corso degli ultimi venti anni sono state brutalmente rovesciate:

La Giamahiria Araba Libica ha avuto un alto tenore di vita e un robusto apporto calorico pro capite giornaliero di 3144 calorie. Il paese ha fatto passi da gigante nel campo della sanità pubblica e, dal 1980, il tasso di mortalità infantile è sceso dal 70 ogni mille nati vivi al 19 nel 2009. L’aspettativa di vita è salita dai 61 ai 74 anni durante lo stesso arco di anni. (FAO, Roma,Libya, Country Profile)

 

Secondo settori della ”sinistra progressista” che hanno avallato il mandato R2P (responsabilità di proteggere) della NATO, per non parlare dei terroristi che vengono accolti, senza riserve, come “liberatori“:

“ La gente è entusiasta di ricominciare da capo. C’è un vero senso di rinascita, una sensazione che le loro vite stanno ricominciando nuovamente“.(DemocracyNow.org, 14 settembre 2011- enfasi aggiunta)

“Ripartire“ sulla scia della distruzione? Paura e disperazione sociale, innumerevoli morti e atrocità, ampiamente documentate dai media indipendenti. Nessuna euforia ….Si è verificata una storica inversione nello sviluppo economico e sociale del paese. I risultati ottenuti sono stati cancellati.

 

L’invasione e l’occupazione della NATO contrassegnano la rovinosa “rinascita“ del livello di vita della Libia. Questa è la verità proibita e taciuta: un intera nazione è stata destabilizzata e distrutta, la sua gente spinta verso un abissale povertà.

 

L’obiettivo dei bombardamenti della NATO è stato sin dall’inizio quello di distruggere lo standard di vita del paese, le sue infrastrutture sanitarie, le sue scuole e gli ospedali, il suo sistema di distribuzione dell’acqua. E poi “ricostruire” con l’aiuto di finanziatori e creditori sotto la guida del FMI e della Banca mondiale.

I diktat del ”libero mercato” sono una condizione indispensabile per l’ installazione di una “dittatura democratica” in stile occidentale.

 

Circa 9.000 sortite d’attacco, decine di migliaia di obiettivi civili: aree residenziali, edifici governativi, impianti di approvvigionamento idrico e di energia elettrica. (Vedi comunicato della Nato, 5 settembre 2011. – 8.140 sortite d’attacco dal 31 marzo al 5 settembre 2011)

Una nazione intera è stata bombardata con gli ordigni più avanzati, tra cui munizioni all’uranio impoverito.

 

Già nel mese di agosto, l’UNICEF ha avvertito che i bombardamenti della NATO sulle infrastrutture idriche della Libia “potrebbero trasformarsi in un’epidemia sanitaria senza precedenti“. (Christian Balslev-Olesen , responsabile dell’ Ufficio Unicef in Libia, agosto 2011).

 

Nel frattempo gli investitori e i finanziatori si sono posizionati. ”La guerra fa bene agli affari“. La NATO, il Pentagono e le istituzioni finanziarie internazionali basate a Washington (IFIs) operano in stretto coordinamento. Quello che è stato distrutto dalla NATO verrà ricostruito, finanziato da creditori esteri della Libia sotto la guida del ” Washington Consensus ”:

 

“In particolare, la Banca Mondiale è stata incaricata di esaminare la necessità di riparazione e ripristino dei servizi nei settori dell’acqua, dell’energia e dei trasporti [bombardati dalla Nato] e, in collaborazione con il Fondo Monetario Internazionale, sostenere la preparazione del bilancio [le misure di austerità] e aiutare il settore bancario a rimettersi in piedi [la banca centrale libica è stato uno dei primi edifici governativi adessere bombardato]. ” (World Bank to Help Libya Rebuild and Deliver Essential Services to Citizens enfasi aggiunta).

 

I risultati dello sviluppo della Libia

 

Qualunque siano le proprie opinioni riguardo Gheddafi, il governo libico post-coloniale ha giocato un ruolo chiave nell’eliminazione della povertà e nello sviluppo delle infrastrutture sanitarie ed educative del paese. Secondo la giornalista italiana Yvonne de Vito: “A differenza di altri paesi che hanno attraversato una rivoluzione – la Libia è considerata la Svizzera del continente africano ed è molto ricca, le sue scuole ed i suoi ospedali sono gratuiti per il popolo. Le condizioni per le donne sono molto migliori rispetto ad altri paesi arabi ”. (Russia Today, 25 agosto 2011)

 

Questi sviluppi sono in netto contrasto con quello che molti paesi del Terzo Mondo sono stati in grado di “conquistare” sotto la ”democrazia” e la “governance” in stile occidentale nell’ambito del programma di aggiustamento strutturale (SAP) del FMI-Banca Mondiale .

 

Assistenza Sanitaria pubblica

 

L’ assistenza sanitaria pubblica in Libia prima dell’ ”intervento umanitario” della NATO era la migliore in Africa. ”L’assistenza sanitaria è [era] a disposizione di tutti i cittadini gratuitamente dal settore pubblico. Il paese vanta il più alto tasso di alfabetizzazione e di iscrizioni alle strutture educative in Nord Africa. Il governo sta [stava] in modo sostanziale aumentando il budget di sviluppo per i servizi sanitari … . (OMS- Libya Country Brief )

Confermato dalla Food and Agriculture Organization (FAO), la denutrizione era inferiore al 5%, con un apporto calorico giornaliero pro capite di 3144 calorie. (I dati FAO dell’apporto calorico indicano la disponibilita anzichè il consumo).

 

La Gran Giamahiria Araba Libica forniva ai suoi cittadini quello che è negato a molti americani:assistenza sanitaria e istruzione gratuita, come confermato dai dati OMS e dall’UNESCO.

 

Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS): l’ aspettativa di vita alla nascita era di 72,3 anni (2009), tra le più alte nel mondo sviluppato.

Il tasso di mortalità sotto i 5 anni ogni 1000 nati vivi è diminuito da 71 nel 1991 a 14 nel 2009

(www.who.int/countryfocus/cooperatio…rief_lby_en.pdf)

 

 

LIBIA INFORMAZIONI GENERALI – 2009 – FONTE: UNESCO – LIBYA COUNTRY PROFILE -

 

 

Crescita demografica annua (%) ^ 2,0

 

Popolazione 0-14 anni (%)^   28

 

Popolazione rurale (%) ^ 22

 

Tasso di fertilità (nati per donna) ^   2,6

 

Tasso di mortalità infantile (0 / 00) ^ 17

 

Speranza di vita alla nascita (anni) ^   75

 

PIL pro capite (PPP) US $ ^   16 502

 

Tasso di crescita del PIL (%) ^   2,1

 

Servizio del debito totale come% del RNL ^

I bambini in età scolare primaria che non frequentano la scuola (%)   (1978)   2

 

 

 

 

LIBIA (2009) – Fonte OMS-  

www.emro.who.int/emrinfo/index.aspx?Ctry=liy

 

 

Aspettativa di vita totale alla nascita (anni) 72,3

 

Aspettativa di vita uomini alla nascita (anni) 70,2

 

Aspettativa di vita donne alla nascita (anni): 74,9

 

Neonati sottopeso (%): 4.0

 

Bambini sottopeso (%): 4,8

 

Tasso di mortalità perinatale per 1000 nati vivi: 19

 

Tasso di mortalità neonatale: 11,0

 

Tasso di mortalità infantile (per 1000 nati vivi): 14.0

 

Tasso di mortalità sotto i cinque anni (per 1000 nati vivi): 20.1

 

Rapporto di mortalità materna (per 10.000 nati vivi): 23

 

Educazione

 

Il tasso di alfabetizzazione degli adulti era dell’ordine del 89%,(2006), (94% per i maschi e 83% per le femmine). Il 99,9% dei giovani sa leggere e scrivere (dati UNESCO del 2006, vedi Libya Country Report)

La percentuale lorda delle iscrizioni alle scuole primarie era del 97% per i maschi e 97% per le ragazze.

(vedi tabelle UNESCO presso http://stats.uis.unesco.org/unesco/TableVi…BR_Region=40525 )

 

Il rapporto insegnante-allievo nella scuola primaria della Libia era dell’ordine di 17 ( dati UNESCO- 1983), il 74% dei bambini che hanno terminato la scuola elementare sono stati iscritti alla scuola secondaria (dati UNESCO- 1983).

 

Sulla base di dati più recenti, che confermano un marcato aumento delle iscrizioni scolastiche, il Gross Enrolment Ratio (GER) nelle scuole secondarie era dell’ordine del 108% nel 2002. Il GER è il numero di alunni iscritti a un determinato livello di istruzione indipendentemente dall’età, espressa in percentuale della popolazione nella fascia di età teorica per quel livello di istruzione.

 

Per le iscrizioni all’educazione terziaria (post-secondaria, college e università), il Gross Enrolment Ratio (GER) era dell’ordine del 54% nel 2002 (52 per i maschi, 57 per le femmine).

 

(Per ulteriori dettagli vedere http://stats.uis.unesco.org/unesco/TableVi…BR_Region=40525 )

 

I diritti della donna

 

Per quanto riguarda i diritti della donna, i dati della Banca Mondiale indicano il raggiungimento di risultati significativi .

 

“In un periodo di tempo relativamente breve, la Libia ha raggiunto l’accesso universale all’istruzione primaria, con il 98% lordo di iscrizioni per la secondaria, e il 46% per l’istruzione terziaria. Negli ultimi dieci anni, le iscrizioni delle ragazze sono aumentate del 12% a tutti i livelli dell’istruzione. Nell’istruzione secondaria e terziaria, le ragazze hanno superato in numero i ragazzi del 10%. ”(Banca mondiale- Libya Country Brief, enfasi aggiunta)

 

Il controllo dei prezzi sui generi alimentari di prima necessità

 

Nella maggior parte dei paesi in via di sviluppo, i prezzi dei prodotti alimentari di prima necessità sono saliti alle stelle, a causa della deregolamentazione del mercato, la soppressione dei controlli dei prezzi e la eliminazione dei sussidi, sotto i consigli di “libero mercato” della Banca Mondiale e del FMI.

 

Negli ultimi anni, gli alimenti essenziali e i prezzi del carburante sono aumentati a spirale a causa del commercio speculativo sulle principali borse delle materie prime.

La Libia è stato uno dei pochi paesi in via di sviluppo che ha mantenuto un sistema di controllo dei prezzi degli alimenti essenziali.

Robert Zoellick, presidente della Banca Mondiale, ha riconosciuto in una dichiarazione dell’ aprile 2011 che il prezzo degli alimenti di prima necessità era aumentato del 36 per cento nel corso dell’ultimo anno. (Vedi Robert Zoellick, World Bank )

La Grande Giamahiria Araba Libica aveva stabilito un sistema di controllo dei prezzi sugli alimenti di prima necessità mantenuto fino all’inizio della guerra guidata dalla NATO .

Mentre l’aumento dei prezzi alimentari nella vicina Tunisia ed in Egitto era alla base del disagio sociale e del dissenso politico, il sistema di aiuti alimentari in Libia era mantenuto.

Questi sono i fatti confermati da numerose agenzie specializzate delle Nazioni Unite.

 

“La diplomazia dei missili” e “Il Libero Mercato”

 

La guerra e la globalizzazione sono strettamente correlate. Il FMI e la NATO lavorano in tandem, in collegamento con i think tanks di Washington.

 

I paesi che si mostrano riluttanti ad accettare i proiettili rivestiti di zucchero della “medicina economica” del FMI saranno eventualmente oggetto di una operazione umanitaria della NATO.

 

Déjà Vu? Sotto l’Impero britannico, la “ gun boat diplomacy“ era un mezzo per imporre il “libero commercio“. Il 5 ottobre 1850, il rappresentante in Inghilterra del Regno di Siam, Sir James Brooke consigliò al governo di Sua Maestà che:

Se queste giuste richieste [di imporre il libero scambio] dovessero essere rifiutate, dovrà essere inviata una forza, per appoggiarle immediatamente con la rapida distruzione delle difese del fiume [Chaopaya]. Il Siam deve imparare la lezione che già da lungo tempo doveva essergli impartita- il suo Governo può essere rinnovato, un Re disposto con più favore può essere posto sul trono, e così verrà acquisita grande influenza nella regione che per l’Inghilterra assumerà un’importanza commerciale immensa. ”(The Mission di Sir James Brooke, citato in M.L. Manich Jumsai, King Mongkut and Sir John Bowring, Chalermit, Bangkok, 1970, p. 23)

 

Oggi lo chiamiamo “cambio di regime” e ”diplomazia dei missili“, che prende inevitabilmente la forma di una “No Fly Zone“ sponsorizzata dalle Nazioni Unite . Il suo obiettivo è quello di imporre la mortale “medicina economica” del FMI di misure di austerità e privatizzazioni.

 

I programmi di “ricostruzione“ dei paesi dilaniati dalla guerra finanziati dalla Banca Mondiale sono coordinati con i piani militari di USA-NATO. Essi sono sempre formulati prima dell’offensiva della campagna militare …

 

La confisca delle attività finanziarie libiche

 

Le attività finanziarie libiche all’estero congelate sono stimate nell’ordine di 150 miliardi dollari, con i paesi della NATO che sono in possesso di più di 100 miliardi.

 

Prima della guerra, la Libia non aveva debiti. In realtà tutto il contrario. Era una nazione creditrice che investiva nei vicini paesi africani.

 

L’intervento militare R2P ha lo scopo di guidare la Gran Giamahiria Araba Libica nella morsa di un paese indebitato in via di sviluppo, sotto la sorveglianza delle istituzioni di Bretton Woods basate a Washington.

 

Con amara ironia, dopo aver rubato la ricchezza petrolifera della Libia e aver confiscato le sue attività finanziarie all’estero, la “comunità dei donatori“ ha promesso di prestare il denaro (rubato) per finanziare la ” ricostruzione” della Libia.

 

Il FMI ha promesso ulteriori $ 35 miliardi in finanziamenti [prestiti] ai paesi colpiti dalle rivolte della Primavera araba e ha formalmente riconosciuto il Consiglio Nazionale di Transizione come potere legittimo, aprendo l’accesso a una miriade di istituti di credito internazionali mentre il paese [Libia] cerca di ricostruirsi dopo sei mesi di guerra….

 

L’aver ottenuto il riconoscimento da parte del FMI è importante per i leader provvisori della Libia in quanto significa che le banche internazionali per lo sviluppo e i donatori, come la Banca Mondiale, possono ora offrire i loro finanziamenti.

 

I colloqui di Marsiglia sono venuti pochi giorni dopo che i leader mondiali, a Parigi, hanno concordato per liberare miliardi di dollari in beni congelati [denaro rubato] per aiutare [attraverso prestiti] i provvisori governanti della Libia a ripristinare i servizi essenziali e la ricostruzione dopo un conflitto che ha posto fine a 42 anni di dittatura.

 

L’accordo di finanziamento da parte del Gruppo delle Sette principali economie più la Russia è mirato al sostegno delle iniziative di riforma [ aggiustamento strutturale promosso dal FMI] sulla scia delle rivolte in Nord Africa e del Medio Oriente.

 

Il finanziamento è per lo più sotto forma di prestiti, piuttosto che contributi a fondo perduto, ed è fornito per metà da paesi del G8 e da paesi arabi e per metà dagli istituti di credito e da varie banche per lo sviluppo.

 

(Financial Post 10 settembre 2011)

 

http://coriintempesta.altervista.org/blog/…tato-distrutto/

 

 

 

LA LYBIA DI GHEDDAFY:

 

 

- Elettricità domestica gratuita per tutti

 

- Acqua domestica gratuita per tutti

 

- Il prezzo della benzina è di 0,08 euro al litro

 

- Il costo della vita in Libia è molto meno caro di quello dei paesi occidentali. Per esempio il costo di una mezza baguette di pane in Francia costa più o meno 0,40 euro, quando in Libia costa solo 0,11 euro. Se volessimo comprare 40 mezze baguette si avrebbe un risparmio di 11,60 euro.

 

- Le banche libiche accordano prestiti senza interessi

 

- I cittadini non hanno tasse da pagare e l’IVA non esiste.

 

- Lo stato ha investito molto per creare nuovi posti di lavoro

 

- La Libia non ha debito pubblico, quando la Francia aveva 223 miliardi di debito nel Gennaio 2011, che sarebbe il 6,7% del PIL. Questo debito per i paesi occidentali continua a crescere

 

- Il prezzo delle vetture (Chevrolet, Toyota, Nissan, Mitsubishi, Peugeot, Renault…) è al prezzo di costo

 

- Per ogni studente che vuole andare a studiare all’estero, il governo attribuisce una borsa di 1 627,11 Euro al mese.

 

- Tutti gli studenti diplomati ricevono lo stipendio medio della professione scelta se non riescono a trovare lavoro

 

- Quando una coppia si sposa, lo Stato paga il primo appartamento o casa (150 metri quadrati)

 

- Ogni famiglia libica, previa presentazione del libretto di famiglia, riceve un aiuto di 300 euro al mese

 

- Esistono dei posti chiamati « Jamaiya », dove si vendono a metà prezzo i prodotti alimentari per tutte le famiglie numerose, previa presentazione del libretto di famiglia

 

- Tutti i pensionati ricevono un aiuto di 200 euro al mese, oltre la pensione.

 

- Per tutti gli impiegati pubblici in caso di mobilità necessaria attraverso la Libia, lo Stato fornisce una vettura e una casa a titolo gratuito. Dopo qualche tempo questi beni diventano di proprietà dell’impiegato.

 

- Nel servizio pubblico, anche se la persona si assenta uno o due giorni, non vi è alcuna riduzione di stipendio e non è richiesto alcun certificato medico

 

- Tutti i cittadini della libia che non hanno una casa, possono iscriversi a una particolare organizzazione statale che gli attribirà una casa senza alcuna spesa e senza credito. Il diritto alla casa è fondamentale in Libia. E una casa deve essere di chi la occupa.

 

- Tutti i cittadini libici che vogliono fare dei lavori nella propria casa possono iscriversi a una particolare organizzazione, e questi lavori saranno effettutati gratuitamente da aziende scelte dallo Stato.

 

- L’eguaglianza tra uomo e donna è un punto cardine per la Libia, le donne hanno accesso a importanti funzioni e posizioni di responsabilità.

 

- Ogni cittadino o cittadina della Libia si puo’ investire nella vita politica e nella gestione degli affari pubblici, a livello locale, regionale e nazionale, in un sistema di DEMOCRAZIA DIRETTA (iniziando dal Congresso popolare di base, permanente, fino ad arrivare al Congresso generale del popolo, il grande Congresso nazionale che si riunisce una volta all’anno) .

 

Se questo era lo stato di un dittatore non democratico allora preferisco la dittatura alla democrazia dei colonizzatori e alle GUERRE di pace! Onore al Colonello Gheddaffi.

 

 

 

COSA SAI DELLA LIBIA?

 

Dallo scoppio della guerra in Libia, opinionisti, giornalisti, perbenisti e filistei vari hanno iniziato un attacco feroce contro quello che viene chiamato “regime dittatoriale”, asserendo che per il rispetto dei diritti umani il sanguinoso governo di Muammar Gheddafi, in vigore dal 1969 dovesse essere abbattuto in favore dei rivoltosi dissidenti.

 

Di contro progressisti, terzomondisti, euroasiatici e anti-imperialisti si sono schierati a favore e in difesa della “dittatura rivoluzionaria” libica, sostenendo l’autodeterminazione dei popoli e battendosi contro questa impresa neo-colonialista, sostenendo che l’unico governo possibile non può che essere quello di Gheddafi e che i ribelli libici non sono altro che un esigua parte della popolazione.

 

Nel mezzo delle due posizioni, c’è chi non sa se sostenere Gheddafi come eroe dell’emancipazione degli stati in via di sviluppo o controbatterlo come beduino arroccato al posto di comando che ormai ha fatto il suo tempo.

 

Analizziamo così luci ed ombre del governo libico, facciamo le nostre considerazioni e traiamone le dovute conclusioni.

 

 

1.Cosa c’era prima di Gheddafi

 

Alla fine del 2° conflitto mondiale, la Libia, ex-colonia italiana, era caratterizzata da un assenza di uno stato nazional-territoriale ben delineato politicamente e dalla parcellizzazione delle autorità secondo linee tribali, nonch’è dalla totale mancanza di coscienza nazionale da parte del suo popolo. Il paese era, ed è, costituito da 3 regioni assai differenti tra loro, sia riguardo l’aspetto demografico, che politico, che economico: La Tripolitania, regione più ricca e pervasa da uno spirito anti-italiano e anti-colonialista, con un tessuto demografico-economico solido, ma minato dai clan e dalle separazioni e dai privilegi gentilizi; la Cirenaica, dominata politicamente dalle autorità tribali senussite e il Fezzan, regione povera, a ridosso del deserto e caratterizzato da una popolazione principalmente nomadica e quindi privo di un carattere nazionale e politico competente.

 

Riguardo al paese per intero e alla sua condizione, Giorgio Assan scrisse “Il paese appariva privo di quadri, il 94% del popolo era analfabeta, la condizione igienica era allarmante, la mortalità si elevava al 40%, non vi era alcuna base economica e la struttura sociale era arretrata di almeno trecento anni”.La proposta iniziale era quella di dividere lo stato e di “spartirlo” tra l’Italia, a cui sarebbe andata la Tripolitania, l’Inghilterra che avrebbe preso la Cirenaica e la Francia a cui sarebbe toccato il Fezzan, tutto ciò secondo principi autogovernativi della varie regioni sotto l’influenza dei paesi a cui sarebbero state “assegnate”. Questo non avvenne, infatti nel 21 Novembre del 1949 l’ONU bocciò la richiesta e nel 1° Gennaio del 1952 venne proclamata l’indipendenza della Libia come stato unitario monarchico.

 

Secondo la nuova costituzione federale, veniva riconosciuto il regno di Libia, composto da tre regioni, sottoposta ciascuna ad un governatore di nomina regia, con il governo federale sempre di nomina regia e responsabile di fronte al parlamento. Il sistema era bicamerale e prevedeva una camera dei deputati elettiva. I membri del Senato erano 24, otto per regione, dei quali una metà era elettiva, l’altra di nomina regia. Il voto alle donne era negato, sulla questione costituzionale l’ultima parola spettava alla corte suprema. La lingua ufficiale era l’arabo e la religione l’Islam.

 

La Libia era un stato, in realtà, già diviso tra le due capitali, Tripoli e Bengasi, e questo dualismo storico-antropologico adesso veniva rafforzato dalla costituzione federale. Il re Idris, appartenente alla tribù dei senussi, era stato messo al comando dalle nazioni straniere e ne era politicamente dipendente, così come il paese intero che veniva mantenuto dagli ingenti finanziamenti esteri e dall’affitto di basi militari alle potenze straniere inglesi e americane (1). Le tribù senussite, storicamente sono sempre state accondiscendenti alle pretese straniere e vi entravano in accordo, così fecero anche con il regime fascista e così fecero con i britannici, appoggiandoli.

 

La situazione Libica cominciò a farsi incandescente quando nel vicino Egitto vi fu la rivoluzione panaraba dei “Liberi Ufficiali” nel 1952, questo aveva stimolato l’opposizione anti-monarchica e anti-senussa, che rivendicavano la sovranità e l’indipendenza della nazione libica contro il colonialismo straniero.

 

Fin qui lo stato Libico appare come un fantoccio nelle mani straniere, privo di una personalità nazionale, di un sentimento comune del popolo, diviso anche storicamente, visto che le due grandi regioni, Tripolitania e Cirenaica, erano sempre state orientate una verso il Maghreb e l’altra verso l’Egitto. Inoltre la divisione e la lotta tra tribù rendevano difficili la costruzione di un sentimento che giovasse all’intera nazione, piuttosto che alle singole tribù e permaneva un contrasto forte tra sedentari e nomadi, tra gente costiera e dell’entroterra e tra modernizzazione e tradizione. Inoltre l’infeudamento della monarchia al capitale permetteva la formazione di settori borghesi commerciali e finanziari che si legavano all’apparato burocratico corrotto e al nobilitato di corte(2). La mancata coesione nazionale era anche da imputare alla monarchia centralista Senussa, particolarmente arrendevole verso le politiche e le influenze straniere.

 

Come già detto prima i Senussi sono sempre entrati in contatto e a patti con gli invasori stranieri, così fecero con i colonizzatori italiani nel 1911, con cui repressero una rivolta anti-coloniale, e contribuirono alla trasformazione della Libia in uno stato di “servitù militare” ai tempi del fascismo(3).Questa condotta si fece particolarmente sentire quando negli anni 50 fu scoperto il petrolio e le nazioni straniere, con le multinazionali, cominciarono a depredare il paese, ciò fomentò l’ostilità neocoloniale diffusa nella popolazione, tale scontento era capeggiato dai gruppi sindacali e popolari.

 

Perciò nel 1961 Idris represse svariati gruppi nesseriani e filo-baathisti, bandisce i partiti e comincia ad eseguire condanne, tant’è che le rivolte studentesche del 1964 vengono represse col sangue dalla polizia, Tripoli divenne l’epicentro di tali manifestazioni. Tra il m1952 e il 1964 si contarono ben sette crisi ministeriali e vi erano impossibilità di praticare riforme. Così nel 1963 si redasse e si istituzionalizzò una nuova carta costituzionale, che sanciva la nascita di uno stato libico unico e non più federale.

 

Lo scontento aumentava sempre di più, tra la borghesia, gli studenti e gli operai e anche diverse file dell’esercito, nel 1967 il regime ha un piede nella fossa e, nella speranza di salvare la monarchia e la dinastia, Idris abdica a favore di Hassan Rida.

 

“La tribù, il clan, la grande famiglia hanno cominciato a disgregarsi a causa delle migrazioni esterne. Sono all’ordine del giorno le parole: lavoro; coscienza nazionale; impegno; responsabilità, individualismo; mescolanza.”(4)

 

 

2.0 La rivoluzione

 

La monarchia è in caduta libera, il paese al tracollo e soffia il vento della rivoluzione. In questo contesto il militare ventisettenne Muammar Gheddafi, nato in un piccolo villaggio berbero della Sirte, tra nomadi, letture del corano (5) e vita spartana. Nel 1956 si trasferisce nel Fezzan, a Sebha, dove parteciperà a svariate manifestazioni anti-coloniali (1956-1961). Il nazionalismo di Gheddafi va a formarsi, assumendo connotazioni panarabe idealizzate, costituisce una cellula studentesca di protesta e si muove in modo politicamente attivo, ciò non sfugge alla polizxia, che costringe lui e i familiari a trasferirsi dal Fezzan a Misurata. Un suo amico e commilitone in quegli anni (1961-1963) così lo affermò

 

“Gheddafi mi disse di aver riflettuto e che voleva incontrare gli esponenti del partito Baas e di Georges Habbache (ancora non avevano connotazioni marxiste tali partiti), in seguito vi rinunciò perché si perdevano in discussioni sterili e si perdeva solo tempo. Organizzammo la prima seduta del movimento nel 63’ e si decise che tre dei nostri (tra i quali Gheddafi) dovessero entrare nell’accademia militare per creare una cellula di ufficiali liberi, incaricati di portare al movimento il sostegno di parte dell’esercito, indispensabile.(6)

 

Il punto di riferimento ideologico è il panarabismo di Nasser, all’età di 22 anni Gheddafi entra nell’accademia di Bengasi. Perciò Gheddafi punta sulla costruzione di cellule, soprattutto militari, e piuttosto che organizzare una rivoluzione civile e di preparazione popolare, si concentra su quella sovversiva militare, ispirato dalla rivoluzione egiziana. Ciò perché la borghesia era molto debole e il proletariato troppo giovane e senza una coscienza di classe formata. Il tutto venne chiamato “Operazione Gerusalemme” e si tenne il 24 marzo del 1969. Alla radio viene annunciata la rivoluzione in nome di Allah dallo stesso Gheddafi, ciò sarebbe servito per rafforzare l’aspetto anti-coloniale e arabo della rivoluzione e per cementare un arabizzazione islamizzata che avrebbe dovuto portare la Libia al panarabismo.(7)

 

La rivoluzione si compì senza spargimento di sangue e con il re fuori dal paese. A nome del CCR(consiglio della rivoluzione) viene ufficializzata la nascita della Repubblica araba libica. Il programma prevede la piena sovranità nazionale della Libia e il rispetto dei diritti della comunità internazionale. Il principe in carica si dimette a favore dei rivoluzionari, mentre il re Idris chiede l’intervento di Londra, impossibile dato il trattato del 1953 che prevedeva un attacco solo se la Libia fosse stata soggetta ad attacchi esterni.

 

Le reazioni estere sono diverse; i sovrani degli stati circostanti temevano l’influenza della rivoluzione, che avrebbe potuto portare destabilizzazione anche nei loro stati; Mosca applaudiva a tale evento che avrebbe ridimensionato l’assetto britannico-statunitense nella zona; gli USA ritenevano la spinta islamica e religiosa dei nuovi rivoluzionari ottima per rafforzare l’anti-comunismo e impedire l’avanzata dei sovietici nelle zone circostanti il mediterraneo.

 

Viene posta l’economia al primo posto e vengono emanate una serie di riforme volte a diminuire l’inflazione tagliando le spese sui ministeri, imponendo il controllo statale sui prezzi, si aumentano i salari minimi e si dimezzano gli affitti. Le rendite subiscono un taglio del 30% e nel 1972 viene introdotta una legge di imposta progressiva sul reddito.

 

 

2.5 Gheddafi ed il socialismo islamico

 

Gheddafi dichiara “Tutti sanno che io sono sempre stato impegnato contro il sionismo, l’America e l’alleanza atlantica” ciò certamente lo rende un terzo mondista e progressista, ma certo non un socialista. Difatti Gheddafi non è socialista, o almeno il suo concetto di socialismo non ha nulla a che fare con quello occidentale e può sembrare più una sorta di terzo posizioniamo e fusione di elementi socialisti e capitalisti, prova di questo è la crisi mondiale che investì anche la Libia negli anni Ottanta e che causò una larga privatizzazione delle imprese e degli enti libici, cosa che in uno stato socialista non sarebbe mai accaduto. Ma Gheddafi dichiara anche

 

“La nostra concezione del socialismo implica che tutti possano prendere parte alla produzione, al lavoro e alla distribuzione dei prodotti. Il nostro è un socialismo islamico, patrocinato dall’Islam. Mentre la parola socialismo è stata designata in Occidente per rappresentare il possesso della produzione e dei suoi mezzi da parte della società, in arabo vuol significare associazione e lavoro svolto in comune. Vuol significare l’associazione dei prodotti e dei beni di un gruppo di un popolo tanto nella ricchezza quanto nei doveri e nella responsabilità”(8)

 

Discorso assai ambiguo e confuso, che lascia trasparire una società inter-classista e al di fuori delle teorie marxiste e sovietiche. Infatti verrà dichiarato ancora dallo stesso Gheddafi:

 

“Si assiste oggi ai tentativi dei paesi comunisti di esercitare una dominazione economica. Sono amico dei paesi comunisti ma mi limito a questo. Si pretende che il mio paese sia dominato nel campo di una grande potenza. Una sorta di manomissione del Terzo mondo, con l’intenzione di seminare il dubbio. Il comunismo è completamente diverso dal comunismo”(9)

 

Questo discorso si tenne alla conferenza dei paesi non allineati di Algeri del 1973, in opposizione a Fidel Castro che sosteneva l’impegno dell’URSS nell’emancipazione e nello sviluppo dei paesi africani. Ciò lascia trasparire la totale ignoranza di Gheddafi sul campo teorico marxista-leninista e la totale confusione su questa filosofia anche in campo teorico e dimostra come egli guardava all’URSS non come vero alleato ma come utile peso della bilancia per farsi largo nella comunità internazionale e aumentare la competitività tra le due nazioni per accaparrarsi il suo sostegno, fondamentale per l’assetto geopolitico africano.

 

Ma Gheddafi affermò anche che:

 

“L’islam è certamente il messaggio eterno, la rivoluzione continua, la madre del progresso. La nazione araba è la madre del socialismo perché esso è presente e trova la sua origine nel corano. Né Marx, né Lenin, né i teorici e filosofi, nessuno è riuscito a stabilire un regime migliore di quello dell’Islam sul piano economico e morale”(10)

 

Si è passati alla totale denigrazione dei grandi socialisti e del suo stesso fondatore, e Gheddafi si è eretto come unico vero sostenitore del socialismo.

 

E ancora

 

“Se è vero che il capitalismo, dando briglia sciolta all’individuo, ha trasformato la società in una vera e propria baraonda; il comunismo pretendendo di trovare la soluzione ai problemi economici con la soppressione della proprietà privata ha finito per trasformare la popolazione in un branco di pecore”

 

“La vera legge della società è costituita dalla tradizione e dalla religione. Ogni tentativo di elaborarla al di fuori di queste due fonti è inutile e illogico. Le leggi non religiose e non tradizionali sono creazioni dell’uomo, pertanto sono ingiuste […] la legge della società non può quindi essere oggetto di redazione o codificazione. L’importanza della legge sta nel criterio di distinzione del vero dal falso, il giusto dall’ingiusto, come pure i diritti e i doveri degli individui.”

 

Queste citazioni sono tratte direttamente dal libro verde, e costituiscono la conferma incontestabile del fatto che Gheddafi non solo non è socialista (o come lui afferma comunista, ma si sa che essere l’uno comporta l’essere anche l’altro) ma neanche materialista, e annulla l’importanza delle leggi scritte. Più che socialismo islamico quello di Gheddafi è terzo-posizionismo arabo, ma nonostante egli nei suoi discorsi teorici sia estremamente contraddittorio e con oscillazioni che vanno dal capitalismo al socialismo, dalla privatizzazione alla pubblica proprietà, certamente è innegabile il fatto che abbia rappresentato una vera svolta per il popolo libico, sicuramente positiva e che ha portato ad una evoluzione, con luci ed ombre che ogni evoluzione comporta.

 

 

3.0 La svolta della Libia con Gheddafi

 

Il nuovo stato libico era stato messo in piedi con principi ispiratori ben precisi, quali la decolonizzazione, l’emancipazione dagli stati esteri e la lotta al razzismo e al sottosviluppo, tutto questo affermando che lo stato è di ispirazione socialista e fondato sui principi del corano{1*}

Ciò comporto la liquidazione della presenza straniera del territorio (smantellamento delle basi straniere e delle organizzazioni) e l’inserimento dello stato del movimento terzomondista neutrale.

 

Riguardo all’aspetto economico Gheddafi ribadiva la sua posizione anti imperialista e socialista, prevedendo la possibilità del contatto tra proprietà privata e politica di piano. L’organo supremo della repubblica era il consiglio rivoluzionario CCR, che deteneva il potere legislativo, vengono istituiti tribunali speciali sempre con a capo il CCR.Il consiglio dei ministri aveva compito consultivo, per poi far passare il decreto nelle mani del CCR che aveva sempre l’ultima parola e decideva di ufficializzarli e metterli in pratica.

 

Nel 1970 Gheddafi riesce ad accumulare una serie di cariche che gli consentono di diventare la guida del paese, capo di stato; capo di governo; capo del CCR; ministro della difesa e del comitato supremo di piano.

 

In seguito prende piede la costruzione di un nuovo sistema statale, detto Jamahiriya istituito nel 1976, e lo stato libico prende un nuovo nome “Repubblica popolare araba di Libia”. Essa prevede una articolazione incentrata sui congressi popolari, associazioni professionali e federazioni della società civile. I ministri assumono il nome di segretari e si riuniscono in un comitato generale del popolo. Nel 1979 Gheddafi rinuncerà alla carica di direttore del congresso generale del popolo.

 

Nel 1991 vengono introdotti provvedimenti giuridici per la libertà degli individui. L’art.8 prevedeva libera espressione a patto che questa fosse esercitata nelle pubbliche assemblee e sotto gli organi di stampa governativi; l’art. 16 riconosceva il rispetto della vita provata e gli articoli 11 e 12 la proprietà privata.

 

La prima cosa che il governo fece fu la nazionalizzazione delle banche (Banco di Napoli, Banco di Roma, Barclays Bank) poi vi fu la presa di controllo della produzione delle basi petrolifere, a scopo della reciproca intesa e ricchezza (Così disse Gheddafi in un intervista con la giornalista Mirella Bianco), per favorire la Libia nelle azioni commerciali e far si che traesse vantaggio dalla competizione tra imprese, potendo anche scegliere il prezzo dei barili.

 

Ciò andava in netto contrasto con la volontà americana di favorire le imprese a scapito dei paesi possessori di petrolio, contro il quale Gheddafi tuonerà “Gli americani sono convinti di dominare il mondo con le loro flotte e basi militari. L’imperialismo americano appare come un sostegno illimitato alle compagnie monopolistiche a scapito dei paesi possessori di petrolio che così non possono amministrare il loro bene”(11)

 

La Libia così potè amministrare il suo bene più prezioso e finanziare le sue opere pubbliche, ma tutto cambiò negli anni Ottanta, con la periodica crisi di produzione e al crollo dei prezzi del petrolio (1982). {2} La situazione libica peggiora con i bombardamenti del governo Regan e il successivo isolamento economico.

 

 

3.0 L’impegno per l’emancipazione degli stati Africani e nord Africani

 

Checchè se ne dica Gheddafy si è sempre mosso concretamente per l’emancipazione e la costruzione degli stati arabi e Africani. Tale condizione è dovuta all’identità religiosa e culturale dei paesi arabi, che secondo il rais avrebbero potuto abbattere le barriere etniche tra berberi e arabi e sarebbe riuscita a fare da collante per la creazione di una unità araba. Ovviamente ciò non poteva che andare a vantaggio degli stati nord Africani che, uniti dall’Atlantico al Golfo persico avrebbero formato un blocco abbastanza forte da poter respingere il neo-colonialismo occidentale che fino ad allora contribuiva alla divisione di questi stati. Oltre a queste spiegazioni, Gheddafy, ricorse anche al corano, investendo in questo compito di ricomposizione degli stati arabi in una comunità, per poi passare all’unione intera del mondo musulmano un dovere divino(12)

 

In merito è importante citare il vertice di Rabat del 1969, dove Gheddafi criticò aspramente le posizioni conservatrici, filo-imperialiste e egofamiliari dei sultani sauditi e ribadì le sue posizioni antisioniste e filo-palestinesi. Con la carta di Tripoli del 1971 si generò una federazione anti imperialista e antisionista rivoluzionaria che però non si concretizzerà operativamente dei quali facevano parte Egitto, Libia e Sudan. Gheddafi intraprese anche rapporti con il Siriano Hafez Al-Assad, cercando di formare un progetto unitario, ma perse l’appoggio di Nimeiry il sudanese (da notare che in Gheddafy consegnò a Nimeiry alcuni comunisti che vennero poi impiccati tra i quali vi era Abdel Chalet Majhoub) a causa di un incidente riguardo un gruppo destabilizzatore che ha trovato la sua base di addestramento in Libia. Nonostante questo nel 1971 viene annunciata la federazione delle repubbliche arabe componenti Libia, Egitto e Siria, per scopi difensivi. In seguito (1972). Gheddafy propose a Sadat di passare dalle federazione alla fusione tra Libia ed Egitto. Ciò però non avvenne a causa dell’allontanamento di Sadat dall’URSS e all’avvicinamento di questo agli USA che sfociò in incidenti diplomatici con la Libia e resero la possibilità di fusione impossibile.

 

Gheddafy così lancia un offerta alla Tunisia cui prospetta una fusione in forma di Repubblica araba islamica (1974) ma anche questo tentativo fallì, insieme all’aggancio con la Siria di Al-assad più propenso verso l’URSS. Falliti i tentativi di aggancio ad est e in generale la creazione di un grande Magrebh Gheddafy si orientò a sud. Da qui Gheddafy cominciò una politica di sostegno agli stati africani sottosviluppati e riversò su questi una vasta quantità di petrodollari. L’emancipazione degli stati africani implicava la formazione di classi dirigenti e sovrastrutture politiche capaci di spezzare le antiche dipendenze coloniali, cosa che non andava molto giù alla Francia che vide minacciati i suoi interessi ufficialmente spenti ma ufficiosamente presenti in Africa. Questa tentava perciò di destabilizzare da tempo la Libia, per la difesa dei propri interessi e contro l’esportazione della rivoluzione libica. Dall’altra parte cominciavano anche le interferenze di Washington che cercava di sorvegliare controllare le situazioni in Africa temendo sbilanciamenti verso i sovietici del continente.

 

La propaganda di Gheddafy per l’esportazione della rivoluzione aveva caratteri anche religiosi, con i quali Gheddafy rilanciava la cultura africana e musulmana in opposizione al colonialismo e alla religione cristiana che diceva rappresentasse proprio un vecchio ostacolo per l’emancipazione dei popoli africani. In occasione del vertice dei capi di stato saheliani Gheddafi lancia la prospettiva in un unione degli stati africani, detti Stati uniti del Sahara nel 1997 dichiarando “I porti libici saranno aperti ai nostri fratelli africani, voglio creare una nuova potenza economica (13) dei quali avrebbero fatto parte Libia, Niger, Burkina Faso, Mali, Nigeria e Ciad. Questa proposta era dettata anche dallo scioglimento dell’URSS e dal monopolio che adesso aveva Washington.

 

Nel vertice di Lomè, Tripoli si farà carico delle maggiori spese per la realizzazione di un progetto che avrebbe riparato al degrado materiale ed economico causato dalle politiche neoliberiste del fondo monetario internazionale e dalla Banca mondiale. Gheddafy proporrà anche la creazione di una banca africana per lo sviluppo ed il commercio. Nel 2003 viene eletto dagli altri stati africani come Alto commissario alla presidenza delle nazioni unite per i diritti dell’uomo.

 

 

4.0 Alleato di convenienza, nemico per eccellenza

 

Contrariamente a quanto si possa pensare Gheddafi non è sempre stato nemico degli USA, e lo stesso vale al contrario. Inizialmente gli USA appoggiarono e consentirono l’ascesa del governo del rais libico e certo se non si vuole ammettere che si è provato ad instaurare un rapporto tra i due paesi, certo gli USA gli hanno lasciato gioco facile e hanno chiuso gli occhi su alcuni suoi atteggiamenti. Infatti una cosa che non si potrà mai negare riguardo Gheddafi è che ha sempre sostenuto il popolo palestinese ed è sempre stato impegnato contro il sionismo, ma ciò non scoraggiava gli USA che non premevano per una sua caduta. Infatti ai tempi in cui l’URSS era ancora integra gli USA vedevano Gheddafi come un ottimo alleato in funzione anti-sovietica, date le persecuzioni ai partiti e ai movimenti della fratellanza mussulmana, degli afro-marxisti, del movimento baathista e dei sostenitori sovietici in generale. Il tutto accadeva sotto la presidenza Nixon, che guardava positivamente tali azioni e considerava Gheddafi un ottimo muro contro il movimento sovietico, prova di questo fu il sostegno che Gheddafi diede al dittatore “socialista” sudanese Nimeiry nello sventare un colpo di stato comunista (1971).

 

Cosa accadde? Per ripicca e avversione verso le trattative di pace tra Israele ed Egitto (dopo Nasser, sotto Sadat), Gheddafi firma con Mosca un accordo strategico, 18 Gennaio 1974, ciò per denunciare l’Egitto come complice delle ingerenze dei paesi occidentali in Africa. In seguito Gheddafi rivendicherà l’estensione del territorio libico sul golfo della Sirte (1973). Il rapporto andò sempre a peggiorare, prima a causa degli accordi di Camp David e in fine con l’incendio a Tripoli dell’ambasciata statunitense(1979). La situazione peggiorò con l’insediamento alla casa bianca di Regan (1981), che Gheddafi accusava di ingerenze nelle questione degli stati africani, di contro cercherà di raffreddare i rapporti opponendosi all’insediamento di basi militari sovietiche, ma ciò senza successo poiché Washington già preparava movimenti per il rovesciamento del regime libico e aveva espulso vari esponenti libici dall’America accusandoli di terrorismo. Tutto ciò però non interruppe gli scambi commerciali tra Libia e America, e lo scambiò di greggio fluì senza troppe ripercussioni.

 

Cominciò così il movimento contro Gheddafi e la Libia, forte anche dell’intenzioni della CIA che premeva per una capitolazione del rais (14), cominciò a praticare addestramenti nelle acquee vicino Tripoli, si mosse per l’armamento di diverse cellule sovversive, praticò una informazione sul regime volta a spingere le masse a vedere di buon occhio la possibile caduta di Gheddafi, diffondendo anche diverse voci sul suo conto. Da qui a poco tempo l’accerchiamento della Libia e le sanzioni economiche fatte contro questa portò alla rappresaglia e al bombardamento americano sui civili nel 1986, ciò però non trovò molti consensi e anche il ministro della difesa italiana del tempo, Spadolini, si dissociò da tali atti. L’attenzione poi si concentrò altrove, senza però tenere in disparte la Libia, ormai etichettato come stato canaglia.

 

Gli USA non allentarono la loro morsa, nonostante le proposte economiche di Gheddafi riguardo al petrolio, la sua marcia indietro sui finanziamenti alle rivoluzioni di liberazione in Africa e al sostegno che le imprese petrolifere davano alla Libia per poter commerciare liberamente. L’embargo continuava imperterrito, ciò danneggiava la Libia e Gheddafi e fomentava le opposizioni e i tumulti nel paese. Gheddafi certo non lasciò nulla al caso, perciò coglieva sempre la palla al balzo quando vi erano suoi sostenitori in campo internazionale, e a quel tempo le manovre USA furono molto criticate dalle cancellerie europee e dal Vaticano, che condannavano le sanzioni imposte al paese, senza contare che molti accusavano Clinton di favorire, così, di rafforzare il clima anti-occidentale e di favorire movimenti terroristici, Gheddafi disse “Se crollo io il mediterraneo diverrà un mare insicuro e l’Europa conterà i morti, il nord Africa diverrà un covo di terroristi islamici” alimentando le paure delle popolazioni e dei governi europei.

Il disgelo con la Libia cominciò solo dopo l’11 settembre, poiché rappresentava un ottimo alleato contro il radicalismo islamico ed il terrorismo internazionale jihaddista.

 

 

5.0 Analisi e riflessioni finali

 

Avendo analizzato buona parte della politica estera e interna della Libia, del suo passato e delle azioni che il suo rais ha compiuto che l’hanno portata a questo punto, non rimane che tirare le somme e concludere analizzando il presente stato in cui riversa il paese libico. Abbiamo ribadito come in Libia non esista una forte coscienza ed unità nazionale, a causa di ciò non esiste neanche un forte movimento che raggruppi grandi fasce di popolazione, ne è stato presente una forte coscienza di classe e movimenti legati a queste. In Libia tutt’ora esistono tribù alleate e nemiche, che hanno come solo scopo il controllo e l’affermazione propria e di quelle alleate, così non può considerarsi altrimenti per Gheddafi e per il movimento ribelle, capeggiato dalla storica tribù dei senussi, ostili da sempre a quelle tripolitane.

 

E perciò cosa mai potrà offrire un possibile governo alternativo dopo quello di Gheddafi? Certo non cambierebbe molto tra un passaggio di tribù ad un altra per la popolazione, se non per la politica estera libica che sarebbe innegabilmente più aperta alle ingerenze straniere e alle infiltrazioni di basi militari e lobby, cosa che potrebbe danneggiare le condizioni della Libia molto di più rispetto al governo di Gheddafi, che si è sempre impegnato per la sua indipendenza, portandola ad essere uno stato africano emergente rispetto a tutti gli altri e superando o raggiungendo stati del continente africano quali Sud africa ed Egitto.

 

Senza contare che l’intervento dei bombardamenti stranieri ha decisamente fatto più vittime del regime, dei ribelli e delle guerre intestine che si sono svolte nel corso degli anni il Libia. Come bisognerebbe considerare quindi Gheddafi? Un salvatore del suo popolo o un dittatore spietato che nuoce ad ogni causa meno che alla sua?

Dopo aver analizzato la storia e le politiche libiche degli anni addietro e recenti non possiamo che affermare che Gheddafi, nonostante abbia avuto posizioni oscillanti tra Washington e Mosca, nonostante sia stato sempre soggetto al populismo e all’irretimento delle masse con la sua ottima conoscenza del corano e anche se ha ridotto a silenzio gran parte degli oppositori e con colpi di mano eccellenti ha sventato minacce per la sua politica anche in modo decisamente violento ed aggressivo, si è sempre dimostrato un convinto sostenitore dell’indipendenza e dell’affermazione degli stati arabi ed africani, calpestati dagli occidentali e ridotti o al colonialismo o a barbari con cui non si può intraprendere un dialogo.

 

Ha sempre cercato di assicurare al suo paese una condizione di spicco rispetto agli altri, e conseguentemente anche a lui, visto che la storia della Libia dagli anni 70 a oggi è legata a se, cercando di farlo emergere da condizioni di sudditanza e arretratezza, modernizzandolo e portandolo avanti, nel bene e nel male, cercando di legare il popolo diviso in tribù attraverso il corano e la sua politica nazionalista e così anche il mondo arabo e africano in generale diviso, per farsi che fosse forte contro l’egemonia straniera. Non ha quindi deragliato da questo obbiettivo di riscatto e le sue politiche non sono state che correlate a questa sua ambizione, portare la Libia e l’Africa ai livelli dei vecchi colonizzatori, rilanciando le tradizioni e cercando di contrastare le contraddizioni che si vengono a creare tra usanze e metodi passate e azioni future.

 

Troppo facilmente è stata presa una posizione da tutti i critici della domenica, che si sono schierati superficialmente con o contro Gheddafi a priori senza mai considerare o le sue luci o le sue ombre nel complesso, ma solo una parte di questo. Per riuscire a capire davvero questa guerra e la situazione libica non si può formulare giudizi dell’ultimo momento, con qualche azione recente, ma solo con uno studio complessivo della vita libica e della politica di Gheddafi, e dopo, tirando le somme delle sue luci e delle sue ombre, esprimere un giudizio consapevole. Tale giudizio non potrà non tenere conto dell’oggettività delle azioni fatte nel corso del tempo dal rais.

 

E perciò doveroso dire che il futuro che si prospetta per la Libia con i ribelli, pronti a svenderla alle nazioni straniere, è più oscuro di quello che potrebbe avvenire sotto Gheddafi. E bisogna sempre considerare come l’ingerenza nei paesi stranieri, senza una reale presa di coscienza della popolazione, e quindi l’importazione della democrazia è un fallimento che già è stato sperimentato e che rischia di ripetersi anche il Libia. Contando anche sul fatto che una dittatura ufficiale è più facile da combattere di una silenziosa, e che per questo molti che erano schierati contro Gheddafi ora sono passati dalla sua parte, poiché temono l’avanzata di un controllo più feroce da parte degli stati stranieri, depredatori di terre, ed una più difficile condizione per la lotta contro l’oppressione dell’uomo sull’uomo in generale. Il danno fatto dalla guerra di “liberazione” è molto più alto di quello che Gheddafi ha compiuto nel corso dei suoi anni di governo e si rischia di distruggere anche le conquiste che questo è riuscito a portare al suo paese.

 

Ragionando, quindi, per il favore della popolazione libica e per il suo futuro, non si può che rifiutare ferocemente la guerra, senza timore di difendere anche Gheddafi, poiché in questo momento egli rappresenta la lotta di Tripoli e della popolazione libica contro il neo-colonialismo straniero. Ciò senza sprofondare in un sostegno cieco e ideologico, poiché gli errori di Gheddafi ci sono stati, sono stati molti e vanno criticati, ma essi non possono pregiudicare la sua funzione attuale di difensore della libertà di decisione libica. Non si può pretendere di schierarsi contro la guerra e con l’indipendenza della Libia senza schierarsi anche dalla parte di Gheddafi, poiché sarebbe come sperare nella sconfitta di una squadra senza voler ammettere che si fa il tifo per la seconda, il sostegno all’altra è implicito ma momentaneo date le circostanze.

 

 

Bibliografia

(1)[Del Boca: op.cit;p 427.]

(2)[Alessandro Aruffo, in Gheddafi, storia di una dittatura rivoluzionaria;p.16]

(3)[ Mehdi Mustafa, in Libia: storia di una servitù militare, n.12 del Dicembre 1970]

(4)[Ch.Sourian, in “Annuaire del’Afrique du Nord]

(5)[Il padre lo affida ad un maestro che gli insegna a memoria i passi del corano; Alessandro Aruffo, in Gheddafi, storia di una dittatura rivoluzionaria;p.23]

(6)[Ivi.pp.47-8]

(7)[testo della dichiarazione preso dal Midle est journal vol.24]

(8)[Cit. in Bianco p.147]

(9)[Cit. in Quaderni internazionali; p147]

(10)[Cit. in A.Savioli in Sono un rivoluzionario non un politico]

(11)[Le Monde; 13 Giugno 1973]

(12)[Sura III, 104]

(13)[Jaune Afrique n1992 ediz. 1997]

(14)[B.Woodward; "le guerre segrete della CIA", pp180; Milano 1978]

*{1}[v.d paragrafo 2.5]

*{2}[il misto tra capitalismo e socialismo di Gheddafi fa rientrare la Libia nella routine delle crisi di sovrapproduzione, ulteriore prova del fatto che lo stato non avesse basi socialiste]

 

 

Altro materiale sul tenore di vita:

 

http://latorredibabele.blog.rai.it/2008/06…vere-da-libici/

 

www.intopic.it/forum/tecnologia/crittografia/78250/

 

—–

 

Scritti di Moammar El Gheddafi:

 

Il Libro verde

 

Ricordi della mia vita

 

Fonte: terzorisorgimento.forumfree,it

 

 

 

Fonte_ visto su NOCENSURA del 12 agosto 2014

Link: http://www.nocensura.com/2014/08/controstoria-di-saddam-hussein-e.html

 

LA CORRISPONDENZA MAZZINI-PIKE DEL 1870

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Pike

 

Tratto da “Massoneria e sette segrete: la faccia occulta della storia

 

Albert Pike (1809-1891), massone del 33° grado, Sovrano Gran Commendatore del Supremo Consiglio del R.S.A.A. (Rito Scozzese Antico e Accettato) della Giurisdizione Sud degli Stati Uniti. 
Membro onorario di quasi tutti i concilii supremi del mondo, e membro del K.K.K, Ku Klux Klan. 
Amico del frammassone Giuseppe Mazzini

 

Mazzini tratteneva una fitta corrispondenza col Pike: ai fini del nostro studio sono ben significative due lettere in particolare: quella che Mazzini inviò al Pike il 22 gennaio 1870 e quella del Pike a Mazzino datata 15 agosto 1871. Jean Lombard annota che questa corrispondenza si trova depositata negli archivi di Temple House, la sede del Rito Scozzese di Washington, ma off limits cioè di consultazione vietata; pur tuttavia la lettera di Albert Pike, scritta il 15 agosto 1871, venne una volta esposta alla British Museum Library di Londra. Là un ufficiale di marina canadese, il commodoro William Guy Carr (presente in veste di consulente per gli Stati Uniti alla Conferenza di San Francisco del 26 giugno 1945) poté prenderne conoscenza e pubblicarne un riassunto nel libro citato Pawns in the Game.

 

Il documento è curiosamente profetico e precorritore della sinistra triade “crisi-guerra-rivoluzione”, che ha tormentato il XX° secolo. Ecco in che forma lo presenta il Carr:

 

“[ ... ] La prima Guerra Mondiale doveva essere combattuta per consentire agli “Illuminati” di abbattere il potere degli zar in Russia e trasformare questo paese nella fortezza del comunismo ateo. Le divergenze suscitate dagli agenti degli “Illuminati” fra Impero britannico e tedesco furono usate per fomentare questa guerra. Dopo che la guerra ebbe fine si doveva edificare il comunismo e utilizzarlo per distruggere altri governi e indebolire le religioni.

 

La Seconda Guerra Mondiale doveva essere fomentata approfittando della differenza fra fascisti e sionisti politici. La guerra doveva essere combattuta in modo da distruggere il nazismo e aumentare il potere del sionismo politico, onde consentire lo stabilimento in Palestina dello stato sovrano d’Israele. Durante la Seconda Guerra Mondiale si doveva costituire un’Intemazionale comunista altrettanto forte dell’intera Cristianità. A questo punto quest’ultima doveva essere contenuta e tenuta sotto controllo rin quando richiesto per il cataclisma sociale finale. Può una persona informata negare che Roosevelt e Churchill hanno realizzato questa politica?

 

La Terza Guerra Mondiale dovrà essere fomentata approfittando delle divergenze suscitate dagli agenti degli Illuminati fra sionismo politico e dirigenti del mondo islamico. La guerra dovrà essere orientata in modo che Islam (mondo arabo e quello musulmano) e sionismo politico (incluso lo Stato d’Israele) si distruggano a vicenda, mentre nello stesso tempo le nazioni rimanenti, una volta di più divise e contrapposte fra loro, saranno in tal frangente forzate a combattersi fra loro fino al completo esaurimento fisico, mentale, spirituale ed economico.

 

[ ... ] Il 15 agosto 1871 Pike disse a Mazzini che alla fine della Terza Guerra Mondiale coloro che aspirano al Governo Mondiale provocheranno il più grande cataclisma sociale mai visto. Si citano qui le parole scritte dallo stesso Pike nella lettera che si dice catalogata presso la biblioteca del British Museum di Londra:

 

“Noi scateneremo i nichilisti e gli atei e provocheremo un cataclisma sociale formidabile che mostrerà chiaramente, in tutto il suo orrore, alle nazioni, l’effetto dell’ateismo assoluto, origine della barbarie e della sovversione sanguinaria. Allora ovunque i cittadini, obbligati a difendersi contro una minoranza mondiale di rivoluzionari, questi distruttori della civiltà, e la moltitudine disingannata dal cristianesimo, i cui adoratori saranno da quel momento privi di orientamento alla ricerca di un ideale, senza più sapere ove dirigere l’adorazione, riceveranno la vera luce attraverso la manifestazione universale della pura dottrina di Lucifero rivelata finalmente alla vista del pubblico, manifestazione alla quale seguirà la distruzione della Cristianità e dell’ateismo conquistati e schiacciati allo stesso tempo!”

 

“Quando Mazzini mori nel 1872 – prosegue ancora il Carr – nominò suo successore un altro capo rivoluzionario, Adriano Lemmi. A Lemmi più tardi sarebbero succeduti Lenin e Trotzkij. Le attività rivoluzionarie di tutti costoro vennero finanziate da banchieri inglesi, francesi, tedeschi e americani. Il lettore deve avere presente che i banchieri internazionali dì oggi, al pari dei cambiavalute dei tempi di Cristo, sono solo strumenti e agenti degli Illuminati. Mentre al grande pubblico era lasciato credere che il Comunismo è un movimento di lavoratori per distruggere il Capitalismo, gli ufficiali dei Servizi di Informazione inglesi e americani erano in possesso di autentica evidenza documentaria comprovante che capitalisti internazionalisti operanti attraverso i loro istituti bancari avevano finanziato entrambe le parti in ogni guerra e rivoluzione combattute dal 1776″

 

Giuseppe Mazzini, frammassone fondatore della “Loggia Propaganda P1” (da non confondersi con la “Loggia Propaganda P2” fondata da Adriano Lemmi nel 1875) e della “Prima Internazionale Comunista” (“L’altra faccia di Carlo Marx“, ed. Uomini Nuovi).

 

 

Fonte: visto su DISINFORMAZIONE.IT

Link: http://www.disinformazione.it/mazzini.htm

 

COMUNISTA A OBBEDIR TACENDO

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Napolitano, comunista uso a obbedir tacendo. Un ritratto irriverente

 

 

di Romano Bracalini

 

 

Già prima di diventare capo dello Stato, unico esempio in campo occidentale di un comunista assurto ai più alti fastigi, a Napoli, la sua città, lo chiamavano O’ Re per l’impressionante rassomiglianza con il principe Umberto di Savoia di cui si mormorava fosse il figlio spurio.

Una certa alterigia, che gli viene dalla milizia comunista, sia pure raffazzonata dal Bottegone romano, l’ha sempre avuta e si direbbe un portato della scuola autoritaria, ma nei fatti l’uomo si è sempre barcamenato guardandosi bene dal mettersi in urto con chi comandava nel partito.

 

Fu un devoto seguace di Togliatti, anche nelle scelte più odiose e imbarazzanti, però collocandosi a “destra” nel partito, per poter più agevolmente accomodarsi alla corte del vincitore di turno. E’ sempre stato un gregario, non un protagonista. Ma con la vocazione al compromesso, all’accomodamento, linea che non contrastava con la bonarietà partenopea, alla morbidezza melliflua del carattere, che mal si addicevano alla severità del dogma vigente e praticato. Il grigiore, anche nel parlare monotono, senza slanci, appartiene al suo ostentato abito di modestia, che tuttavia svela una tattica di attendismo e di furbizia.

 

Napolitano è sempre stato un rivoluzionario con la vocazione dello statale che aspira al posto sicuro, un proletario “alle vongole” più a suo agio da “Zi Teresa” che in cellula. La sua natura di comunista “anema e core”, in fondo innocua e tuttavia collaborazionista, s’era già rivelata in gioventù a Napoli.

Le sue prime prove di attivista “comunista”, risalivano ai primi anni Quaranta, quando il fascismo era vicino al crollo e i rischi erano minori, quando insieme ad altri studenti napoletani – Massimo Caprara, Antonio Ghirelli e Luigi Compagnone -, era iscritto al GUF di Napoli, ovvero ai Gruppi universitari fascisti. In realtà definirsi comunisti prima della caduta del regime pareva, in parecchi casi, un arbitrio o una millanteria, oltre che un falso storico, e infatti molti comunisti del giorno dopo lo diventarono a babbo morto, a scampato pericolo, retrodatando la data del loro presunto “antifascismo” per renderlo più “eroico” e meritevole d’elogio, passando dal fascismo al comunismo senza cambiare d’una virgola il loro bagaglio illiberale e autoritario.

 

L’attività pubblicistica di Napolitano e dei suoi compagni d’università consisteva nello scrivere sul giornale del GUF, “9 maggio”, poesie e articoli di intonazione politica non del tutto in contrasto con le direttive del regime, di certo nulla di eretico. Lo stesso titolo del giornale universitario “9 maggio” (dell’anno 1936), era la data della fondazione dell’impero. Tutto in perfetta regola. Nulla di serio. Dopo la laurea in legge, che a Napoli città d’avvocati, è sempre stata un attestato di prestigio, Napolitano si diede alla politica che non impone la fatica di un lavoro metodico, e in politica c’è rimasto per tutta la vita.

 

In tutta la sua carriera non gli si conoscono gesti clamorosi, detti memorabili, atteggiamenti intransigenti. Per molti comunisti critici e dubbiosi, il momento della verità venne con l’invasione sovietica dell’Ungheria, il 23 ottobre 1956. Anche allora Napolitano, già trentenne, non si espose, non mosse un dito. Palmiro Togliatti aveva bollato l’insurrezione ungherese come “controrivoluzione fascista” ed aveva accusato gli intellettuali magiari di voler “distruggere il partito”.

Sull’Unità (che è passata da Antonio Gramsci alla Maria Novella Oppo, controfigura in brutto del fondatore), scrisse un articolo intitolato arditamente: “Per difendere la civiltà e la pace”, che Napolitano sottoscrisse interamente facendo l’elogio dell’URSS che “aveva salvato la pace” e criticando aspramente Antonio Giolitti che come tanti altri aveva abbandonato il partito.

Anche quella volta non s’era discostato dalla linea d’obbedienza moscovita imposta da Togliatti. Sempre con chi comanda, sia pure con l’aria di dissentirne. Sempre sorridente, con la boccuccia a culo di gallina, non gli si conoscono dubbi e incertezze che abbiano incrinato col tempo la fede assoluta nel comunismo sia pure corretto e “riformato” col solito ritardo.

 

E’ stato di gran lunga il peggior presidente della repubblica, per di più eletto due volte, un presidente petulante e fastidioso che pontifica su tutto e non conosce freni, come i cingolati della sua giovanile passione, e come non bastasse la crisi della politica, la caduta del potere partitocratico, ha rafforzato il suo ruolo istituzionale fino al punto da fargli travalicare i poteri che la Carta non consente al Capo dello Stato.

Nel suo comunismo “borbonico” sembra non aver capito che in una repubblica parlamentare, sia pure disdicevole e screditata come quella italiana, non ci si comporta come il capo di una repubblica presidenziale che disfa e fa i governi. Non solo, ma in questi ultimi giorni ha anche imposto la sua agenda elettorale, dicendo che il governo Letta deve andare avanti, che non ci saranno elezioni a breve scadenza e minacciando di “lasciare“ se qualcuno osasse contraddirlo.

 

Le sue passate esperienze di ministro lasciavano presagire le sue gesta di futuro presidente. Presidente della Camera, ministro di polizia, dove non ha brillato per liberalità e lungimiranza, co-autore della legge Turco-Napolitano, deputato europeo a Bruxelles, infine senatore a vita per i suoi 80 anni trascorsi interamente dalla parte dei carri armati e della verità rivelata dalla Pravda. Un uomo d’ordine dentro il partito più stalinista dell’Occidente.

 

Altrove l’avrebbero processato o messo al bando per complicità con la dittatura sovietica, in Italia è stato premiato col laticlavio e la nomina alla più alta carica dello Stato. Il paese dell’incontrario.

 

Fonte:http://www.lindipendenza.com/napolitano-comunista-uso-a-obbedir-tacendo-un-ritratto-irriverente/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=napolitano-comunista-uso-a-obbedir-tacendo-un-ritratto-irriverente del 19 Dicembre 2013

 

 

 

Fonte: visto su IL CORRIERE DELLE REGIONI del 19 dicembre 2013

Link: http://www.ilcorrieredelleregioni.it/index.php?option=com_content&view=article&id=2940:777777777777777777777777777774444&catid=121:lo-smemorato-siberiano&Itemid=152

 

 

 

NAPOLITANO, IL PRESIDENTE PERFETTO PER TUTTI “ER BATMAN” D’ITALIA

 

 

 

Napolitano Angered By Steinbrueck Comment

 

 

Giorgio Napolitano ha alzato il ditino raggrinzito ed ha ammonito a brutto muso: “Vergogna”! Per non dare adito al “popolino” di fraintendere il contenuto del suo messaggio, ha pensato bene di prendere ispirazione da un certo postribolo laziale zeppo di maiali – usi grufolare con e senza maschera tra i soldi dei tassati – ed ha tuonato con veemenza: “Una vergogna gli scandali in Regione. Uno smacco per la gente onesta. Cose inimmaginabili”. Perdinci, l’uomo del Colle ha detto no! E lo ha fatto dall’alto di quel suo immacolato curriculum vitae – come racconta da sempre la stampa “regimental” – che farebbe di lui un moderno San Francesco, un esemplare modello di politico tricolorito, l’improduttivo più amato dagli italiani.

 

Ma è davvero così?

Ho qualche dubbio, e solo chi è senza peccato potrebbe scagliare la prima pietra. Vorrei suffragare con dei fatti, che vi riporto in rapida sequenza, il passato del presidente.

 

1- Trattativa Stato-Mafia.

E’ uno degli avvenimenti balzati alle cronache recentemente, benché i fatti risalgano agli anni in cui esplodevano bombette tra Milano e Firenze e saltavano per aria i magistrati. Al netto della querelle “giuridico-istituzionale” sull’opportunità o meno di intercettare il Capo dello Stato (degno teatrino degli azzeccagarbugli nostrani) è risaputo che Napolitano ha discusso al telefono – di quei lontani “anni di tritolo” siciliano – con tale Nicola Mancino, ex ministro dell’Interno, del quale è confermata la falsa testimonianza nel processo di Palermo.

 

2- La figliolanza.

Giulio Napolitano è il figlio dell’indignado quirinalizio. Lavora come consigliere per la Presidenza del Consiglio. Il cucciolo della signora Clio è diventato professore ordinario all’Università del Molise. Come ci sia riuscito, lo lascio scoprire a voi: è sufficiente che leggiate l’articoletto che pubblicammo qualche tempo fa, cliccate e leggetevelo.

 

3- L’onorevole continentale.

Re Giorgio ha frequentato tutte le botteghe più oscure della politica e tra i tanti scranni che ha scaldato c’è anche quello di europarlamentare. Viaggiando da Roma a Bruxelles, e ritorno, gli sarebbe balenata per la testa la meravigliosa idea di fare la cresta sui rimborsi dei biglietti aerei, esempio di cristallina moralità peninsulare, di cui si erge a censore. Per chi non ne fosse a conoscenza, consiglio la visione di questo video, che impazza sulla rete da tempo, ma che è inesistente per le mammasantissime tv.

 

4- Il soviet supremo.

Il “migliorista” – il nostro, notizia per i più giovani, apparteneva ad una corrente evoluta del partito comunista inventata da Salvatore Veca – non s’è mai contraddistinto per prendere le distanze dalle tonnellate di rubli che arrivavano da Mosca e finivano direttamente nelle casse del Pci. Grazie anche a quei fondi illegali dell’allora “nemico dell’Occidente”, l’URSS, la carriera del “primo cittadino d’Italia” è andata via liscia come l’olio.

 

5- Forza cingolati.

Correva l’anno 1956, i carri armati sovietici invadevano Budapest e dintorni. Insieme a molti compagnucci, anche l’attuale presidente della Repubblica manifestò il suo orgoglio per quel “gesto pacifista”. Riprendo da Storialibera.it: “Nel 1956, all’indomani dell’invasione dei carri armati sovietici a Budapest, mentre Antonio Giolitti e altri dirigenti comunisti di primo piano lasciarono il Partito Comunista Italiano, mentre “l’Unità” definiva «teppisti» gli operai e gli studenti insorti, Giorgio Napolitano si profondeva in elogi ai sovietici. L’Unione Sovietica, infatti, secondo lui, sparando con i carri armati sulle folle inermi e facendo fucilare i rivoltosi di Budapest, avrebbe addirittura contribuito a rafforzare la «pace nel mondo»…”.

 

Lasciamo perdere il suo ruolo di manovratore all’atto dell’insediamento di Mario Monti, ce n’è abbastanza per pensare che il Napolitano di oggi è solo uno di quei fenomeni mediatici del momento che, per chi ha a cuore la libertà, fa venir voglia di gridare vendetta. Se poi penso che le sue invettive contro i “Polverini boy’s” le ha lanciate davanti ad una folla di bambinelli plaudenti e con bandierina d’ordinanza dell’italia rifilata loro tra le mani, un po’dei suoi strali moralisti mi verrebbe voglia di rispedirli al mittente. Quelli come lui andrebbero ricordati per quello che sono, e sono stati. Per farlo ruberò le parole a due filosofi.

 

Uno è Marcel de Corte, che sosteneva che“Il comunismo non è altro che l’intellettuale moderno al potere, convinto di saper convertire in realtà il mito che il suo cervello, sradicato dalla realtà, ha concepito in un mondo di cui egli è il solo autore”. L’altra è Ayn Rand, dalla quale ho imparato a non amare i politici: “Il bisogno fondamentale del parassita è quello di assicurarsi i legami con gli uomini per venir nutrito. In primo luogo egli considera le relazioni. Dichiara che l’uomo esiste per servire gli altri. Però predica l’altruismo”.

 

Come sintetizzare? Le rampogne di Napolitano son fuori tempo e fuori luogo, perché – senza sapere di esserlo – quest’uomo è il presidente esemplare per tutti “Er Batman” d’Italia, che nonostante abbiano le mani sporche di marmellata  trovano sempre un nutrito manipolo di giornalisti accondiscendenti che garantisce loro – con tanto di tappeto rosso – di urlarci in faccia che “tutto quel che han fatto è perfettamente legale”.

Domanda: non è forse Napolitano, come da Costituzione, il garante della legalità di questo paese?

Aveva ragione H. L. Mencken, reporter d’altri tempi: “La democrazia è l’adorazione degli sciacalli da parte dei somari”! 

(di LEONARDO FACCO – lindipendenza.com)

 

 

Fonte: visto su INFOSANNIO del 27 settembre 2012

Link: http://infosannio.wordpress.com/2012/09/27/napolitano-il-presidente-perfetto-per-tutti-er-batman-ditalia/

 


BRUNO VESPA SMASCHERA I COMPAGNI SEGUACI DEL DUCE

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Scrittori, giornalisti e artisti: erano molti quelli che volevano collaborare alla rivista fondata nel 1940 da Giuseppe Bottai, gerarca illuminato ma anche il più feroce sostenitore delle leggi razziali

 

 

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In quegli anni, Bottai poté contare sulla fervida collaborazione del meglio della cultura italiana: Giorgio Vecchietti (condirettore), Nicola Abbagnano, Mario Alicata, Corrado Alvaro, Cesare Angelini, Giulio Carlo Argan, Riccardo Bacchelli, Piero Bargellini, Arrigo Benedetti, Carlo Betocchi, Romano Bilenchi, Walter Binni, Alessandro Bonsanti, Vitaliano Brancati, Dino Buzzati, Enzo Carli, Emilio Cecchi, Luigi Chiarini, Giovanni Comisso, Gianfranco Contini, Galvano Della Volpe, Giuseppe Dessì, Enrico Emanuelli, Enrico Falqui, Francesco Flora, Carlo Emilio Gadda, Alfonso Gatto, Mario Luzi, Bruno Migliorini, Paolo Monelli, Eugenio Montale, Carlo Muscetta, Piermaria Pasinetti, Cesare Pavese, Giaime Pintor, Vasco Pratolini, Salvatore Quasimodo, Vittorio G. Rossi, Luigi Russo, Luigi Salvatorelli, Sergio Solmi, Ugo Spirito, Bonaventura Tecchi, Giovanni Titta Rosa, Giuseppe Ungaretti, Nino Valeri, Manara Valgimigli, Giorgio Vigolo, Cesare Zavattini. Musicisti come Luigi Dallapiccola e Gianandrea Gavazzeni. Artisti come Amerigo Bartoli, Domenico Cantatore, Pericle Fazzini, Renato Guttuso, Mino Maccari, Mario Mafai, Camillo Pellizzi, Aligi Sassu, Orfeo Tamburi.

 

GIUSEPPE UNGARETTI

 

Una crisi di coscienza colse Giuseppe Ungaretti. Il poeta notò durante il regime che «tutti gli italiani amano e venerano il loro Duce come un fratello maggiore» e si definì «fascista in eterno», firmando documenti e appelli per sostenere il fascismo. Salvo firmarne di uguali e contrari alla fine della guerra come alfiere dell’antifascismo, tanto da meritare una grande accoglienza a Mosca da parte di Nikita Kruscev.

 

NORBERTO BOBBIO

 

Norberto Bobbio da studente si era iscritto al Guf, l’organismo universitario fascista, e poi aveva mantenuto la tessera del partito, indispensabile per insegnare. Colpito per frequentazioni non sempre ortodosse da una lieve sanzione che avrebbe potuto comprometterne la carriera, Bobbio cercò ovunque raccomandazioni per emendarsi. Suo padre Luigi si rivolse al Duce, lo zio al quadrumviro De Bono, lo stesso giovane docente a Bottai («con devota fascistica osservanza»). Fu interessato anche Giovanni Gentile, che intervenne con successo presso Mussolini. Alla fine, Norberto ebbe la cattedra tanto desiderata. Nel dopoguerra, Bobbio diventò un maître à penser della sinistra riformista italiana. Ma il tarlo del passato lo consumò fino a una clamorosa intervista liberatoria rilasciata il 12 novembre 1999 a Pietrangelo Buttafuoco per Il Foglio : «Noi il fascismo l’abbiamo rimosso perché ce ne ver-go-gna-va-mo. Ce ne ver-go-gna-va-mo. Io che ho vissuto la “gioventù fascista” tra gli antifascisti mi vergognavo prima di tutto di fronte al me stesso di dopo, e poi davanti a chi faceva otto anni di prigione, mi vergognavo di fronte a quelli che diversamente da me non se l’erano cavata».

 

INDRO MONTANELLI

 

Montanelli non ha fatto mai mistero di essere stato fascista. (Fu, anzi, un fascista entusiasta). «Sono stato fascista, come tutte le persone della mia generazione», ammise nella sua “Stanza” sul Corriere della Sera nel 1996. «Non perdo occasione per ricordarlo, ma neanche di ripetere che non chiedo scusa a nessuno». Anche nella più sfacciata adulazione del Duce, Montanelli scriveva pezzi di bravura come questo del 1936: «Quando Mussolini ti guarda, non puoi che essere nudo dinanzi a Lui. Ma anche Lui sta, nudo, dinanzi a noi. Il Suo volto e il Suo torso di bronzo sono ribelli ai panneggi e alle bardature. Ansiosi e sofferenti, noi stessi glieli strappiamo di dosso, mirando solo alla inimitabile essenzialità di questo Uomo, che è un vibrare e pulsare formidabilmente umani. Dobbiamo amarlo ma non desiderare di essere le favorite di un harem».

 

GIORGIO BOCCA

 

«Quando cominciò il nostro antifascismo? Difficile dirlo…». Dev’essere cominciato tardi, quello di Giorgio Bocca, se è vero quanto egli stesso scrive nel racconto «La sberla… e la bestia» pubblicato l’8 gennaio 1943 su La provincia granda , foglio d’ordini settimanale della federazione fascista di Cuneo. Il 5 gennaio Bocca aveva incontrato in treno sulla linea Cuneo-Torino l’industriale Paolo Berardi, il quale diceva ad alcuni reduci dalla Russia e dalla Francia che la guerra era ormai perduta. Bocca ascoltò, poi gli diede un ceffone e lo denunciò alla polizia per disfattismo. Due anni prima, sullo stesso settimanale, il giovane giornalista aveva scritto un lungo articolo su I protocolli dei Savi di Sion , che si sarebbero rivelati poi (ma lui, ovviamente, non lo sapeva) il falso più clamoroso della propaganda antisemita. Le prime righe dell’articolo recitano: «Sono i Protocolli dei Savi di Sion un documento dell’Internazionale ebraica contenente i piani attraverso cui il popolo Ebreo intende giungere al dominio del mondo…». E le ultime: «Sarà chiara a tutti, anche se ormai i non convinti sono pochi, la necessità ineluttabile di questa guerra, intesa come una ribellione dell’Europa ariana al tentativo ebraico di porla in stato di schiavitù».

 

DARIO FO

 

Dario Fo si arruolò a 18 anni come volontario prima nel battaglione Azzurro di Tradate (contraerea) e poi tra i paracadutisti del battaglione Mazzarini della Repubblica sociale italiana. Il 9 giugno 1977, quando Fo era ormai da anni celebre per il suo lavoro teatrale Mistero buffo , un piccolo giornale di Borgomanero (Novara), Il Nord , pubblicò una lettera di Angelo Fornara che ne raccontava i trascorsi repubblichini. Fo sporse querela con ampia facoltà di prova, ma il processo non ebbe l’esito da lui sperato. Secondo quanto riferì Il Giorno (8 febbraio 1978), l’attore disse in aula che il suo «arruolamento era una questione di metodi di lotta partigiana» per coprire l’azione antifascista della sua famiglia. Ma le testimonianze furono implacabili. Il suo istruttore tra i parà, Carlo Maria Milani, mise a verbale: «L’allievo paracadutista Dario Fo era con me durante un rastrellamento nella Val Cannobina per la conquista dell’Ossola, il suo compito era di armiere porta bombe». E l’ex comandante partigiano Giacinto Lazzarini lo inchiodò: «Se Dario Fo si arruolò nei paracadutisti repubblichini per consiglio di un capo partigiano, perché non l’ha detto subito, all’indomani della Liberazione? Perché tenere celato per tanti anni un episodio che va a suo merito?». Una testimone, Ercolina Milanesi, lo ricorda «tronfio come un gallo per la divisa che portava e ci tacciò di pavidi per non esserci arruolati come lui. L’avremmo fatto, ma avevamo quindici anni…». L’11 marzo 1978, mentre il processo contro gli accusatori di Fo era in pieno svolgimento, Luciano Garibaldi pubblicò sul settimanale Gente una foto dell’attore in divisa della Repubblica sociale (altissimo, magrissimo come è sempre stato) e un suo disegno dove appaiono alcuni camerati con le anime dei partigiani uccisi che escono dalle canne dei mitra («Sono apocrife e aggiunte da altri», si difenderà). Il 7 marzo 1980 il tribunale di Varese stabilì che «è perfettamente legittimo definire Dario Fo repubblichino e rastrellatore di partigiani». Il futuro premio Nobel non ricorse in appello e la sentenza divenne definitiva.

 

VITTORIO GORRESIO

 

Vittorio Gorresio, una delle firme più brillanti della sinistra riformista del dopoguerra, scriveva cose impegnative sulla gioventù hitleriana: «Così pregano gli ariani piccoli, ora che, dissipato il fumo del rogo ove furon arsi i venticinquemila volumi infetti di semitismo, l’atmosfera tedesca è più limpida e chiara». E nel 1936 sulla Stampa, il giornale di cui sarebbe diventato negli anni Sessanta la prima firma politica, confessava: «Ringrazio Dio perché ci ha fatto nascere italiani ed è con gli occhi lucidi che si sente nell’animo la gratitudine del Duce».

 

EUGENIO SCALFARI

 

Nonostante la giovane età, Scalfari era riuscito a far pubblicare alcuni scritti di Calvino su Roma fascista, era diventato amico di Bottai, che chiamava «il mio Peppino», e fino alla caduta del fascismo sostenne con convinzione l’economia corporativa. Ma va ascritto a suo merito di aver sempre parlato nel dopoguerra di «quaranta milioni di fascisti che scoprirono di essere antifascisti», non nascondendo mai le sue ferme convinzioni giovanili.

 

ENZO BIAGI

 

Montanelli collaborò a Primato come Enzo Biagi, che nel dopoguerra non ha negato i suoi trascorsi (scrisse anche per la rivista fascista bolognese Architrave ) e la gratitudine per Bottai. Ma i suoi avversari, spulciando negli archivi, hanno scovato altri episodi. Secondo il racconto di Nazario Sauro Onofri in I giornali bolognesi nel ventennio fascista, nel 1941 Biagi, allora ventunenne, recensì il film Süss l’ebreo , formidabile strumento della propaganda antisemita di Himmler, sul foglio della federazione fascista bolognese L’assalto , scrivendo che il pubblico «era trascinato verso l’entusiasmo» e «molta gente apprende che cosa è l’ebraismo e ne capisce i moventi della battaglia che lo combatte». (Biagi era in buona compagnia, perché sullo stesso giornale, fortemente antisemita, si scatenava anche il giovanissimo Giovanni Spadolini, mentre una lusinghiera recensione allo stesso film fu firmata dal regista Carlo Lizzani). Biagi restò al Resto del Carlino, controllato dai fascisti e ormai anche dai nazisti, fino alla tarda primavera del 1944, ricevendo – come tutta la redazione – generosi sussidi economici dal ministero della Cultura popolare (il Minculpop). Dieci mesi dopo entrava a Bologna con le truppe americane.

 

 

Fonte: da il Giornale.it   del 6 novemnre 2014

Link: http://www.ilgiornale.it/news/politica/quanti-fascisti-antifascisti-vespa-smaschera-i-compagni-1065432.html

 

VERONA VINITALY: PRESENTATO IL FILM “IL LEONE DI VETRO”

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Verona – Presentazione (martedì 8 aprile 2014 ) nello stand del Consorzio Vini Venezia all’interno del Vinitaly, del lungometraggio storico – culturale “Il Leone di vetro” prodotto dalla padovana Venicefilm con Cultour Active e Running Tv International, che uscirà nelle sale in autunno.

 

Il film, diretto da Salvatore Chiosi, racconta le vicende della famiglia Biasin, produttori di Raboso del Piave, che commerciano in tutta Europa. “Siamo agli albori della Regione del Veneto e dell’Italia, nel 1866, nei giorni del referendum – ricorda Giorgio Piazza, il Presidente del Consorzio Vini Venezia – e i nostri prodotti sono stati inseriti in questa cornice storica, per parlare in modo intelligente del nostro territorio. Basti pensare al Malanotte vino simbolo di grande qualità e spessore che ne Il Leone di Vetro viene raccontato anche attraverso il suo splendido Borgo, Borgo Malanotte”.

Nel film ambientato appunto nel periodo storico dell’annessione del Veneto al Regno d’Italia, ripercorre, attraverso un flashback, anche le vicende delle Pasque Veronesi del 1797, dell’insurrezione della città di Verona contro l’impero napoleonico.

Le location dell’opera sono dislocate nei territori a destra del Piave, luoghi di produzione del Raboso e del Malanotte. A sostenere il film la Regione del Veneto, la Provincia di Treviso e nuovamente Treviso Film Commission: “con Venice Film – precisa Alessandro Martini – c’è una collaborazione che è nata un paio di anni fa e per il territorio trevigiano il cinema è divenuto da tempo un interlocutore, la prossima settimana saremo, ad esempio, in prima serata con una fiction su RaiUno che si intitola La Tempesta”.

 

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Alla conferenza ha preso parte anche il  Presidente della Regione Luca Zaia, ricordando il Veneto come primo produttore nazionale con circa nove milioni di ettolitri, quattro milioni e mezzo con etichetta e sottolineando l’importanza del territorio che sta dietro ad ogni vino: “Se Olmi dovesse rigirare ‘L’albero degli zoccoli’ – ha continuato Zaia – sceglierebbe sicuramente questo borgo, quello in cui si è girato il film, Borgo Malanotte, in ristrutturazione dal 1995, in cui sembra che si sia fermato il tempo”.

Girato nel corso del 2013, con un cast che vede la presenza di Sara Ricci, già vista in “Vivere“, Christian Iansante, voce di Bradley Cooper e di Johnny Depp al suo debutto sul grande schermo, del giovane e talentuoso Maximiliano Hernando Bruno, qui anche produttore, del veneziano Andrea Pergolesi, insieme a Claudio De Davide (il patriarca), e a Carla Stella, “Il Leone di vetro” narra una storia che saprà riscoprire il passato, raccontando le radici di questo territorio. Nel cast artistico sono presenti anche Stefano Scandaletti (premio Off) e Diego Pagotto (Faccia D’Angelo), Eleonora Panizzo, Alvaro Gradella.

 

Fonte: visto su IL POPOLO VENETO del 9 aprile 2014

Link: http://ilpopoloveneto.blogspot.it/2014/04/vinitaly-presentato-il-film-il-leone-di.html

 

IL LEONE DI VETRO DAL 13 NOVEMBRE AL CINEMA

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 IL LEONE DI VETRO

 

A partire da Giovedi 13 novembre 2014 esce nel Veneto e in tutte le sale d’Italia

il film del regista napoletano Salvatore Chiosi

 

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BOICOTTATO IL LEONE DI VETRO: IL FILM ACCUSATO DI INDIPENDENTISMO

 

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Salta la proiezione al Melies, caso politico da Vazzola a Conegliano

 

CONEGLIANO. Le major cinematrografiche boicottano “Il leone di vetro”, che è stato girato anche nel Coneglianese. Doveva uscire anche al Melies di Conegliano, ma non verrà proiettato. «Il motivo? Il ricatto delle multinazionali», è questa l’accusa fatta attraverso i social network dalla produzione del film, il caso è diventato anche politico.

«Il cinema Melies di Conegliano», è la comunicazione dello staff del film, «dopo averci richiesto la pellicola e dato l’ok per la proiezione in sala, mandando anche il trailer tra quelli prossimamente in cartellone, a tre giorni dall’uscita fa dietrofront e ci comunica che non proietterà più il film».

Il film storico narra le vicende di due famiglie venete nell’annessione del 1866. Ha visto molti ciak nella Marca, con protagonista lo storico Borgo Malanotte, di Tezze di Piave, e i suoi abitanti che hanno fatto da comparse. Per questo in molti attendevano l’uscita nelle sale. Invece a Conegliano il film è saltato.

L’Associazione Borgo Malanotte ha commentato con un «Senza parole». Si è sollevato anche un polverone politico, con voci di una “censura” per i contenuti vicini all’indipendentismo.

 

 

NAMIBIA 1914: IL GENOCIDIO DIMENTICATO DEL POPOLO HERERO

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di Francesco Lamendola

 

  1. CHE COS’È UN GENOCIDIO.

 

Genocidio è il tentativo di sterminare, con metodi organizzati, in gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso (dal greco génos, stirpe, donde il latino gens: gente, stirpe, razza). Le odierne leggi internazionali lo puniscono quale “crimine contro l’umanità” (accordo di Londra, 8 agosto 1945), sia nel caso venga commesso nel corso delle operazioni belliche, sia che abbia luogo in stato di pace (convenzione dell’Assemblea generale dell’O.N.U. del 9 dicembre 1948).

 

La storia antica è ricca di massacri e deportazioni di interi popoli. Nelle sue memorie sulla guerra di Gallia, ad esempio, Giulio Cesare narra senza batter ciglio come tentò di sterminare il popolo degli Eburoni che si era ribellato ai Romani, tentativo coronato da un notevole successo. (1) Tuttavia è nella storia moderna che noi troviamo gli esempi più massicci e sistematici di genocidio.

È noto che un grandissimo numero di popoli amerindiani venne letteralmente sterminato dai conquistatori europei, tanto nel Nord che nel Sud America. In certi casi, le condizioni di vita imposte dai conquistadores erano così intollerabili che interi gruppi tribali ricorsero al suicidio di massa: tale il caso degli Arawak dell’isola di Hispaniola (Haiti) durante il XVI secolo.

Più recentemente, nella Terra del Fuoco gli allevatori bianchi giunsero a iniettare stricnina nelle pecore di cui si cibavano gli indigeni e a sparare a vista contro qualunque Fuegino, anche pacifico, col risultato che già nel 1925 non si contavano più di 190 individui fra Yaghan e Alakaluf (2), mentre oggi sono del tutto estinti.

Gli abitanti della Tasmania, ai primi dell’800, vennero braccati dagli Inglesi come animali, rastrellati con una gigantesca operazione di polizia da una costa all’altra della grande isola, e deportati in un isolotto dove morirono quasi tutti. L’ultimo tasmaniano morì nel 1876, e il suo corpo, esumato su richiesta della Royal Society, rimase esposto fino al 1976 in una teca del Tasmanian Museum, come un raro pezzo da collezione. (3)

Ma è nel XX secolo che hanno avuto luogo i tentativi più sistematici e sinistramente efficaci di genocidio. Milioni di persone hanno perso la vita nei campi di concentramento hitleriani in Germania e nei Paesi da essa occupati, fra il 1938 e il 1945, e altri milioni nei gulag di Stalin, specie durante la campagna per la collettivizzazione forzata delle campagne, negli anni ’30. Si discute ancora sulle cifre, ma certo si trattò di qualcosa che non si era mai visto prima nella storia dell’umanità, sia per il numero delle vittime che per le modalità “industriali” delle deportazioni e dello sfruttamento della manodopera servile così ottenuta.

 

C’è poi stato il genocidio dei Tutsi da parte degli Hutu in Ruanda, nel 1994, costato un milione di vittime; quello delle popolazioni negre del Sudan meridionale da parte del governo islamico fondamentalista di Khartoum; e le varie “pulizie etniche” (in pratica, dei piccoli genocidio localizzati) in varie parti della ex Jugoslavia, ad opera sia dei Serbi che dei Croati, negli anni fra il 1991 e il 1999, secondo un copione che era già stato attuato negli anni della seconda guerra mondiale, specie per opera degli ustascia  di Ante Pavelic.

Pochi giorni fa (marzo del 2006) ha destato un certo scalpore la notizia della morte in carcere dell’ex presidente serbo Slobodan Milosevic, processato dal tribunale Internazionale dell’Aja per “crimini contro l’umanità” , specie ai danni degli Albanesi del Kossov, quando ancora non era stata emessa la sentenza.  Bisogna però ricordare che il presidente croato Franjo Tudjman ha avuto analoghe responsabilità per quanto riguarda la “pulizia etnica” delle minoranze serbe in Slavonia e in altre zone della Croazia; e che, nella parte musulmana della Bosnia, le atrocità croate non sono state dissimili da quelle compiute dalle bande nazionaliste serbe.

 

Tuttavia una parte considerevole dell’opinione pubblica occidentale ignora ancor oggi che durante la prima guerra mondiale ebbe luogo un altro spietato genocidio: quello degli Armeni.

Se oggi si è in parte sollevata la cortina di silenzio che lo avvolgeva, è solo perché l’Unione  Europea sta negoziando i preliminari per un futuro ingresso della Turchia, nazione che non ha mai riconosciuto la responsabilità storica di tale genocidio (a differenza di quanto fatto dal governo tedesco nei confronti  del popolo ebreo e di Israele, dopo il 1948). Nel 1915-16, infatti, il governo turco di Enver pascià, Talaat e Gemal mise in atto lo sterminio sistematico di qualcosa come 1.500.000 Armeni nell’Anatolia orientale, in Cilicia e in Siria. Un’eco di questa oscura tragedia è stata consacrata alla storia letteraria dal romanzo di Franz Werfel I quaranta giorni del Mussa Dagh. (4)

 

Altre centinaia di migliaia di Armeni vennero trucidati dopo la guerra, quando non esisteva più nemmeno la copertura delle necessità di difesa nazionale, ad opera non del crollato regime dei Giovani Turchi, ma del “padre della patria” Kemal Atatürk, colui che, avendo avviato il processo di occidentalizzazione del suo Paese, è ancor oggi presentato in modo sostanzialmente positivo in quasi tutti i libri di storia occidentali, a partire dai libri di testo scolastici. A Smirne, mentre l’esercito greco era in fuga, migliaia di civili Armeni (e Greci) vennero bruciati vivi, crocifissi, impalati nel 1922.  Scene simili si verificarono in Cilicia subito dopo il precipitoso reimbarco delle truppe francesi, premute dai kemalisti. (5)

 

Forse è perché una parte di quel genocidio avvenne sotto gli auspici di Atatürk e del suo partito nazionalista, che la questione del riconoscimento delle responsabilità sembra essere passata in seconda linea nell’agenda delle trattative per la futura adesione della Turchia all’Unione Europea; ragioni strategiche sembrano prevalere su ogni considerazione morale, poiché Parigi val bene una messa; cioè non pare il caso di guardar troppo per il sottile, quando sono in ballo ragioni di alta politica internazionale.

 

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  1. L’AFRICA IN RIVOLTA.

 

Le prime lotte per la libertà e l’indipendenza dei popoli africani vennero combattute fuori dall’Africa. Gli schiavi deportati nel Nuovo Continente per lavorare nelle piantagioni di cotone e di canna da zucchero diedero vita, nel XVII secolo, a numerosi Stati indipendenti o quilombos, nel Darien, in Brasile e altrove. (6) Celebre fra tutte la cosiddetta Repubblica di Palmares, governata in realtà da Zumbi, un sovrano di notevole statura politica: quando venne distrutta dai bandeirantes paulistas (cacciatori di schiavi della città di San Paolo), nel 1697, essa aveva raggiunto un alto grado di organizzazione sociale e contava una popolazione di circa 20.000 anime. (7) Nell’isola di Haiti,  gli ex schiavi negri raggiunsero definitivamente l’indipendenza al principio del XIX secolo, dopo le audaci campagne che valsero all’eroe nazionale Toussaint Louverture l’appellativo di “Napoleone nero”.

 

L’Africa sub-sahariana non subì l’urto massiccio del colonialismo che verso la fine del XIX secolo. Prima della Conferenza di Berlino (1884-85) erano pochi e piccoli gli insediamenti europei sul continente, ad eccezione dell’Algeria e del Sudafrica. Ma dopo il 1880 si scatenò in tutta la sua violenza la corsa all’accaparramento coloniale. Indeboliti dalla secolare emorragia della tratta, divisi e discordi tra loro, ignari della civiltà europea e delle sue astuzie, i popoli africani dapprima non offrirono quasi resistenza. Innumerevoli trattati di protettorato vennero firmati da capi indigeni, raggirati dall’offerta di doni risibili.

 

Fu solo verso il 1890 che gli Europei vennero a contatto con gli Stati più solidi e agguerriti dell’interno: i Francesi con il sultanato di Rabah nel Ciad, gli Inglesi con il regno mahdista del Sudan, gli Italiani con l’Impero cristiano d’Abissinia. In questa fase, un po’ tutte le colonie vennero altresì scosse da una serie di violente sollevazioni, poiché i popoli africani “sottomessi” cominciavano a reagire alle catastrofiche conseguenze socio-economiche della dominazione europea.

 

La rivolta degli ottentotti Nama e dei bantù Ova Herero nell’Africa Sud-occidentale tedesca rientra in questo complesso movimento storico, del quale presentiamo qui un veloce sommario cronologico.

 

1888-89: rivolta di Abushiri nell’Africa Orientale Tedesca.

 

1889-94: resistenza del re Behanzin ai Francesi nel Dahomey.

 

1890-98: resistenza dei Bunyoro agli Inglesi in Uganda.

 

1891-98: rivolta degli Hehe nell’Africa Orientale Tedesca.

 

1891-1920: guerriglia di Mad Mullah contro Italiani e Inglesi in Somalia.

 

1896:battaglia di Adua; rivolta dei Matabele e dei Mashona contro gli Inglesi in Rhodesia

1897-1900: lotta di Rabah contro i Francesi nel Ciad.

 

1898: distruzione del regno mahdista da parte degli Anglo-Egiziani.

 

1898-1904: ribellioni e guerriglia nel Madagascar contro i Francesi.

 

1900: rivolta degli Ashanti contro gli Inglesi nella Costa d’Oro.

 

1904: rivolta di Anyang contro i Tedeschi nel Camerun.

 

1905, 1908: rivolta dei Gusii contro gli Inglesi nel Kenya.

 

1905-1907: rivolta dei Maji Maji nell’Africa Orientale Tedesca.

 

1906: rivolta degli Zulu contro gli Inglesi nel Natal.

 

1909-1912: campagna francese contro il sultanato dell’Ouaddai.

 

1911-1917: resistenza dei Tutsi e degli Hutu contro Inglesi e Tedeschi nel Ruanda.

 

1913: rivolta contro i Portoghesi in varie zone dell’Angola.

 

1915: ribellione di Chilembwe contro gli Inglesi nel Nyasaland. (8)

 

 

  1. IL COLONIALISMO TEDESCO.

 

 

La Germania del XIX secolo arrivò buon’ultima sulla scena della spartizione coloniale, poiché fin verso il 1880 il cancelliere Bismarck aveva avversato ogni idea di espansione oltremare. Egli considerava sostanzialmente inutile all’economia tedesca e troppo dispendiosa l’acquisizione di colonie, nonché pericolosa per il mantenimento dei buoni rapporti con la Gran Bretagna (tutte previsioni che si sarebbero dimostrate esatte). Ma quando la spartizione dell’Africa era già quasi compiuta, gli ambienti pangermanisti – sostenuti dalla finanza e dalla marina – esercitarono delle pressioni così forti che Bismarck, assecondando i nuovi sentimenti dell’opinione pubblica, gettò frettolosamente la Germania nella corsa all’accaparramento delle ultime colonie, sancita dalla Conferenza di Berlino del 1884-85.

 

In Africa venne dichiarato il protettorato tedesco sull’Africa Sud-occidentale, sul Togo e sul Camerun (1884), indi sull’Africa Orientale tedesca (agosto 1885). Nell’Oceano Pacifico furono occupate la Terra dell’Imperatore Guglielmo (Kaiser Wilhelmsland) nella Nuova Guinea, e l’Arcipelago delle Bismarck (dicembre 1884), poi le Isole Marshall (1884-85); infine  le Marianne, le Caroline e la Palau,  acquistate dalla Spagna dopo l’esito disastroso della guerra ispano-americana, nonché le Samoa occidentali, dopo un trattato di spartizione con gli Stati Uniti d’America (1899). In Estremo Oriente, venne occupato il porto di Kiaochow, strappandolo alla sovranità del governo cinese (1898). (9)

 

Tutte queste operazioni, condotte in fretta e furia nella  scia di missioni religiose tedesche e di preesistenti iniziative di case commerciali (la Woermann di Amburgo era stabilita nel Camerun fin dal 1868; la Missione Renana era presente nel Sud-ovest africano fin dal 1847), furono caratterizzate da un minimo impiego di forze militari e da un’estrema arroganza diplomatica. Vi furono momenti di grave tensione con le altre potenze imperialiste, mentre i popoli indigeni, sul momento, non manifestarono serie reazioni. In particolare, la politica coloniale tedesca giunse a sfidare apertamente la Spagna (1886, azione nelle Marianne), gli Stati Uniti (nel 1902, con la crisi del Venezuela) e la Francia (nel 1905 e nel 1911, con le due crisi marocchine che per poco non affrettarono lo scoppio di un conflitto generalizzato, cui si arriverà nel luglio-agosto 1914, dopo l’eccidio di Sarajevo). (10)

 

Nel governo dei popoli indigeni la Germania, che non disponeva di una tradizione amministrativa coloniale, diede prova di una singolare incomprensione delle realtà locali. I suoi funzionari, ad esempio, ritenevano che ogni tribù dovesse vivere entro confini ben precisi, e non capivano che in Africa la vita sociale è sempre stata caratterizzata, per motivi ambientali ed economici, da una estrema mobilità delle popolazioni. (“In Africa non esistono confini, nemmeno tra la vita e la morte”, scriveva il poeta Leopold Sedar Senghor, portavoce della negritudine). In particolare, nell’Africa Sud-occidentale il tentativo tedesco di avviare una macchina amministrativa efficiente, sul modello europeo, si scontrò con l’esigenza dei popoli allevatori di spostarsi liberamente attraverso la steppa, alla ricerca di nuovi pascoli. Così, verso il 1888, ebbe inizio un periodo di violente insurrezioni indigene, che si protrasse fino alla grande sollevazione degli Herero e dei Nama nel 1904-07.

 

Nel frattempo, l’illusione di Bismarck che le colonie potessero venire amministrate dalle stesse compagnie commerciali era stata smentita, e lo Stato tedesco aveva dovuto assumersi in prima persona il loro governo, con un notevole onere finanziario per il contribuente. L’impero coloniale tedesco, che l’opinione pubblica pangermanista aveva voluto sia per motivi di prestigio, sia come sbocco ai capitali e all’emigrazione dalla madrepatria, si rivelava al contrario un peso morto per le finanze del Reich, e una fonte di sempre nuove spese.

 

Nessun flusso migratorio si indirizzò verso le colonie in sostituzione di quello tradizionale verso il Brasile e verso gli Stati Uniti d’America. Nel 1914 esse ospitavano meno di 25.000 tedeschi, comprese le forze armate (11), su una superficie totale di circa 2,5 milioni di kmq. e una popolazione di 15 milioni di abitanti. (12) Solo nell’Africa Sud-occidentale si stabilì un compatto nucleo di coloni tedeschi (6.000 uomini atti alle armi nel 1914) (13),i cui discendenti costituiscono ancora oggi, accanto a Britannici e Boeri, una delle tre componenti della popolazione bianca, e sono attaccatissimi alle loro antiche tradizioni.

 

 

  1. UNA POLITICA MILITARE INCONTINENTE E IMMORALE.

 

Arrivata ultima sulla scena della spartizione coloniale, la Germania aveva dovuto accontentarsi di quel che era rimasto, ma le sue aspirazioni andavano ben oltre. Specialmente durante la guerra mondiale 1914-1918 la Società Coloniale, lo Stato Maggiore dell’esercito e della marina e gli ambienti dell’alta finanza elaborarono una serie di piani coloniali così smisuratamente ambiziosi, che si decise di non renderli mai di pubblico dominio. In base a questi piani, un enorme territorio dell’Africa centrale, dall’Atlantico all’Oceano Indiano, avrebbe dovuto costituire un Impero tedesco (14), autosufficiente anche sul piano militare. (15)

 

La stessa aggressività sfrenata e incontrollabile dimostrò la Germania nei confronti delle popolazioni indigene sottoposte. Celebre, ad esempio, è rimasto il discorso tenuto dall’imperatore Guglielmo II alle truppe in partenza perla guerra dei Boxers, il 27 luglio 1900, a Bremerhaven: “… non ci sarà clemenza e non verranno fatti prigionieri. Chiunque cade nelle vostre mani, cade sotto la vostra spada! Come mille anni fa gli Unni sotto il loro re Attila si sono fatti un nome che gli uomini ancora rispettano, possa ora per opera vostra il nome di ‘tedesco’ affermarsi per millenni in Cina, tanto che nessun Cinese, con gli occhi a mandorla o no, possa più osare guardare un tedesco in faccia.”(16)

 

Quando ebbe inizio l’ondata delle rivolte dei popoli coloniali, il governo tedesco reagì con una brutalità straordinaria, deciso a infliggere loro una “lezione” memorabile. “L’imperialismo tedesco – ha scritto uno storico sovietico – … soffocava le insurrezioni dei popoli africani con tanta ferocia che la sua giustificazione si riduce al fatto che i suoi avversari, l’Inghilterra e la Francia avevano adottato in casi analoghi gli stessi metodi, cioè il completo sterminio fisico degli insorti. In un quarto di secolo di dominio nelle colonie africane… è riuscito a distruggere una serie di tribù  tra cui, come è noto, la grande tribù degli Herero.”(17)

 

È importante comprendere che non si arrivò al genocidio degli Herero in maniera improvvisa e inaspettata. I rappresentanti del potere coloniale tedesco, ogni qualvolta si trovavano in difficoltà, facevano ricorso al terrore. (18) L’inumano ordine di sterminio emesso nel 1904 non fu che la naturale conclusione di tutto un modo di procedere verso i popoli extraeuropei. Dobbiamo pertanto riconoscere nel genocidio degli Herero il risultato di una politica militare incosciente e immorale, in cui l’autentico spirito militare – come scrisse un autore tedesco in altra circostanza – era stato ormai orribilmente deformato. (19)

 

 

  1. GLI HERERO: CHI ERANO.

 

Il popolo degli Herero, appartenente alla grande famiglia linguistica bantu, giunse nel territorio della odierna Namibia nel XVII secolo, dopo una lunghissima migrazione che ebbe origine, probabilmente, dalla regione dei Grandi Laghi. Nel Sud-ovest africano essi vennero ripetutamente a conflitto con le popolazioni boscimano-ottentotte, e specialmente con il gruppo ottentotto dei Nama, in mezzo alle quali si stabilirono, formando l’isola bantu più meridionale dell’intera regione. Il territorio da essi occupato andava dal massiccio del Kaokoveldt, che si affaccia sulla costa atlantica sino all’altezza di Capo Frio, alla regione ove sorge Windhoek. (20) Verso nord confinavano – e confinano a tutt’oggi – col popolo degli OvAmbo, ad essi apparentato, e stanziatosi a cavallo della frontiera con l’Angola.

 

Gli Herero erano un popolo di allevatori, e  i loro bovini, che avevano anche un valore sacrale, erano celebri in tutta l’Africa meridionale. Altrettanto celebre era la perizia dei pastori herero nel trovare sorgenti d’acqua per i loro armenti, anche in piena steppa semidesertica. I conflitti con i loro vicini, e specialmente con i Nama che abitavano immediatamente più a sud, erano originati appunto dalla necessità di assicurarsi le terre da pascolo dell’altopiano centrale (Damaraland). I Nama lavoravano il ferro e la ceramica, erano cacciatori e soprattutto allevatori di ovini e bovini. Sotto la guida del loro capo Jonker Afrikaaner, essi presero il sopravvento sugli Herero negli anni 1835-1860, li sottomisero e occuparono i pascoli della regione centrali.

 

A complicare le cose, vi fu, a partire dalla metà del XIX secolo, una immigrazione di altre genti ottentotte provenienti dalla Colonia del Capo, le quali volevano sottrarsi alla dominazione europea. Si trattava di gruppi anch’essi interessati all’acquisizione dei pascoli sull’altipiano centrale, che presto si imposero tanto ai Nama che ai Bastardi della regione di Rehoboth (una tribù migrata anch’essa da oltre il fiume Orange, e formata da mulatti ottentotto-asiatici; chiamati, questi ultimi, dalla Compagnia delle Indie Orientali a popolare la Provincia del Capo).

 

Jonker Afrikaaner morì nel 1861 e il nuovo capo dei Nama, Hendrik Witbooi, non riuscì ad impedire che gli Herero cogliessero il momento favorevole per insorgere e liberarsi dalla sudditanza in cui erano caduti. Seguì un periodo di lotte fra i due popoli che durò fino al 1870, e poi ancora dal 1880 al 1892: lotte molto sanguinose poiché erano combattute con armi da fuoco, acquistate dai commercianti bianchi. (21) In questa fase gli Herero avevano trovato un capo prestigioso nella persona di Tjamuha Maharero e poi di suo figlio, Samuel Maharero. Fu allora che si diedero un’organizzazione politica fortemente centralizzata, mentre prima vivevano raggruppati in entità minori.

 

Fino a quel momento, solo un piccolo numero di Europei – missionari e contrabbandieri – si era stabilito nell’Africa sudoccidentale. Nel 1878 gli Inglesi del Capo avevano occupato la Baia della Balena, con la tiepida autorizzazione del governo di Londra. L’insediamento nella baia di Angra Pequeña di un commerciante di Brema, F. A. E. Lüderitz, che l’acquistò da un capo indigeno insieme alla regione circostante (primavera 1883), offrì al cancelliere Bismarck l’occasione di agire. Egli dichiarò, il 24 aprile 1884, che il Governo tedesco assumeva direttamente la protezione delle aziende di Lüderitz, e nell’agosto-settembre, con due successivi proclami, dichiarò il protettorato germanico sull’intera regione posta tra i fiumi Orange, a nord (che segnava il confine con l’Angola portoghese),  e Cunene, a sud (che segnava il confine con la britannica Colonia del Capo).

 

 

  1. LA DOMINAZIONE TEDESCA:

 

La Germania aveva ottenuto il riconoscimento internazionale del suo protettorato, pur non avendo occupato effettivamente il territorio in questione. Tuttavia, la penetrazione tedesca dalla costa verso l’interno progredì rapidamente, grazie anche alla rivalità che divideva le popolazioni indigene, i cui capi vennero indotti a firmare separatamente dei trattati di sottomissione. Per questi avvenimenti noi possediamo non solo la documentazione dei colonialisti bianchi ma anche, caso pressoché unico,  una fonte africana di primissima mano: il diario di Hendrik Witbooi. (22) Poichè a quell’epoca gli Herero si trovavano in difficoltà nella lotta contro i Nama, loro tradizionali avversari, il loro capo accettò senza resistenze il protettorato tedesco, nel 1885. Il loro gruppo, a quel tempo, era composto di circa 85.000 individui (23), mentre una stima del 1966 ne calcolerà non più di 40.000.

 

Subito dopo, ebbe inizio la tragedia. Una schiera di coloni tedeschi si affacciò sull’altopiano centrale ove fu costruita Windhoek, la capitale, a 1.680 metri d’altitudine, in perfetto stile architettonico bavarese. Con l’aiuto del governo coloniale, e nonostante le proteste di alcuni missionari, essi espropriarono a ritmo febbrile sia le terre che le mandrie di bestiame degli Africani. Le basi economiche della società indigena vennero distrutte e agli Herero – come del resto ai Nama – non restò altro da fare che passare al servizio dei proprietari terrieri bianchi, dei commercianti, dell’esercito d’occupazione (come scouts, perché in questa colonia il Reich non si fidava ad arruolarli come truppe di linea), e delle missioni.

 

Una epidemia di peste bovina, scoppiata nel 1897, peggiorò ulteriormente la situazione , falcidiando gli armenti ancora in possesso degli indigeni e riducendo questi ultimi alla disperazione. Né essi potevano ripiegare, come altre volte in passato, sulla tradizionale agricoltura di sussistenza, poiché tutte le terre fertili erano state occupate dai coloni tedeschi. (24) Non rimaneva loro che l’alternativa di soccombere lentamente o ribellarsi finché ne avevano la forza: ed essi scelsero la seconda.

 

La storia dell’Africa Sud-occidentale tedesca è una storia scritta col sangue, intessuta di lotte quasi continue. La brutalità e l’incompetenza dei funzionari governativi erano tali, che praticamente tutte le tribù indigene finirono per sollevarsi. Perfino la tradizionale ostilità fra gli Herero ed i Nama venne meno, e i due popoli furono indotti a coalizzarsi contro l’intollerabile dominazione tedesca.

 

Il segnale della rivolta venne dato dagli ottentotti Nama, il cui capo Witbooi, sconfitto, dovette sottomettersi e si ridusse a collaborare, sia pure per pochi anni, con i Tedeschi. Due anni dopo, nel 1896, insorsero gli Herero; repressi, fu la volta dei Nama e degli Herero coalizzati.

 

Questa prima azione comune dei due popoli venne rapidamente soffocata nel 1900 dai Tedeschi, i quali soltanto in questa colonia si servivano esclusivamente di truppe europee (soprattutto cavalleria e speciali reparti cammellati), segno questo evidente di quanto impopolare fosse il loro governo fra tutti i nativi. (25) Fu quindi la volta dei Bondei (Bondelswart), il cui tentativo insurrezionale venne schiacciato nel 1903-04. Basterebbe questo elenco di insurrezioni contro il regime coloniale, per dimostrare come esso venisse giudicato un pericolo mortale da tutte le popolazioni indigene.

 

L’illusione che la Germania avrebbe saputo “pacificare” il territorio, facendo cessare le lotte tribali e aprendolo ai supposti benefici della “civiltà” (“The white man’s burden”, ossia il fardello dell’uomo bianco, scriveva il poeta inglese Rudyard Kipling), era stata tragicamente smentita dai fatti. Tuttavia le autorità coloniali non seppero far tesoro di queste sanguinose esperienze e proseguirono nella loro opera di sistematica espropriazione delle terre e delle mandrie degli Africani. Gli avvenimenti del 1904, pertanto, non si può dire che giungessero imprevedibili; al contrario, il rifiuto del governo tedesco di prendere in considerazione le cause economiche dello scontento, fu direttamente all’origine del nuovo scoppio di violenza e della conseguente, drammatica repressione.

 

 

  1. LA GRANDE INSURREZIONE DEL 1904.

 

 

Il malcontento e l’esasperazione degli Herero erano giunti al grado più acuto nel corso del 1903. A coronamento di una lunga serie di soprusi e inutili atti di violenza, i Tedeschi avevano abbattuto gli “alberi sacri” del cimitero herero di Okahandja, per costruire al posto di quest’ultimo una fattoria di coloni. Oramai gli Herero, popolo fiero e bellicoso, non aspettavano altro che un’occasione favorevole per insorgere contro gli odiati dominatori. E l’occasione, finalmente, venne.

 

In quell’anno la tribù ottentotta dei Bondei, stanziata nel mezzogiorno della colonia, in prossimità del fiume Orange, si era ribellata violentemente ai Tedeschi. Il governatore Theodor Leutwein – che era un militare, tenente colonnello dell’esercito – avviò prontamente il grosso delle forze di cui disponeva in quella direzione. Le truppe tedesche debellarono nel sangue la resistenza dei Bondei, ma per poter fare ciò commisero l’imprudenza di sguarnire eccessivamente la regione centro-settentrionale. Ai primi del nuovo anno, la loro presenza militare a nord di Windhoek apparve così tenue e indebolita, che gli Herero compresero esser quella un’occasione forse irripetibile per attaccarli.

 

Il 14 gennaio 1904 essi insorsero per la terza volta, con un furore che colse impreparati i loro dominatori. Centoventitrè tedeschi, fra soldati, commercianti e coloni, si lasciarono sorprendere e uccidere dagli indigeni; donne e bambini, però, non vennero toccati.  A Waterberg un intero presidio militare venne annientato. Fatto degno di nota, né i pochi coloni britannici né quelli di origine boera subirono molestie da parte degli insorti: l’odio di questi ultimi era diretto unicamente contro i cittadini del Reich germanico. La linea ferroviaria d’interesse strategico, che le autorità coloniali avevano fatto costruire tra Windhoek e Swakopmund (il porto principale della sezione costiera centrale, poco a nord della Baia della Balena), venne distrutta in parecchi punti. Di conseguenza, le comunicazioni fra la colonia e il mondo esterno vennero temporaneamente interrotte, e per alcuni mesi Samuel Maharero assunse il controllo de facto di vaste regioni centro-settentrionali.

 

In questa prima fase della guerra, l’esercito tedesco presente nella colonia era stato ripetutamente battuto in campo aperto e, infine, praticamente accerchiato dagli insorti a Oviumbo, di dove aveva potuto sganciarsi e battere in ritirata solo con estrema difficoltà. Il governatore Leutwein dovette mettersi completamente sulla difensiva nella zona attorno a Windhoek, limitandosi ad aspettare l’arrivo dei rinforzi dalla madrepatria. Nondimeno egli trascorse delle settimane drammatiche: quasi tutta la regione a nord della capitale era di fatto perduta per i Tedeschi, e i loro coloni – deposta l’usuale arroganza – vivevano nel terrore. Fu solo il volontario ripiegamento degli Herero sul massiccio montuoso del Waterberg (a sud-est dell’area paludosa dell’Etosha Pan) che rimosse la minaccia gravante sulla stessa capitale.

 

Se i Nama di Witbooi avessero colto il momento favorevole per insorgere a loro volta, ai Tedeschi sarebbe stato assestato un colpo decisivo. Ma l’azione fra i due popoli non era stata ben concertata, o forse pesarono negativamente le antiche inimicizie tribali, col loro retaggio di rancori e diffidenze reciproche. Al governo coloniale venne lasciato il tempo di riorganizzarsi, di far affluire rinforzi e, poi, di passare alla controffensiva. Solo quando gli Herero erano già stati decimati, gli Ottentotti presero le armi a loro volta: così i Tedeschi poterono affrontare i due popoli separatamente, e sconfiggerli in maniera definitiva.

 

Nel corso della primavera e dell’estate furono fatte affluire numerose truppe dalla Germania, in vista di una vasta operazione repressiva, per un totale di circa 20.000 uomini, dotati di molta artiglieria da campagna. I rinforzi sbarcarono nella colonia fra l’11 giugno e il 20 luglio. Il comando venne affidato a un militare che di repressioni se ne intendeva, avendo in precedenza schiacciato spietatamente la rivolta degli Hehe nelle regioni centrali del Tanganica (1891-98), e avendo partecipato alla durissima campagna contro i Boxers in Cina, nel 1900. Era  il generale di fanteria Lothar von Trotha, un prussiano dal pugno di ferro, nato a Magdeburgo il 3 luglio 1848 e che aveva, dunque, all’epoca soli cinquantacinque anni, un’età relativamente giovane per un grado così elevato.

 

Particolare significativo, la campagna contro gli Hehe del Tanganica era stata da lui “brillantemente” conclusa con l’invio in Germania della testa mozza del capo africano ribelle, Mkwawa (è vero che una barbarie analoga fu commessa, dopo la battaglia di Omdurman contro i Dervisci del Sudan, dall’inglese lord Kitchener, che aveva spedito a Londra la testa del Mahdi, dopo aver fatto profanare il suo sepolcro, nel 1898). Al fianco di von Trotha troviamo, nell’Africa Sud-occidentale tedesca, un giovane ufficiale trentaquattrenne di belle speranze, Paul von Lettow-Vorbeck, che nel 1906 verrà ferito gravemente a un occhio e rimpatriato in Germania (26), mentre nel 1914-18 sarebbe divenuto famoso per la sua abile difesa dell’Africa Orientale Tedesca contro le truppe dell’Intesa. (27)

 

Il piano di von Trotha consisteva nell’accerchiamento degli Herero, da effettuarsi con gli ottimi squadroni di cavalleria di cui disponeva, al fine di catturare l’intero gruppo. Esso era favorito dalla natura aperta e semidesertica della regione, che non si prestava assolutamente ad operazioni di guerriglia da parte degli insorti; e lo fu ancor di  più dall’incauto concentramento degli Herero vicino ai pozzi del fiume Hamakari, imposto dalla necessità di disporre di acqua fresca per quella massa di persone.

 

Gli indigeni erano appesantiti dalla presenza non solo delle donne e dei bambini, ma anche dalle mandrie di bovini, che costituivano la loro indispensabile fonte di vettovagliamento: e fu allora che i Tedeschi colsero l’opportunità di attaccarli sulle ali (agosto 1904).

 

Si ingaggiò un’aspra battaglia; nonostante l’enorme sproporzione esistente in fatto di armamento, gli Herero riuscirono sostanzialmente a far fallire gli ambiziosi piani dell’avversario e, pur subendo perdite pesantissime, ad aprirsi un varco in direzione est, vanificando la manovra avvolgente. Subito i Tedeschi si lanciarono all’inseguimento (13 agosto), impiegando largamente i fucili a ripetizione “Krupp” e le mitragliatrici “Maxim”.

 

La ritirata degli Herero finì per trasformarsi in un terribile olocausto. Premuti dalla cavalleria tedesca che li braccava senza pietà, esaurite le munizioni, tormentati dalla sete e dal sole implacabile, molti di loro trovarono la morte nel deserto dell’Omaheke, a est delle paludi dell’Etosha (settembre-ottobre).

 

Solo una piccola parte di essi, col loro capo Samuel Maharero, riuscirono a mettersi in salvo, attraversando la frontiera col Bechuanaland britannico (l’odierno Botswana). (28) E lì furono costretti a rimanere per sempre; pur trattandosi del Deserto del Kalahari, ossia di una delle regioni più aride e desolate dell’intero continente: il terrore tedesco era stato tale che essi non tornarono più indietro, e ancor oggi i loro discendenti vivono là rifugiati.

 

 

  1. LA “SOLUZIONE FINALE” DEL PROBLEMA HERERO.

 

 

L’insurrezione degli Herero aveva imposto alti costi alla Germania, sia in termini umani che finanziari, ma soprattutto  aveva nuociuto alla sua reputazione. Il prestigio del militarismo tedesco era stato scosso tanto agli occhi dell’opinione pubblica europea, quanto al cospetto delle altre popolazioni sottoposte al suo dominio coloniale. Per sette mesi gli Herero erano rimasti virtualmente padroni di una vasta sezione della colonia e avevano vanificato i progetti tedeschi di governare sfruttando le rivalità tribali e manovrando come burattini i capi locali. Appiedati e male armati, avevano tenuto testa valorosamente al più agguerrito esercito del mondo, e, sul piano internazionale, si erano accattivati le simpatie della massima potenza coloniale: la Gran Bretagna. (29) In una parola, essi avevano infranto il mito della assoluta superiorità tecnico-militare dei bianchi e, più in particolare, quello della invincibilità dell’esercito tedesco. Tutto questo era stato fatto da una popolazione africana la cui civiltà materiale appariva agli Europei come molto primitiva, anche se perfino Guglielmo II aveva avuto a riconoscere, in altri tempi, che essa pure “aveva in tutto un cuore sensibile ai sentimenti dell’onore.” (30)

 

Era quindi necessario – secondo la logica del colonialismo in generale, e di quello tedesco in particolare – “lavare” l’onta e infliggere agli insorti una lezione draconiana. I Francesi nel Dahomey, dopo la battaglia di Kotonou che aveva posto fine all’indipendenza di quel regno, nel 1892, avevano proceduto alla decapitazione sul campo di tutti i prigionieri. I Belgi, dal canto loro, avevano adottato metodi di coercizione così barbari verso gli indigeni del Congo addetti alle piantagioni europee, da provocare la morte di un numero incalcolabile di persone nello “Stato Libero” di Leopoldo II.  “Se un giovane africano non accontentava i suoi padroni, una mano o un piede, e talvolta tutti e due, gli venivano tagliati… Per dimostrare la loro diligenza in questo campo, i sorveglianti portavano ai loro superiori ceste piene di mani.” (31) La storia coloniale del XIX secolo, specialmente in Africa, è intessuta di simili atrocità; eppure ciò che misero in opera i Tedeschi nell’Africa Sud-occidentale, nel 1904, sorpassa tutti quegli orrori.

 

Qui noi assistiamo veramente, e per la prima volta nella storia moderna, a un sistematico piano di genocidio, lucidamente concepito e freddamente portato avanti sin quasi alla distruzione totale e definitiva di un popolo. E la cosa più grave è che le istruzioni per il genocidio vennero impartite quando già la campagna militare tedesca aveva spezzato la forza degli Herero, e la loro diligente applicazione continuò per mesi e mesi, accanendosi contro poveri gruppi di sbandati, donne e bambini compresi, che non erano certo in grado di costituire una minaccia per nessuno. Non c’era alcuna necessità militare che potesse, sia pur debolmente, giustificare un tale modo di procedere: infatti i capi indigeni avevano già domandato, ma invano, di potersi arrendere e deporre le armi.  I loro parlamentari erano stati presi a fucilate ancor prima della decisiva battaglia del Waterberg. Dopo lo scontro sul fiume Hamakari, i soldati tedeschi ricevettero l’ordine di sparare a vista contro qualunque indigeno, e pertanto non si ebbero più vere e proprie azioni di guerra, ma piuttosto un assassinio sistematico della popolazione.

 

L’ordine di sterminio (Vernichtungsbefehl) venne emesso personalmente dal generale von Trotha, il 2 0ttobre 1914, con lo scopo dichiarato di cancellare ogni segno della presenza herero all’interno della colonia.  Se questo popolo è riuscito a sopravvivere, sia pure decimato, fino ai nostri giorni, è perché alcune migliaia di Herero avevano trovato rifugio – come si disse – nel protettorato britannico del Bechuanaland, ed essi furono ben presto  imitati da tutti i loro compagni rimasti indietro, che furono in grado di farlo. (32)

 

Ecco come suonava il Vernichtungsbefhel diramato dall’alto comando tedesco agli Herero che, dopo la battaglia presso l’Hamakari, si trovavano ancora dentro i confini dell’Africa Sud-occidentale: “All’interno del territorio tedesco si sparerà contro tutti gli uomini della tribù degli Herero, armati o disarmati, con o senza bestiame. Nel territorio non verranno accolti nemmeno donne e bambini: essi verranno ricondotti al loro popolo, o fucilati. Questa è la parola rivolta agli Herero da me, il grande generale del potente imperatore di Germania.” (33)

 

Tale malvagio ordine decretato da von Trotha poteva sembrare che lasciasse un’ultima speranza di salvezza agli indigeni, ma in realtà equivaleva a una sentenza di morte: abbandonare il territorio tedesco significava affrontare una marcia spaventosa attraverso il Deserto del Kalahari, che ben pochi – e tanto meno i più deboli: donne e bambini – avrebbero potuto sopportare. Di fatto, molti furono gli Herero che morirono di sete mentre cercavano di raggiungere una impossibile salvezza al di là della frontiera.

 

 

  1. UN NAZISMO “ANTE LITTERAM”.

 

 

I Tedeschi non arrivarono a un tale passo per caso; il loro non fu un “normale” incidente di percorso coloniale, come accadde ad altre potenze imperialiste (ivi compresa l’Italia, per opera di uomini come Badoglio o Graziani). I semi di una violenza razziale spietata e sistematica sono rintracciabili molto addietro nella loro storia. Già nel XIV secolo le campagne di annientamento condotte contro Prussiani (popolo oggi scomparso), Lituani, Baltici e Polacchi dai Cavalieri Teutonici consentono di classificare questi ultimi- secondo l’espressione di un autore francese contemporaneo -come “le S.S. del Medioevo” (34) Più specificamente, nella cultura tedesca del XIX secolo si trovano fedelmente anticipati tutti i  motivi razzisti  e bellicisti, le cui conseguenze hanno macchiato il nome della Germania nel secolo successivo. Non aveva il filosofo Fichte auspicato l’espulsione degli Ebrei, e scritto che “dare loro dei diritti civili è possibile a una sola condizione: tagliar loro la testa in una sola notte e darne loro un’altra che non contenga una sola idea giudaica”? (35) Ed Hegel, il massimo filosofo dell’Idealismo,  non aveva forse teorizzato l’assoluta eticità” della guerra, e affermato che “L’Africano è un uomo allo stato grezzo”? Che presso gli Africani “i sentimenti etici sono di estrema debolezza, o, per meglio dire, non esistono affatto”; e che “la loro sfrenatezza non è suscettibile di alcuno sviluppo o educazione?” (36)

 

Tuttavia, è nell’età guglielmina (1888-1918) che la società tedesca viene incubando e alimentando i germi di una progressiva intolleranza politica e razziale. Mentre i miti pangermanisti ricevono nuova linfa da storici come Lambrecht, da geografi come Ratzel, da artisti come Wagner, da filosofi come Meinecke (e non, come la vulgata vorrebbe far credere, da Friedrich Nietzsche, che anzi ebbe sempre parole sprezzanti nei confronti del nazionalismo tedesco), al Reichstag è  rappresentato un partito antisemita – si chiama proprio così -, che passa dai 5 modesti seggi del 1890, ai 16 del 1893  ed ai 21 del 1907. (37) A questo clima complessivo di violenza culturale bisogna sommare gli effetti di una educazione militaresca che, troppo spesso, ottunde le coscienze ed impedisce il maturare di un senso di responsabilità individuale.

 

Non è forse vero che si rifugiavano dietro la disciplina militare e un cieco ossequio per l’autorità statale, quei soldati tedeschi che nel 1904 applicarono l’ordine di von Trotha, così come nel 1939-45 quelli che eseguirono le criminali direttive antisemite e antislave? Quelli che in più di mezza Europa, dalle Fosse Ardeatine, a Marzabotto, a Oradour, a Lidice si macchiarono di atrocità contro le popolazioni inermi, nel corso delle repressioni contro le formazioni partigiane?

 

Vi sono, tuttavia, degli storici occidentali i quali hanno tentato in ogni modo di minimizzare i fatti atroci dell’Africa Sud-occidentale. L’inglese D.K. Fieldhouse, ad esempio, ammette che “nocque alla fama della Germania il tentativo di scacciare gli Herero dalle loro terre e di sterminarli”. Però poi subito aggiunge: “Ma bisogna vedere questi orrori nelle giuste proporzioni. La Germania non aveva né esperti amministratori delle colonie né soldati”. E conclude: “La verità è che la Germania come potenza coloniale non fu peggiore delle altre prima del 1914… Il pretesto con cui fu privata delle sue colonie era infondato.” (38)

 

 

Fonte: da ARIANNA EDITRICE del 20 agosto 2007

Link: http://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=12965

 

 

 

IL GOVERNO TEDESCO DEVE CHIEDERE SCUSA PER I CRIMINI DELLE TRUPPE TEDESCHE

 

 

Bolzano, Göttingen, 7 gennaio 2004

 

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L’Associazione per i popoli minacciati (APM) ha chiesto al Governo tedesco di pronunciare le proprie scuse per la ricorrenza dei 100 anni del genocidio contro gli Herero in Namibia iniziato dalle truppe imperiali tedesche, le Schutztruppe, nella ex-colonia tedesca nell’Africa del Sud-Ovest. Berlino non può continuare ad utilizzare le richieste di risarcimento degli Herero pendenti negli Stati Uniti, per le quali non si intravede nessuna possibilità di successo, come scuse a basso costo per sottrarsi al riconoscimento di questi crimini; così scrive l’APM in una lettera al Cancelliere Schröder e al Ministro degli Esteri Fischer. Proprio in questo anno del centenario del genocidio, il Governo tedesco potrebbe impegnarsi affinché popolazioni particolarmente svantaggiate come gli Herero, i Nama e i San (Boscimani), possano trarre beneficio dalla riforma agraria in Namibia.

 

In occasione della ricorrenza annuale l’APM ha pubblicato un nuovo rapporto sul genocidio degli Herero e dei Nama. La rivolta degli Herero era scoppiata il 12 gennaio 1904 nell’allora colonia tedesca dell’Africa del Sud-Ovest. La lotta per la sopravvivenza di questi popoli nomadi che si opposero alla privazione dei propri diritti e alla progressiva perdita della propria terra a favore dei coloni tedeschi, diede inizio al primo genocidio commesso dalle truppe tedesche. Circa 65.000 Herero e 10.000 Nama furono vittime del genocidio.

 

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L’APM considera il crimine di genocidio come tale, in quanto le truppe imperiali eseguirono gli ordini di annientamento del proprio Generale luogotenente Lothar von Trotha; dopo aver sedato la rivolta nel sangue spinsero gli Herero nel deserto di Omaheke in totale assenza di acqua, tagliandoli fuori dal mondo. Migliaia di donne, uomini e bambini morirono di sete oppure “vennero risparmiati dalle proprie sofferenze” dai soldati. Dopo che i coloni tedeschi chiesero di sterminare con gli Herero allo stesso modo anche i Nama, anche questi insorsero e rimasero vittime della politica della “terra bruciata” del regime coloniale.

 

Al contrario della Chiesa, che ha dato un importante contributo alla rielaborazione delle proprie responsabilità nella politica coloniale tedesca e nel genocidio, il Governo federale tedesco nonostante i ripetuti appelli anche della nostra organizzazione non ha ancora riconosciuto le proprie responsabilità: tanto più importante sarebbe un tale gesto di riconciliazione per evitare una possibile escalation dei conflitti per la riforma agraria in Namibia, sull’esempio di quanto successo già in Zimbabwe. La Germania è per importanza il secondo paese contributore della Namibia. Ma tra gli Herero e i Nama, che oggi con 122.000 e circa 61.000 persone rappresentano insieme il 10,6% dell’intera popolazione, sono migliaia i senza terra che attendono un sostegno. Per questo sarebbe estremamente importante che proprio Berlino sostenga oltremodo la riforma agraria.

 

 

 

Fonte: visto su http://www.gfbv.it     Associazione Popoli Minacciati del 7 gennaio 2014

Link: http://www.gfbv.it/2c-stampa/04-1/040107it.html

 

 

THE MUSLIM BROTHERHOOD, NAZIS & AL-QAEDA CONNECTIO: DAI FRATELLI MUSSULMANI A AL-QAEDA

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Wednesday, October 11, 2006

http://www.canadafreepress.com/2006/loftus101106.htm

 

 

Quando lavoravo per il procuratore generale, mi è stata assegnata la ricerca classificata sull’Olocausto, così andai in una piccola città chiamata Suitland, Maryland, appena fuori Washington, ed è lì che il governo degli Stati Uniti seppellisce tutti i suoi segreti – – letteralmente. Ci sono venti piani sottoterra e ogni piano è grande un acro.

 

Avete visto il film “I predatori dell’arca perduta”? I sotterranei mostrati nell’ultima scena di quel film, sono molto simili a quelli di Suitland, solo che non sono organizzati come nel film. In quei sotterranei ho scoperto qualcosa di orribile.

 

 

Ho imparato che molti dei nazisti che perseguivo erano sul libro paga della CIA, ma la CIA non sapeva fossero nazisti, in quanto l’Intelligence Britannica gli aveva mentito. Quello che però l’Intelligence Britannica non sapeva era che, il loro bugiardo, era un certo Kim Philby, un doppio agente comunista – un piccolo scandalo della Guerra Fredda. Ma il nostro Dipartimento di Stato ha spazzato tutto sotto il tappeto e ha permesso ai nazisti di rimanere in America fino a quando non sono stato abbastanza stupido da andare in pubblico con esso.

 

Che cosa si fa quando si vuole andare pubblico con una storia come questa? Si chiama “60 Minutes”. È stato un grande periodo di tempo. Mike Wallace mi diede 30 minuti del suo show. Per molto tempo, è stato il segmento più lungo che “60 Minutes” abbia mai fatto. Quando l’episodio sui nazisti in America andò in onda, nel 1982, causò un piccolo tumulto nazionale. Il Congresso chiese udienze, Mike Wallace prese l’Emmy, e la mia famiglia, invece, ottenne solo minacce di morte. È stato un viaggio “fantastico”.

 

Poi, accadde una cosa divertente. Negli ultimi 25 anni, ogni spia in pensione negli Stati Uniti, in Canada e in Inghilterra, voleva che io fossi il loro avvocato, gratis naturalmente. Così ho avuto 500 clienti che mi hanno pagato 1 dollaro a testa. Quindi io sono l’avvocato peggio pagato in America, ma tra i meglio impiegati.

 

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Lasciate che vi faccia un esempio. Quest’anno un mio amico della CIA, di nome Bob Baer, ha scritto un ottimo libro sull’Arabia Saudita e sul terrorismo, si chiama: Dormire con il Diavolo. Avevo letto quasi un terzo quando mi fermai. Bob stava descrivendo di quando lavorava per la CIA e di come erano cattivi i files.

 

Ha detto, per esempio, che i file sui Fratelli Musulmani erano quasi inesistenti. C’erano solo pochi ritagli di giornale. Ho chiamato Bob e gli dissi, “Bob, è sbagliato. La CIA ha moltissimi file sui Fratelli Musulmani. Ci sono interi volumi su di loro. Lo so perché gli ho letti un quarto di secolo fa.” Egli mi disse: “Cosa vuoi dire?”

 

Ecco come si possono trovare tutti i segreti mancanti riguardo the Muslim Brotherhood – anche voi che state leggendo potete farlo. Gli dissi: “Bob, vai al computer e digita queste due parole nel motore di ricerca. Digita le parole “Banna Nazis”. Bob digitò le due parole e quello che ne venne fuori sono 30-40 articoli provenienti da tutto il mondo. Li lesse, mi chiamò e disse: “Oh mio Dio, che cosa abbiamo fatto?”

 

I Fratelli Musulmani erano un’organizzazione fascista ingaggiata dai servizi segreti occidentali, evolutasi nel tempo in quella che oggi è conosciuta come Al-Qaeda.

 

Ecco come cominciò la storia.

 

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Hitler e Al-Bana

 

Nel 1920 ci fu un giovane egiziano di nome Al-Bana. Al-Bana formò questo gruppo nazionalista chiamato la Fratellanza Musulmana. Al-Bana era un ammiratore devoto di Adolph Hitler, infatti gli scrisse frequentemente. Fu così persistente nella sua ammirazione verso il nuovo Partito nazista, che nel 1930, Al-Bana e la Fratellanza Musulmana divennero un braccio segreto dell’intelligence nazista.

 

I nazisti arabi avevano molto in comune con le nuove dottrine naziste. Odiavano gli ebrei; odiavano la democrazia; odiavano la cultura occidentale. Divenne la politica ufficiale del Terzo Reich sviluppare segretamente la formazione dei Fratelli Musulmani come Quinta Colonna: un esercito nazista segreto dentro l’Egitto.

 

Quando scoppiò la guerra, la Fratellanza Musulmana mise per iscritto che avrebbero appoggiato il generale Rommell e si sarebbero assicurati che nessun soldato inglese o americano fosse rimasto vivo al Cairo o ad Alessandria.

 

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La Fratellanza Musulmana ha cominciato ad espandere la propria influenza durante la Seconda Guerra Mondiale. Avevano anche una sezione palestinese guidata dal Gran Muftì di Gerusalemme, uno dei più grandi bigotti di tutti i tempi. Il Gran Muftì di Gerusalemme era il rappresentante dei Fratelli Musulmani per la Palestina. Questi erano senza dubbio arabi nazisti. Il Gran Mufti, per esempio, è andato in Germania durante la guerra e ha contribuito a reclutare una divisione internazionale delle SS Arabe. Aveva base in Croazia e la chiamarono la “Handjar” Divisione Musulmana, ed era destinata a  diventare il nucleo del nuovo esercito di fascisti arabi di Hitler che avrebbero conquistato la penisola araba partendo dall’Africa – grandi sogni.

 

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Alla fine della seconda guerra mondiale, la Fratellanza Musulmana era ricercata per crimini di guerra. I loro gestori segreti tedeschi sono stati catturati al Cairo. L’intera rete è stata smantellata dal servizio segreto britannico. Poi è accaduta una cosa orribile.

 

Invece di perseguire i nazisti Fratelli Musulmani, il governo britannico li ha assunti. Hanno portato tutti i fuggitivi criminali di guerra nazisti di origine araba e musulmana in Egitto e per tre anni sono stati addestrati in una missione speciale. Il servizio segreto britannico voleva usare i Fratelli Musulmani per abbattere lo stato infantile di Israele nel 1948. Solo poche persone nel Mossad lo sanno, ma molti dei membri degli eserciti arabi e gruppi terroristici che hanno cercato di strangolare lo Stato di Israele, erano nazisti arabi della Fratellanza Musulmana.

 

La Gran Bretagna non fu la sola. Il servizio d’intelligence francese ha collaborato rilasciando il Gran Muftì e contrabbandandolo in Egitto, così tutti i nazisti arabi si riunirono. Quindi, tra il 1945 ed il 1948, il servizio segreto britannico cercò di proteggere ogni nazista arabo che poteva, ma non riuscì a reprimere lo Stato di Israele.

 

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L’intelligence britannica poi, vendette i nazisti arabi all’agenzia predecessore di quella che divenne la CIA. Può sembrare stupido, ma è quello che accadde. L’idea era di utilizzare i nazisti arabi del Medio Oriente come contrappeso ai comunisti arabi. Proprio come l’Unione Sovietica finanziava i comunisti arabi, la CIA finanziava i nazisti arabi che ci combattevano contro. Abbiamo mantenuto la Fratellanza Musulmana sul nostro libro paga.

 

Ma gli egiziani s’innervosirono. Nasser ordinò che tutta la Fratellanza Musulmana sarebbe dovuta andare via dall’Egitto altrimenti sarebbero stati tutti imprigionati. Nel corso del 1950, la CIA evacuò i nazisti dei Fratelli Musulmani in Arabia Saudita. Ora, quando arrivarono in Arabia Saudita, alcuni dei protagonisti dei Fratelli Musulmani come Azzam, divennero insegnanti nelle scuole religiose arabe, combinando la dottrina nazista con questo strano culto islamico, il Wahhabiism.

 

Tutti pensano che l’Islam sia questa religione fanatica, ma non lo è. Il culto Wahhabita fu condannato come eresia più di 60 volte dalle nazioni musulmane. Però, quando i sauditi divennero ricchi, comprarono un sacco di silenzio. Si tratta di un culto molto duro. Tale culto era praticato solo da due nazioni: i Talebani e l’Arabia Saudita e non ha davvero nulla a che fare con l’Islam. L’Islam è una religione molto tranquilla e tollerante e, per i primi mille anni della sua esistenza, ha sempre avuto buoni rapporti con gli ebrei.

 

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L’Arabia Saudita divenne la nuova sede dei Fratelli Musulmani. Il fascismo e l’estremismo si mescolarono e vennero insegnate in queste scuole dove c’era un giovane studente, un certo Osama Bin Laden. Osama Bin Laden fu addestrato dai nazisti dei Fratelli Musulmani emigrati in Arabia Saudita.

 

Nel 1979, quando i russi invasero l’Afghanistan, la CIA decise di cacciare i nazisti arabi dalle celle frigorifere, dicendogli che li avremmo finanziati se avessero combattuto i russi. La CIA però dovette rinominarli. Il nome Fratelli Musulmani, insieme al suo cast nazista, era troppo conosciuto, così divennero il MAK: Maktab al Khidimat il Mujahideen.

 

La CIA mentì al Congresso dicendo che non sapeva chi era sul libro paga in Afghanistan. Ma non era vero. Una piccola sezione della CIA sapeva perfettamente che avevamo assunto i nazisti arabi e che li usavamo per combattere le nostre guerre segrete.

 

Dal 1979 al 1989, Azzam e il suo assistente Osama Bin Laden, salirono d’importanza, e vinsero la guerra. Cacciarono i russi dall’Afghanistan. La CIA disse: “Abbiamo vinto, andiamo a casa!”, lasciando questo esercito di fascisti arabi in Afghanistan.

 

I sauditi, però, non volevano che tornassero, così iniziarono a  pagare tangenti a Osama Bin Laden ed ai suoi seguaci per farli rimanere fuori dell’Arabia Saudita. Ora il MAK era diviso a metà. Azzam fu misteriosamente assassinato apparentemente da Osama Bin Laden stesso. Il gruppo radicale guidato da Osama venne chiamato Al-Qaeda.

 

Il secondo di Osama Bin Laden al comando, Ayman al-Zawahiri, è arrivato dal ramo egiziano dei Fratelli Musulmani, la Jihad islamica egiziana, il risultato di una Jihad islamica palestinese.

 

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Ci sono molti rami, ma sono tutti Fratelli Musulmani. C’è ne uno anche in Israele. L’organizzazione conosciuta come “Hamas”, è in realtà un capitolo segreto della Fratellanza Musulmana. Quando Israele assassinò lo sceicco Yassin, un mese fa, la Fratellanza Musulmana pubblicò il suo necrologio in arabo su un giornale del Cairo rivelando che egli era, in realtà, il capo segreto dei Fratelli Musulmani a Gaza.

 

Così la Fratellanza Musulmana è diventato questo veleno diffusosi in tutto il Medio Oriente e l’11/9, cominciò a diffondersi in tutto il mondo.

 

So che questo suona come una sorta di fantasia malata, ma andate al computer e digitate le parole “Banna” e la parola “nazista”, e vedrete tutti gli articoli che riguardano questo argomento. Queste sono tutte informazioni che la CIA ha cercato di nascondere ai suoi dipendenti. Non voleva che conoscessero il terribile passato.

 

Fonte: da Canada Free Press

Link: http://www.canadafreepress.com/2006/loftus101106.htm

 

 

Fonte: visto su L’Universo Vibra del 17 luglio 2014

Link: http://luniversovibra.altervista.org/the-muslim-brotherhood-nazis-al-qaeda-connection/

 

 

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